Nella lunga notte elettorale che ha sconvolto il mondo chi vi scrive si trovava appena fuori il Javits Center di New York, il grande edificio in cui Hillary Clinton aveva programmato il discorso della vittoria immaginando un bagno di folla festante.
Ma dopo i primi momenti di gioia e festa, in mezzo a un pubblico socievole e rilassato pur dopo ore di estenuanti file e controlli, man mano che il maxischermo annunciava la paurosa avanzata di Donald J. Trump quella fiumana di persone che circondava il centro si è presto trasformata in un esercito di zombie dai volti sconvolti, che ha abbandonato l’undicesima avenue, prima gremitissima, finendo inghiottita tra le strade della Grande Mela.
È questa l’altra faccia dell’election night 2016: quella del Javits Center, e in generale di metà dell’America, ancora sotto shock per l’avverarsi di un incubo che potrebbe cambiare il DNA degli Stati Uniti consegnando i destini della più grande potenza mondiale a una gigantesca incognita come Trump.

Alla fine, la fiumana sconvolta dei supporter di Hillary non è riuscita nemmeno a dirle addio di persona. Ha atteso paziente parole di conforto fino alle due del mattino, ma la ex first lady non è apparsa sul palco per il tradizionale “concession speech”, il discorso con il quale il candidato perdente ammette la sconfitta congratulandosi con il vincitore. Un silenzio pensato forse come l’ultimo sgarbo all’odiato nemico repubblicano (che per consuetudine parlerebbe solo successivamente), al quale tuttavia la candidata democratica ha rimediato poco dopo chiamando al telefono il futuro presidente. Ma che si è risolto inevitabilmente in uno sgarro ai suoi sostenitori. Quasi a dire “lasciatemi sola, non mi interessa nulla della vostra attesa”.
Al posto della Clinton è spuntato invece John Podesta, campaign manager balzato agli onori della cronaca poco prima delle elezioni per le migliaia di mail personali pubblicate da Wikileaks. Nel suo breve intervento Podesta ha cercato di illudere la folla, dicendo che la conta dei voti era ancora in corso, invitando tutti ad andare a casa e rimandando il verdetto al giorno seguente.
E proprio a partire da domani, di fronte a questo incredibile risultato elettorale, giornali e televisioni (dopo aver sbagliato tutti i pronostici fino a ieri) cercheranno di interpretare il “nuovo corso” nel quale si sono incamminati gli Stati Uniti.
Sentiremo migliaia di analisi, e probabilmente pochissime parole su uno dei veri motivi che ha portato il tycoon alla presidenza: l’imbecillità dell’establishment dei democratici fedele a Wall Street, il quale ha insistito fino all’ultimo su un candidato debolissimo come la Clinton umiliando la base liberal fedele a Bernie Sanders e ignorando la voglia di cambiamento nel paese.

Eppure, più di mille parole, sono i volti incontrati al Javits Center che rimarranno nella mente di chi vi scrive: da quelli di un simpatico gruppo di signore innamorate della loro coetanea sconfitta a quello pulito e sorridente di Stephanie, giovane volontaria che mi mostra con orgoglio le foto sullo smartphone con la ex first lady, prima di crollare con le mani tra i capelli quando ormai la speranza di vedere Hillary alla Casa Bianca è diventata un miraggio.
Molte storie si assomigliano, ma quella di John è diversa. Originario della Georgia, si trova a New York per un viaggio di lavoro: “Sono venuto perché ho una figlia di tre anni” racconta alla Voce, “così, quando sarà grande, potrò dirle di come suo padre era presente quando fu eletta la prima donna alla presidenza degli Stati Uniti”.
Ora il povero John racconterà qualcosa di diverso a sua figlia. Ma in ogni caso è stato testimone di un evento storico.