Alle 8.15 del mattino del 6 agosto 1945 l’allora US Army Air Force sganciò una bomba atomica sulla città giapponese di Hiroshima. Tre giorni dopo fu la volta di Nagasaki. Il numero di vittime dirette è incerto; le stime vanno da 100.000 a 200.000. Tra aprile e giugno, i terribili combattimenti per la conquista dell’isola di Okinawa causarono la morte di 150.000 civili e militari giapponesi e alle truppe americane 70.000 tra morti e feriti—un terzo del corpo di spedizione. L’episodio convinse l’alto comando Usa che un’invasione convenzionale del Giappone non fosse proponibile, che convenisse piuttosto uccidere “all’ingrosso” con la nuova arma anziché alla spicciolata, con fucili, carri e artiglieria. Può darsi. Sta di fatto che il mondo intero non glielo ha mai perdonato.
La percezione, tutt’ora corrente, è che sia meglio morire sparati invece che di un eccesso di energia radioattiva. Probabilmente è per questo che sorprende sempre ricordare come anche il Giappone avesse tentato di sviluppare l’arma atomica. Fu una gara contro il tempo che i nipponici persero, anche a causa dei continui raid aerei americani che avevano messo fuori uso gli impianti di produzione.
Non era l’unica difficoltà. Secondo lo studioso americano Robert Wilcox, citato dal Los Angeles Times: “(I giapponesi) conoscevano bene gli aspetti della fisica e dell’ingegneria necessari per la costruzione della bomba. Il vero problema fu la mancanza di uranio”. Il materiale doveva arrivare dall’alleato nazista, che aveva in corso ricerche simili. Il 19 maggio del 1945 però—pochi giorni dopo la morte di Adolf Hitler e nella concitata fase finale del conflitto in Europa— gli Alleati catturarono un sottomarino tedesco diretto in Giappone con un carico di circa 550 kg di ossido di uranio. I due ufficiali giapponesi a bordo si suicidarono per non farsi prendere e l’uranio finì più tardi nelle bombe americane.
La storia, nota seppure oscura, è tornata d’attualità con la scoperta negli archivi della Kyoto University dei piani per la costruzione della bomba atomica giapponese. Erano tra le carte del Prof. Bunsaku Arakatsu. Secondo il quotidiano Sankei Shimbun, che ha dato la notizia, lo studioso era stato incaricato dalla Marina Imperiale di guidare lo sviluppo dell’arma. Sono stati inoltre trovati i piani per la fabbricazione delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio presso la Tokyo Keiki, un’industria tuttora in attività. Un’annotazione indica che il primo esemplare doveva essere consegnato il 19 agosto del ‘45—quattro giorni dopo l’annuncio della resa nipponica.
Forse non del tutto a caso, la nuova documentazione è venuta alla luce mentre in Giappone prosegue un acceso dibattito nazionale sulla riapertura delle centrali nucleari chiuse dopo il disastro di Fukushima— e anche su una “reinterpretazione” della Costituzione (pacifista) del Paese che permetterebbe alle Forze Armate giapponesi di combattere all’estero al fianco di alleati strategici, come per esempio gli Usa. La vedova di un altro scienziato giapponese che lavorò al progetto atomico, Masa Takeuchi, dell’Istituto Riken, ha riferito anni dopo un commento di suo marito: “Se avessimo costruito per primi la bomba, certo che l’avremmo usata. Per certi versi sono felice che i nostri impianti siano andati distrutti”