Gira a pieno ritmo la macchina della promozione del tavolo di filiera dell’olio di oliva italiano. Nel corso dell’ultima edizione di Cibus, l’ Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, già Istituto per il commercio estero, e l’Unione Nazionale tra le Associazioni di Produttori di olio d’oliva (UNAPrOl), hanno dedicato due sessioni di incontri alle principali catene di distribuzione americane. Non è un caso. Per l’olio extravergine di oliva italiano il mercato USA vale ogni anno più di un miliardo e 300 milioni di euro e l’Italia esporta oltreoceano più di 120.000 tonnellate di prodotto all’anno. L’olio DOP e IGP, però, rappresenta solo il 5% del totale esportato, mentre un altro 15% è rappresentato esclusivamente da oli extravergine di oliva di alta qualità proveniente dall’offerta della biodiversità italiana; il resto, circa l’80% del mercato, è costituito da blend di oli extravergine selezionati dall’esperienza delle aziende olearie italiane che detengono, da sempre, quote significative di mercato negli USA.
E qui entra in gioco la vecchia questione del made in Italy e della contraffazione del prodotto italian sounding. Un problema che si trascina da tempo. Solo due anni fa The New York Times faceva scalpore affermando che negli Stati Uniti il 69% del prodotto in vendita sarebbe adulterato. “Le olive in realtà provengono da Spagna, Marocco e Tunisia – si leggeva – in Italia si aggiunge olio di soia o anche peggio”. Secondo il quotidiano di New York, l’olio extravergine d’oliva sarebbe contraffatto in realtà con oli vegetali, beta-carotene e clorofilla per nascondere il sapore e dargli il colore giusto. Poi sarebbe distribuito negli USA con il marchio made in Italy. L’articolo ha sollevato un vespaio di polemiche ma il problema sulla garanzia dell’olio made in Italy esiste da (troppo) tempo: per questo motivo i produttori italiani hanno proposto un marchio di garanzia certificato e condiviso da tutta la filiera.
A spiegare la proposta è il presidente di UNAPrOl, David Granieri: “Il marchio consiste nel creare una filiera tracciata e racchiude quattro concetti: ambientale, perché deve essere capace di tutelare risorse, territorio e biodiversità; economico, perché deve garantire reddito equo e sviluppo; etico, perché deve salvaguardare sicurezza sul lavoro, prodotti ecosostenibili e riciclabili; infine salutistico, perché la filiera tracciata esalta le proprietà del prodotto con parametri nutrizionali più restrittivi di quelli previsti dalla legge”. Insomma non un certificato in senso classico, con requisiti da rispettare e un’etichetta da ottenere; piuttosto, la mission della proposta è creare le condizioni per cui non si debba più ricorrere ad adulterazioni e truffe. Al momento però il progetto è solo sulla carta: occorrono investimenti, il sostegno delle istituzioni e l’impegno di imprenditori e produttori. L’idea è ambiziosa, ma basterà a ottenere la fiducia di un mercato iperperformante e pragmatico come quello statunitense?
Eppure qualcosa è cambiato da quel fatidico articolo di The New York Times. La Coldiretti, la principale associazione degli agricoltori italiani, non ha dubbi: i controlli sul cibo e sui produttori sono molto più forti di prima. Sia in senso giuridico che amministrativo. Granieri è d’accordo: “L’Italia si conferma al primo posto nel mondo per norme in materia di anticontraffazione alimentare”. Dalle istituzioni alle associazioni di categoria, tutti sono d’accordo nel ritenere che l’attuale sistema di norme a tutela dei consumatori del Bel Paese è preso come modello da altre nazioni per contrastare le frodi alimentari. “Le commissioni Giustizia e Agricoltura della Camera – afferma Granieri – hanno migliorato il decreto legislativo scongiurando il pericolo della depenalizzazione di alcuni reati”. Secondo il numero uno dei produttori, la legge Mongiello è la mossa che ha il merito di aver cambiato il sistema e potrebbe far chiudere il parco giochi delle adulterazioni: “Per questo va rafforzata – afferma – creando un sistema di controlli incrociati e integrati”.
Intanto però l’allarme sulla sicurezza alimentare e sul falso made in Italy, tra cui l’olio, resta alto. L’ultimo rapporto Extract sulla percezione dell’olio extra vergine di oliva nel mondo, ha rivelato che il 99% dei consumatori, soprattutto del mercato cinese, americano e australiano, considera che ogni cibo italian sounding potrebbe essere contraffatto. Eppure l’84% dei consumatori americani, il 79% degli europei e il 68% degli asiatici, si dicono disponibili a comprare olio italiano anche se hanno paura di trovarsi di fronte un prodotto adulterato. È comunque un danno enorme per il made in Italy, una spada di Damocle che pesa particolarmente sulle aziende olivicole.
Eppure le basi per ripartire sui mercati esteri ci sono. A livello mondiale, l’Italia è ancora tra i paesi produttori di olio più conosciuti e apprezzati. In Europa e in America i consumatori sanno che nel Bel Paese si produce olio extravergine al Sud, al Centro e al Nord; la metà è consapevole che il sapore e le caratteristiche del prodotto dipendono dal territorio. Il 75% dei consumatori si dichiara propenso all’acquisto se si tratta di prodotto italiano e la maggioranza assoluta dichiara che al momento di acquistare un olio extra vergine d’oliva non bada al prezzo per avere la massima qualità. Infine, nel mondo quasi il 40% dei consumatori usa con “molta frequenza” l’olio italiano; i mercati principali sono Francia, Austria e Russia, USA, Centro e Sud America.
In generale le previsioni per il mercato USA dell’olio italiano sono buone. L’ICE ha avviato un piano di promozione e informazione negli USA che prevede eventi fieristici e concorsi con il coinvolgimento dei principali importatori statunitensi. In programma vi sono altri eventi per la promozione della filiera dell’olio di oliva italiano, come la partecipazione all’Olive Oil Conference di Chicago di luglio. D’altronde sia i retailer che i consumatori USA chiedono informazioni e garanzie in termini di qualità, origine e etichettatura. In sostanza, vogliono assicurazioni riguardo alla tracciabilità del prodotto italiano. Al resto ci pensa il made in Italy.
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