Non sono così lontani i tempi in cui, prima di andare all’estero, si metteva il pacco di Barilla in valigia per sentirsi meno soli; i più fortunati potevano vantare una bottiglia di sugo fatto in casa, messo di straforo in valigia dalla mamma. Oggi, invece, tra chef pluristellati e sperimentazioni culinarie, è cambiato il modo di comunicare: un contorno diventa un “letto”, una salsa è una “riduzione”, la carne macinata è una tartare.
In Italia la cultura della (buona) cucina non è mai mancata e l’agroalimentare, insieme ad abbigliamento e arredamento, è una delle tre “magnifiche A” dell’export nazionale. Anzi, ora che si sta riscoprendo il valore del cibo e il made in Italy è diventato un brand riconosciuto non solo per la pasta e la pizza, l’export italiano agroalimentare sta entrando in una fase nuova, ricca di opportunità. Alcuni l’hanno definita “la sfida dei 50 miliardi”: è il valore annuo che potrebbe raggiungere l’export italiano di agrifood fino al 2020, anche sulla spinta di una vetrina d’eccezione come l’Expò.
A fare due conti è la SACE, società che offre assicurazione e credito all'esportazione e agli investimenti italiani all’estero: in base all’ultimo rapporto, se i primi segnali di ripresa dovessero trovare conferma, l’esportazione agroalimentare italiana si potenzierà con un incremento di oltre sette miliardi già da quest’anno. Considerando che nel 2013 il valore è di 33 miliardi, vuol dire che entro il 2020 si può raggiungere la quota di 50 miliardi.
Troppo ottimismo? Secondo gli economisti della SACE, no. È vero che l’Italia ha una quota nel mercato globale pari al 3,1%, ancora troppo poco rispetto a grandi esportatori e produttori come USA (10,3%) e Cina; ma dal 2007 l’export agroalimentare italiano è in crescita costante, allo stesso ritmo di Spagna, Francia, USA, e più di Cina e Germania. Dal 2011 a oggi, anzi, l’export italiano ha avuto un’accelerazione, con una crescita di +6,4%, rispetto ai +4,7% del triennio 2007-2010.
È vero che i nostri concorrenti come Francia e Spagna hanno crescite a due cifre nei mercati emergenti europei, ma è anche vero l’export italiano ha saputo accelerare proprio negli anni più duri della crisi conquistando soprattutto i mercati extra UE con un ottimo +15%; ha dimostrato di essere strutturalmente forte e le aree dell’Est Europa, in fondo, possono aspettare. Inoltre l’export italiano può vantare molteplici prodotti di punta nei mercati internazionali, con picchi per la pasta (37,5%), l’olio d’oliva (25%), il vino (19%), i salumi (11,5%), formaggi (9%). Nel primo caso l’Italia è leader mondiale, mentre la Germania ha quote più alte nei formaggi, USA e Cina sono i nostri maggiori rivali nella frutta fresca e nell’industria conserviera, infine i due antagonisti storici: la Francia che con il 30% ci batte sul vino e la Spagna che col 37% primeggia nel comparto dell’olio.
Questo vuol dire che l’export italiano ha ancora ampi margini di crescita, sia in termini di prodotto che di area geografica. Gli economisti della SACE li hanno calcolati: con un indice di 1.712, la Gran Bretagna è il mercato con maggior potenziale di crescita per i prodotti alimentari italiani, segue la Germania con 1122, la Francia con 910, il Canada con 450, l’Olanda con 359, il Giappone con 339, la Russia con 312, la Spagna con 245. Gli USA sono terzi, con un indice di crescita potenziale di 964. Tuttavia sono uno dei mercati più importanti per l’export italiano: secondo Mauro Loi, esperto di grande distribuzione e promotore del convegno sulle piccole e medie imprese del made in Italy, Big & Small, gli USA sono un punto di riferimento tradizionale per l’export italiano perché “Gli americani vedono il nostro prodotto con grande attenzione e voglia di acquisto. Per questo motivo già dall’anno scorso sono stati ridotti in maniera significativa i controlli e le dogane verso i nostri prodotti, specie per alcuni tipi di salumi. Insomma i nostri prodotti hanno un forte richiamo tra il pubblico americano”. E questo vuol dire che il mercato USA è più che mai un’opportunità per l’agrifood italiano.
Tuttavia, secondo Loy, bisogna “saper promuovere” il prodotto: “Il mercato americano è vasto e variegato, diversissimo al suo interno. Da sola la piccola impresa italiana non può essere competitiva in tutte le fasi della filiera. Un esempio è significativo: i piccoli produttori della mela della Val di Non, nel Trentino, si sono consorziati e hanno stipulato un contratto con Walmart, il più grosso distributore americano. A distribuire la mela trentina negli States ci pensa lui e il successo è assicurato. Per una impresa italiana media è difficile se lo deve fare da sola”. Insomma il segreto per l’export italiano è aggregarsi in reti di imprese per essere più competitivi ed evitare di dare vita a iniziative isolate: il mercato USA, con l’esempio delle mele del Trentino, lo dimostra. In questo senso gli USA sono strategici se l’Italia vuole raggiungere i suoi obiettivi; il resto lo potrebbe fare l’Expo, il cui tema è proprio l'alimentazione: un’opportunità da non perdere. Il lavoro da fare non manca, ma, se giocherà bene le sue carte, l’Italia può raggiungere la quota di 50 miliardi.