Un giornalista viene indagato perchè diffonde una notizia vera. Cioè la richiesta di un interrogatorio da parte di un mafioso rinchiuso a Milano dopo una lunga latitanza. Perquisiscono la sua scrivania in redazione, la sua abitazione, sequestrano computer, portatile, tablet, lo portano alla Dia per essere "identificato", caso mai non fosse lui ma un altro, caso mai gli investigatori non lo conoscessero benissimo, così come il magistrato che ha ordinato la perquisizione. Nello stesso momento su un tavolo della questura, agenti e funzionari di polizia si sforzano per confezionare l'ennesima bufala, la miliardesima frottola da impacchettare e fornire ai giornalisti. Scrivono (lo so, è una parola grossa) un comunicato stampa che racconta il ritorno del cosiddetto "anonimo napoletano", una presunta fonte anonima che miracolosamente fa arrestare trafficanti di droga e scoprire partite di eroina, cocaina ed hashish. Una balla colossale, grottesca e ridicola, se non fosse indicativa del concetto che magistratura e forze dell'ordine hanno della stampa.
Va da sè che l'anonimo napoletano non è mai esistito, la fonte anonima che fa catturare i trafficanti è un'invenzione degli investigatori che non vogliono dire una verità banale. Quei sequestri si fanno perchè ci sono le intercettazioni telefoniche e ambientali, gli indagati vengono pizzicati con la droga addosso perché da tempo sono seguiti e intercettati. Così confezionano bugie, ed i giornalisti le pubblicano senza un minimo di verifica, senza pudore, senza controllo. Ma il vero guaio è che questo accade puntualmente, le balle vengono credute, la Rai tempo fa ci ha perfino confezionato un servizio sull'anonimo napoletano (sic). Storie minime, si dirà.
Ma il giornalista indagato per avere scritto la verità e le balle in serie raccontate dalla polizia e credute, o comunque pubblicate dai giornalisti, ci dicono a che punto siamo arrivati. Quanto sia pericolosa la china che stiamo attraversando. Il rapporto tra informazione e magistratura, tra il giornalista e la sua fonte, è una questione seria, che costituisce in fondo il termometro della nostra democrazia. Temo che anche questo sia un frutto avvelenato del berlusconismo. Pur di combattere Silvio, abbiamo firmato troppe cambiali in bianco. Una di queste sicuramente ai giudici. Per anni, per 20 anni, tutto quello che hanno fatto era giusto, sacrosanto. Combattevano il nemico comune e andava perdonato tutto.
Adesso ci stiamo accorgendo dei limiti di questo ragionamento. La magistratura è un potere, esattamente come il berlusconismo. E il potere non ammette critiche e controcanti. Deve essere esercitato in regime di monopolio. Quando un cronista pubblica una notizia scomoda, per la quale non non c'è stato il via libera dalle stanze della procura, il giornalista finisce nei guai. Ha messo in imbarazzo il potere e dunque gli va lanciato un messaggio preciso. A ruota seguono le forze dell'ordine. Il concetto che hanno loro della libera stampa è ancora più tragico. Ma in realtà è sempre lo stesso, dai tempi di Scelba a quelli odierni. I giornalisti devono fornire solo versioni ufficiali, ricopiare comunicati, al massimo svirgolare qualche velina. Per questo sui tavoli della questure escono ancora comunicati del genere che vengono pubblicati da tutti gli organi di informazione senza cambiare una frase. Anche nei confronti delle forze dell'ordine abbiamo firmato cambiali in bianco, qualcuno fino a poco tempo fa andava ad applaudire sotto le finestre delle questure le catture di latitanti di mezza tacca. Gli stessi poi sono finiti sul libro paga del ministero dell'Interno per il loro volontariato (ex, dato che oggi sono professionisti) antiracket. E agli investigatori è stata attribuita una virtù salvifica. Andavano bene per qualsiasi ruolo, per qualsiasi incarico. Una deriva parafascista. Ci stiamo accorgendo che era solo un tragico equivoco.