Quand’è che il neoliberismo ha iniziato a prendere piede? Quand’è che l’io ha preso il posto del noi, o meglio ancora, gli emergenti e gli affluenti hanno scavalcato i progressisti? Quand’è che l’egoismo, il narcisismo, il razzismo hanno reso obsolete le idee di giustizia, uguaglianza, solidarietà? Oppure, detta in maniera più terra-terra: quand’è che abbiamo barattato il Capitale di Marx con la rivista Capital? Negli anni ’80, scrive il giornalista Paolo Morando nel suo ’80, l’inizio della barbarie, edito da Laterza.
Quello di Morando è un libro che rappresenta una risposta secca e ben argomentata alle nostalgie generazionali andate in scena ultimamente, fra un’intervista a Freccero e un romanzo di Floris. E che ci riporta invece ai ragionamenti di quegli anni sul cosiddetto “riflusso”, dopo la stagione delle utopie, delle “rivoluzioni” (vere, presunte, immaginate), dei conflitti sociali che avevano determinato cambiamenti epocali nell’Italia bigotta e democristiana (pensiamo già solo allo Statuto dei lavoratori, 1970, e alla Legge sul divorzio, anch’essa del ’70 e sottoposta a un epocale referendum nel 1974).
Il giudizio di Morando è senz’appello e del resto il titolo del suo libro lo dichiara esplicitamente: gli anni ’80 sono stati la pietra tombale delle speranze nate con il ’68, e hanno aperto una stagione di “barbarie” che dura ancora oggi. È un giudizio forse troppo spietato: gli Eighties sono stati caratterizzati a loro volta da importanti processi di modernizzazione (certo convulsa e spesso ingannevole, volgare, come scrisse fra gli altri Giorgio Bocca), chiudendo al tempo stesso con la stagione delle contrapposizioni ideologiche senza sbocco (con qualche tragico strascico: chi scrive ricorda ancora l’omicidio del professor Roberto Ruffilli, docente all’Università di Bologna, da parte delle Brigate Rosse, nel 1988. Solo un anno prima della caduta del Muro di Berlino!). Sono stati, inoltre, loro malgrado, anche anni di disperata resistenza umana – quindi insieme politica, etica ed estetica –pur se per una minoranza di persone, quelle che non si rassegnavano al Supertelegattone e ai film dei Vanzina.
Tuttavia, è innegabile che negli anni ’80 soffi sull’Italia (e sul mondo) un vento nuovo rispetto al decennio precedente. A inaugurare la stagione del neoliberismo era stata l’elezione di Margaret Tatcher a primo ministro britannico nel maggio 1979, a cui seguì nel 1981 l’inizio della prima presidenza di Ronald Reagan.
Il libro di Morando però vola più “basso”, ed è questa la sua forza. Ci riporta a eventi e situazioni che si sono generate all’interno della società (civile?) italiana, e che da lì, dalla “pancia” del Paese, non se ne sono mai andati del tutto. Ad esempio le scritte “forza Etna” che cominciano a comparire sui muri e sui cavalcavia del Veneto nel 1983, a ridosso della straordinaria eruzione del vulcano siciliano, che si cerca di domare anche con l’esplosivo: a denunciarle, per primo, il pittore Renato Guttuso, in una lettera inviata al quotidiano La Repubblica, ma in breve il dibattito dilaga, e spacca il Paese. C’è chi denuncia la nascente – o rinascente? – ondata razzista, e chi minimizza. Ma c’è poco da minimizzare. Il 1983 è l’anno delle elezioni segnate dal tracollo dello Scudocrociato a trazione Irpina (ovvero della DC guidata da Ciriaco de Mita): –5,3% rispetto al ’79. A separare la Democrazia Cristiana dal Partito Comunista ora è poco più di un milione di voti, mai così pochi, e il presidente della Repubblica Pertini affida al segretario del PSI Bettino Craxi l’incarico di formare il nuovo governo. Ma non siamo propriamente sulla soglia di una svolta a sinistra: questa è infatti anche “l’alba delle Leghe”. La Liga Veneta, ai suoi esordi, si inventa una nuova narrazione, basata sull’idea di un Veneto reso “colonia” e meridionalizzato: il resto, come si suol dire, è storia, una storia che arriva fino a Matteo Salvini.
Il libro di Morando è diviso in cinque parti, esemplificative di cinque modi diversi di declinare il sostantivo “barbarie”. Abbiamo l’Italia nordista, quella appunto del “forza Etna”, dei “terroni a casa loro”, della Lega Nord, di Bossi e Miglio, ma anche l’Italia paninara, che ostenta Timberland e Moncler, vacua per quanto non necessariamente apolitica, distante anni luce dalla generazione hippie/impegnata degli anni ’70 e lontana anche dalle altre bande metropolitane, più alternative, che in quegli anni percorrono la Penisola (punk, dark, metallari e così via). E poi l’Italia becera rivelata nell’estate del 1986 dai microfoni aperti di Radio Radicale, ignorante e piena di odio, seguita dall’Italia rampante della “Milano da bere”, della Borsa, delle tangenti, che l’inchiesta Mani Pulite, di lì a poco, metterà a nudo (e in galera). Un’Italia, oltretutto, cresciuta sopra a una montagna di debito pubblico, destinato a scaricarsi sulle spalle delle nuove generazioni.
Infine, di nuovo, l’Italia razzista, che è in parte anche quella odierna. La tragica storia di Jerry Masslo, immigrato clandestino dal Sud Africa dell’apartheid, ci ricorda cose che oggi ci sembrano incredibili: ad esempio che lo status di rifugiato all’epoca l’Italia lo riconosceva solo a chi scappava dai paesi comunisti, e non a chi arrivava da uno dei regimi più disgustosi del XX secolo, che aveva elevato il razzismo a sistema di governo. Ci mette però anche di fronte al fatto che la Villa Literno di allora, quella che riduceva gli immigrati a nuovi schiavi, salvo a uccidere chi provava a denunciare lo status quo, si è in larga parte travasata nell’Europa di oggi, nelle mafie vecchie e nuove che semmai hanno finanche esteso i loro tentacoli, o nella brutalità di un certo ceto politico-amministrativo che mette in pratica misure come il sequestro dei beni dei migranti alle frontiere (e in questo panorama l’Italia di oggi per la verità si distingue per moderazione rispetto a certi paesi dell’Europa del Centro-Nord o dell’Est).
Il libro di Morando è un pezzo di gran giornalismo: frutto di un certosino lavoro di scavo, riporta a galla eventi, sigle, titoli che in parte avevamo dimenticato, o che invece ricordavamo benissimo, alcuni dei quali, per fortuna, è anche bello ritrovare. Ad esempio Nonsolonero, la prima trasmissione Rai – condotta da una trentaduenne di Capo Verde, Maria De Lourdes Jesus – ad occuparsi dei “nuovi italiani”, gli extracomunitari, o il libro Le otto Italie, di Giampaolo Fabris e Vittorio Mortara, studio pionieristico, almeno nel panorama della nostra sociologia, per il suo spingersi oltre il concetto di classe sociale, delineando nuove categorie, nuovi profili collettivi determinati essenzialmente dai consumi.
Spesso, diciamolo, quanto emerge in queste pagine ci fa un po’ vergognare di essere italiani, e chiarisce il senso delle parole con cui il volume si apre, quelle che Ferruccio Parri indirizzò a un giovanissimo Adriano Sofri già nel 1974: “Non si illuda. Non pensi che ne valga la pena, di dedicare la vita agli ideali, al servizio del popolo. Il popolo italiano non lo merita”.
Ma il giudizio più affilato sull’essenza degli anni ’80, fra i tanti riportati nel libro, è forse quello di Michele Serra: “Il dozzinale spacciato per grande acquisizione”.
Restano fuori dal quadro alcune delle cose per le quali, dopotutto, e senza nostalgie passatiste, gli anni ’80 è stato comunque bello viverli: dalla new wave ai romanzi di Eco, dai movimenti pacifisti (erano gli anni dell’equilibrio del terrore, missili Pershing e Cruise da una parte, SS20 dall’altra) al sospirato pluralismo televisivo (anche se schiacciato sul duopolio Rai-Mediaset, e anche se ci ha portato più telenovelas che alta cultura). In fondo al decennio; ormai già in odor di ’90: la Perestrojka, Occhetto, la svolta della Bolognina.
Paolo Morando, ’80, l’inizio della barbarie, Laterza, 2016.
Dello stesso autore anche: Dancing Days. 1978-1979. I due anni che hanno cambiato l’Italia.