Il premio Nobel a Bob Dylan è, indirettamente, anche un premio Nobel alla Beat generation. I testi delle canzoni di Robert Allen Zimmerman, infatti, sono pieni di immagini, citazioni, stilemi che rimandano a Allen Ginsberg, Gregory Corso, Jack Kerouac. Se Dylan ha creato “una nuova espressione poetica”, come recitano le motivazioni del Comitato dei Nobel, non lo ha fatto da solo. Questo importante riconoscimento, a vent’anni dalla candidatura del cantautore, è dunque sì un premio meritato ad una carriera straordinaria, spesa sui palchi di tutto il mondo. Ma è anche, forse, un premio dato finalmente ad una generazione che ha fatto moltissimo per rinnovare la scrittura letteraria e poetica e che ha portato milioni di persone, in tutto il mondo (in primis persone giovani) ad avvicinarsi alla parola, fosse essa scritta o cantata, esplorandone e condividendone il potenziale espressivo.
Certo, ci si può chiedere – e in questi giorni molti lo faranno – se sia giusto attribuire un Nobel per la letteratura ad un cantante (come a suo tempo ad un autore di teatro, Dario Fo, scomparso proprio il giorno della premiazione di Dylan). E’ una domanda legittima, perché quasi sempre il testo di una canzone, per quanto possa essere sofisticato, lirico, commovente, è posto comunque al servizio della musicalità. Tre cose si possono eccepire. La prima: i testi di Dylan sono proprio uno di quei rari esempi di testi che si reggono anche da soli, senza il supporto del canto. Non tutti, certo, ma molti sì. La seconda: la poesia in origine era recitata e cantata. La terza: Dylan ha anche scritto libri, e se anche non è questa la ragione per cui è stato premiato, almeno in un caso, quello dell’autobiografico Chronicles vol 1, il risultato è e estremamente convincente.
Bob Dylan, nato a Duluth il 24 maggio del 1941, arrivato a New York giovanissimo per rendere omaggio al suo mito Woody Guthrie ed inserirsi nell’ambiente del folk revival dei primi anni ’60, in seguito reinventore del folk stesso e inventore del rock “impegnato” (prima di Dylan, come unanimemente riconosciuto, il rock era considerata musica per adolescenti, buona per ballare, sì, per fare sesso, per spaventare i genitori, magari, ma non per veicolare tematiche complesse), da tempo è uscito dai riflettori della scena musicale e tout court culturale. Uno degli ultimi omaggi importanti che gli sono stati riservati è stato, nel 2007, quello del film di Todd Haynes, I’m not There, che per cogliere le varie sfaccettature della sua personalità, e della sua carriera, non ha esitato ad usare sette diversi attori. La sua influenza, però, è stata enorme, ed è auspicabile che ora il Nobel consenta a più persone di avvicinarsi anche allo specifico letterario dei suoi testi.
Al di là di ogni altra considerazione formale sulla poetica, però, non si può non dire anche un’altra cosa. E cioè che Bob Dylan ha incarnato come pochi altri quell’ideale di libertà, personale, artistica, espressiva, che segue come un’ombra la carriera dei grandi artisti. Che cantasse la pace in Blowin’ in the wind, la disillusione in It’s all right ma (i’m only bleeding), la gioiosa rovina di una ragazza in Like a rolling stone, la denuncia sociale in Hurricane o un destino steinbeckiano in Po’ boy, Dylan lo ha fatto sempre “come voleva lui”, senza seguire altra musa che la sua, senza piegarsi alle logiche del mercato e dello show business. Per questo suo andare solitario, scontroso, controcorrente, la figura di Dylan oggi giganteggia.