A Soho Cenerentola in abito da ballo sale sulla sua carrozza mentre la fata turchina decide di prendere la bicicletta. A Grand Central un cavaliere scruta l’orizzonte in attesa del nemico e un ninja giapponese si mimetizza in abiti comuni a Chelsea. Incantatori di serpenti attirano la curiosità dei passanti nel Financial district e supereroi fluttuano nel vuoto a Washington Square Park.
New York e i suoi personaggi, New York e i suoi panorami, New York e i suoi contrasti.
C’è tutto e anche di più in Cinematic Thief Of Life, un libro dalle mille letture, a seconda di chi lo guarda: una raccolta di attimi rubati, immortalati in una cornice.
“Ho cominciato senza uno scopo preciso, solo per piacere – ci spiega l’autore Mirco Pasqualini – Più continuavo, più miglioravo, più mi appassionavo. In un anno, ho raccolto quasi diecimila scatti. A quel punto mi sono fermato a riflettere, ho guardato meglio le immagini e mi sono reso conto che, inconsciamente, tutte quelle foto avevano un denominatore comune: scappare dalla realtà stressante dalla vita professionale a New York, difficile, competitiva, pressante, ed entrare nella realtà della città, delle sue persone con le loro particolari storie”.
Il tuo progetto si chiama The Cinematic Thief of Life, il primo libro New York Stage è già stampato e sta iniziando ad essere distribuito. Ma hai già in mente altri due libri. Qual è l’essenza di queste tue raccolte fotografiche?
“Credo che sia la ricerca di una celebrazione della vita, che in un certo senso può essere vista come la scena di un film, un film che noi stessi ogni giorno interpretiamo. In una delle più grandi metropoli del mondo, la vita comune diventa straordinaria: non sei mai una persona qualunque, perché hai una città che ti rende sempre protagonista, unico e speciale. Per questo motivo mi piace immortalare momenti con un taglio quasi surreale, come se stessi girando una storia per il cinema. Ma il copione lo lascio poi all’immaginazione dello spettatore”.
Come hai iniziato?
“Fotografare è sempre stato uno strumento creativo per me. Ne ero appassionato in Italia, poi una volta trasferitomi qui, la frenesia dei ritmi lavorativi mi aveva travolto e avevo attaccato la macchina al chiodo. Così è successo, per assurdo, che io abbia ricominciato a fotografare e a dipingere quando mi sono trasferito per due anni in Arizona. Pensare che lì non c’era poi granché da ritrarre: in pratica solo cactus e deserto! Quando sono rientrato a New York, ho cercato di tenere stretta la mia ritrovata macchina fotografica e ho deciso di continuare a scattare perché la città dà molti spunti a chi li sa cogliere. È stato un modo per staccare il naso dal telefonino, per distogliere la testa dei pensieri del lavoro, mi sono riappropriato della mia vita in primis e di un modo di mantenere la mia mente viva”.
Quali sono i tuoi palcoscenici preferiti?
“Adoro Downtown Manhattan, Soho, Chelsea e il Financial district. Ma la mia più grande fonte di ispirazione, e di scatti, è sicuramente Chinatown: non solo rimane una delle aree più “autentiche” della città ma è ricca di storie incredibili, di oggi e di ieri. Mi sono appassionato alla famosa zona Five Points che ora non esiste più, o per meglio dire, non esiste più in superficie: ho scoperto infatti che quel luogo era così pericoloso che nessuno voleva attraversarlo e così sono state realizzate delle gallerie sotterranee che corrono sotto tutto il quartiere”.
Le tue immagini sono molto originali: come scovi questi soggetti?
“Osservo, osservo moltissimo…Mi sento come un cacciatore in un safari e mi sembra ora anche di aver sviluppato un certo “fiuto”, un sesto senso particolare, quindi seguo l’evolversi della vita davanti a me e scatto nel momento giusto. Non sempre funziona e a volte non “catturo” nulla, ma anche questo è il bello del gioco”.
Come reagiscono le persone quando si accorgono che le fotografi? Non ledi la loro privacy?
“La legge americana è in un certo senso più permissiva e, essendo persone sul suolo pubblico, non commetto nessun reato. Le reazioni sono per la maggior parte di complicità: stanno al gioco, recitano il loro ruolo”.
Quali saranno i protagonisti dei tuoi prossimi volumi?
“Ci sarà Manhattan Stage e The Dapper Heritage of the Prohibitionist Era of NYC. Quest’ultimo è un progetto a cui tengo molto, una collezione di scene dai locali speakeasy, dai gentlemen’s club dove negli anni Venti gli uomini si incontravano. Nell’era del proibizionismo, i cittadini di New York si erano riappropriati della città a modo loro e si è formata una corrente culturale che rimane molto influente ancora oggi. Un palcoscenico di vita parallela in cui gli anonimi diventano protagonisti e in cui i protagonisti della vita alla luce del sole, persone potenti e influenti, si mimetizzano e abbassano i toni per rilassarsi e interpretare altri ruoli”.
Altri progetti in tasca?
“Una mostra di pittura… Faccio parte di un collettivo di artisti intitolato A moment in time che è stato inaugurato in questi giorni alla Agorà Gallery a Chelsea e si chiuderà il 9 giugno”.
Il mondo è sempre più virtuale e tu invece rendi reale la tua creatività sulla tela e stampando libri. Non è una scelta un po’ controcorrente?
“Proprio perché la vita sta diventando sempre più immateriale, sento il bisogno di oggetti fisici. Adoro i dipinti, adoro sfogliare i libri. È come un rito e mi serve anche per staccare dalla quotidianità del mio lavoro che è anch’esso virtuale, all’ennesima potenza! Sono un digital designer che studia come i consumatori si muovono all’interno delle piattaforme internet e delle applicazioni mobili e cerca di creare per loro la migliore esperienza di utilizzo. In pratica sono tra i ‘responsabili’ di tutte quelle persone che non staccano il naso dal telefonino!”.
Anche il tuo lavoro gira attorno all’osservare le persone e alla creatività. Come hai iniziato?
“Da ragazzino a 12 anni mi divertivo a creare i miei videogiochi, poi un paio d’anni dopo ero già affascinato dal design 3D. Ho iniziato presto, quasi per gioco, ma quando è arrivato il momento di scegliere le superiori, visto che sono di Rovigo e “meglio scegliere un lavoro serio”, sono andato a studiare ragioneria. Ovviamente non ho mai visto la contabilità in vita mia… Ho seguito la mia passione, il mio istinto, ho lavorato per varie aziende, sono stato titolare anche di una mia agenzia”.
Il tuo arrivo a New York: programmato o per caso?
“L’ho cercato. Volevo cambiare realtà, lasciare l’Italia. Ho mandato molti curriculum, contattato aziende qui. In poco più di 6 mesi ho ricevuto una risposta positiva e sono partito. Era il 2010”.
Le tue foto colgono l’essenza dei newyorchesi. Ti senti parte della città?
“Adesso sì. Ma c’è voluto tempo”.
Un consiglio per gli italiani che si trasferiscono qui?
“In una grande città non è facile tessere relazioni, a volte un’amicizia può essere impegnativa quasi come un lavoro. Spesso si abita molto distanti l’uno dall’altro ed è difficile incontrarsi. Il mio consiglio per integrarsi è di dimenticare per un attimo chi si è, da dove si viene e di provare a vivere come gli altri, cercando di capire il loro punto di vista. Lo so, non è facile… ma funziona”.
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