Posto che le classifiche lasciano sempre un po’ il tempo che trovano, se non si può dire di avere letto “tutto”, o almeno una buona parte di esso, non possiamo sottrarci al rito dei bilanci di fine anno.
Il miglior italiano
Sono contento di avere letto questo libro di Paolo Cognetti, Le otto montagne, in chiusura d’anno. In questo modo non credo di avere dubbi: è il romanzo italiano più interessante che mi sia capitato nel 2016.
Di Cognetti, scrittore milanese che si divide fra la montagna italiana e New York, avevamo già scritto in passato, per via di due sue guide “sui generis” dedicate alla Grande Mela, in realtà due colte narrazioni che della metropoli svelano archetipi e aneddoti. Cognetti aveva anche pubblicato alcune raccolte di racconti con Minimum Fax. Per il suo esordio nel romanzo, però, è approdato ad Einaudi.
All’inizio ho affrontato questo libro – suddiviso in tre parti, corrispondenti a tre diverse stagioni della vita dei protagonisti – con un po’ di diffidenza. Mi sembrava troppo tipico, il solito dualismo città-casermoni-lavoro/montagna-natura-libertà, ma anche ragazzo borghese di città/ragazzo selvatico di montagna (inutile, i fantasmi di Heidi e della sua amica Clara sono sempre lì che aleggiano nelle storie di montagna). Invece, proseguendo nella lettura, ho scoperto che è pieno di cose vere, vere in una maniera disarmante. L’andare in montagna dei padri, delle madri e dei figli, ad esempio, così diverso: i padri calamitati dalle vette, che conquistano lentamente, passo dopo passo, armati della giusta attrezzatura, lasciando qualche messaggio nei libri che spesso si trovano ai piedi delle croci di cima, i figli che dapprima li seguono e poi si stufano, più attratti magari dalla danza verticale del climbing (e l’essenza del conflitto generazionale è già tutta qui). Mentre le madri rimangono volentieri a quote più basse, ad esplorare il bosco e i suoi tesori, fiori e frutti, che poi portano a casa, nelle loro cucine.
Ma anche i cambiamenti che la montagna ha conosciuto nel tempo, il suo essere diventata, ad un certo punto, terra di conquista per i turisti di città, e anche il suo essere stata progressivamente abbandonata dai pastori e dai malgari, reinselvatichendosi (la montagna non sarà mai il mare). Salvo a venire riscoperta dalle nuove generazioni, che lentamente tornano a salire in quota, a praticare gli antichi mestieri. Sono cose che stiamo vedendo succedere anche ora, nelle Alpi, senza tanto clamore. Ragazzi, a volte anche con titoli di studio elevati, che ad un call center o a un precariato in fabbrica preferiscono le capre e le coltivazioni biologiche, magari sposandole all’agriturismo.
Ma nel romanzo di Cognetti non c’è un facile ritorno alla natura, non c’è idillio pastorale a là Thoureau. Alla fine certe scelte si pagano. Oppure, forse, non sono nemmeno scelte, sono un portato delle inclinazioni individuali, dell’educazione e del corredo genetico (per così dire) che uno si porta appresso. Insomma, in fondo alla decisione di rimanere in montagna non c’è necessariamente quel paradiso new age che qualche cittadino potrebbe immaginarsi.
Il romanzo di Cognetti però è in primo luogo un romanzo di sentimenti. Racconta un’amicizia maschile, che unisce due bambini attirati dai boschi, dai torrenti e dalle malghe abbandonate. Un’amicizia che resiste al passare degli anni, dagli ‘80 ai giorni nostri (lo scrittore è del 1978), che si trasforma, rinsaldandosi, anche se uno resta, affonda le sue radici nel luogo dove è nato, e l’altro va, a Torino e poi per il mondo, a girare documentari e a fare il “giro delle otto montagne”, come lo chiamano in Nepal.
Ci sono anche le incomprensioni che si generano con il trascorrere del tempo fra i padri e i figli, che si ricompongono solo tardivamente, per vie traverse, ad esempio grazie ad un lascito, una casa diroccata, addossata ad una parete di roccia, in un luogo impervio, dove non arrivano né acqua né luce, da ristrutturare con pazienza. E c’è l’amore silenzioso, empatico, fatto di gesti e di tanto lavoro in comune, delle persone che vivono isolate, in ambienti difficili, per nulla supportate da qualche forma di welfare, per nulla consolate dalle varie forme di intrattenimento mediatico-mercantile.
Questo è un libro che non contiene neanche una frase-citazione, il che mi pare una scelta coraggiosa. Ricco di dettagli ma restio al lirismo che sarebbe facile accompagnare alla montagna. Deve costare qualcosa, ad uno scrittore, una rinuncia così. Ed è un libro che non contiene scene di sesso: l’amore fisico è appena accennato, pudicamente, o a volte apertamente sublimato dagli stessi protagonisti, grazie al continuo incontro-confronto con la natura. Ci sono in compenso almeno tre personaggi femminili molto ben delineati, per quanto non occupino mai il centro della scena: la madre del narratore, la sua fidanzata-per-pochi-mesi, che poi diventa la compagna dell’amico, ed infine la madre di quest’ultimo, vero archetipo della montanara, silenziosa e solitaria, forse consapevole che in un tempo non lontano quelle come lei, se si attardavano troppo nei boschi senza un motivo preciso, rischiavano di essere bruciate come streghe. C’è, infine, la solitudine, una compagna di viaggio che chi sceglie la montagna deve essere capace di gestire, fino alla fine.
Ho sempre associato i monti agli scrittori tedeschi, Mann, Schnitzler, Büchner, Musil, Bernhard, Walser, Zoderer, anche se ci sono degli italiani che ne hanno raccontato, Buzzati, Rigoni Stern, Moravia (nel caso di quest’ultimo anche con una storia piuttosto imbarazzante ambientata in Trentino, che l’azienda di promozione turistica locale si rifiutò di utilizzare). Più di recente, De Luca, Corona e Sartori, fra gli altri. Il romanzo di Cognetti si affianca a tutti loro senza timidezze, ed è stato già definito un “classico”, oltre ad essere stato venduto alla Fiera di Francoforte ad una trentina di paesi.
Il miglior americano
Tornando alle classifiche di fine anno, mi sbilancio anche sul versante americano, per dire, senza pretesa di originalità, che il romanzo più bello che ho letto nel 2016 è quello di Jonathan Safran Foer, Eccomi (titolo originale, Here I Am). Un libro che esplora l’ennesima variante della crisi di coppia, nel microcosmo di una famiglia ebreo-americana, ma lo fa con un’intensità che lascia senza fiato. Sullo sfondo, un terremoto devastante in Medio Oriente, che apre la strada ad un nuovo conflitto fra Israele e Paesi arabi. In primo piano, una coppia di coniugi scivolata nella spirale discendente della separazione, al cospetto dei figli che intanto crescono e prendono le loro strade, affrontando un Bar Mitzvah a lungo rimandato e le insidie della realtà virtuale. Il confronto con i parenti in visita da Israele, e la loro smagata vitalità, rappresenta da solo un motivo sufficiente per leggere il libro. Ma il vero virtuosismo è racchiuso nei dialoghi, che Safran Foer gestisce con straordinaria perizia.
Altri titoli
Fra gli altri titoli del 2016, Le ragazze di Emma Cline, inquietante come un film di Sofia Coppola, la Trilogia di Holt di Kent Haruf, morto nel 2014, La prima verità di Simona Vinci, sul tema del trattamento riservato alla malattia mentale (in un’isola del Dodecanneso dove venivano confinati anche i dissidenti politici, ma con frequenti rimandi ad altre realtà e situazioni), e nel campo della saggistica ’80 l’inizio della barbarie di Paolo Morando e Al caffè degli esistenzialisti di Sarah Bakewell (davvero imperdibile per chi ha nostalgia di Sartre, de Beauvoir, Camus e compagnia, cioè di quando la filosofia era capace anche di dare lezioni di stile e di insegnare come vivere). Di qualcuno di questi abbiamo già parlato, altri li riprenderemo all’inizio del prossimo anno.
E’ stato anche l’anno di Jonathan Franzen con il suo Purity, ovviamente. Romanzo attesissimo, un po’ “cinematografico” nel plot (compreso finale ad effetto), sicuramente attuale in quanto a tematiche, che però a mio giudizio non raggiunge i vertici raggiunti da Le correzioni e Libertà.
In quanto alla mia personale lettura più deludente, purtroppo è stata l’ultimo Don De Lillo, Zero K.
Riletture
Le riletture per le vacanze? Ne consiglio tre: Erano solo ragazzi in cammino (2010) di Dave Eggers, per capire che cosa significa essere profughi attraverso una narrazione avvincente come un romanzo di avventure, Sull’ansa del fiume (1979) di V.S. Naipaul, premio Nobel per la letteratura 2001, uno sguardo lucido sulla decolonizzazione in Africa (ma anche sul meticciato culturale, in un contesto un po’ anomalo per il lettore occidentale), e Chronicles vol. 1 (2004) del neo-Nobel Bob Dylan quattro tessere sparse di un immaginario mosaico autobiografico mai concluso.
Buoni libri a tutti e buon inizio 2017.
Paolo Cognetti, Le otto montagne, Einaudi, 2016.