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April 18, 2016
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Quel crimine umano arrivò appena in tempo?

La bomba atomica americana sul Giappone fermò anche la rincorsa di Tokyo a procurarsela

James HansenbyJames Hansen
giappone nucleare

Agosto 1945: gli effetti della bomba atomica su Hiroshima (foto Ap)

Time: 2 mins read

Alle 8.15 del mattino del 6 agosto 1945 l’allora US Army Air Force sganciò una bomba atomica sulla città giapponese di Hiroshima. Tre giorni dopo fu la volta di Nagasaki. Il numero di vittime dirette è incerto; le stime vanno da 100.000 a 200.000. Tra aprile e giugno, i terribili combattimenti per la conquista dell’isola di Okinawa causarono la morte di 150.000 civili e militari giapponesi e alle truppe americane 70.000 tra morti e feriti—un terzo del corpo di spedizione. L’episodio convinse l’alto comando Usa che un’invasione convenzionale del Giappone non fosse proponibile, che convenisse piuttosto uccidere “all’ingrosso” con la nuova arma anziché alla spicciolata, con fucili, carri e artiglieria. Può darsi. Sta di fatto che il mondo intero non glielo ha mai perdonato.

La percezione, tutt’ora corrente, è che sia meglio morire sparati invece che di un eccesso di energia radioattiva. Probabilmente è per questo che sorprende sempre ricordare come anche il Giappone avesse tentato di sviluppare l’arma atomica. Fu una gara contro il tempo che i nipponici persero, anche a causa dei continui raid aerei americani che avevano messo fuori uso gli impianti di produzione.

Non era l’unica difficoltà. Secondo lo studioso americano Robert Wilcox, citato dal Los Angeles Times: “(I giapponesi) conoscevano bene gli aspetti della fisica e dell’ingegneria necessari per la costruzione della bomba. Il vero problema fu la mancanza di uranio”. Il materiale doveva arrivare dall’alleato nazista, che aveva in corso ricerche simili. Il 19 maggio del 1945 però—pochi giorni dopo la morte di Adolf Hitler e nella concitata fase finale del conflitto in Europa— gli Alleati catturarono un sottomarino tedesco diretto in Giappone con un carico di circa 550 kg di ossido di uranio. I due ufficiali giapponesi a bordo si suicidarono per non farsi prendere e l’uranio finì più tardi nelle bombe americane.

La storia, nota seppure oscura, è tornata d’attualità con la scoperta negli archivi della Kyoto University dei piani per la costruzione della bomba atomica giapponese. Erano tra le carte del Prof. Bunsaku Arakatsu. Secondo il quotidiano Sankei Shimbun, che ha dato la notizia, lo studioso era stato incaricato dalla Marina Imperiale di guidare lo sviluppo dell’arma. Sono stati inoltre trovati i piani per la fabbricazione delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio presso la Tokyo Keiki, un’industria tuttora in attività. Un’annotazione indica che il primo esemplare doveva essere consegnato il 19 agosto del ‘45—quattro giorni dopo l’annuncio della resa nipponica.

Forse non del tutto a caso, la nuova documentazione è venuta alla luce mentre in Giappone prosegue un acceso dibattito nazionale sulla riapertura delle centrali nucleari chiuse dopo il disastro di Fukushima— e anche su una “reinterpretazione” della Costituzione (pacifista) del Paese che permetterebbe alle Forze Armate giapponesi di combattere all’estero al fianco di alleati strategici, come per esempio gli Usa. La vedova di un altro scienziato giapponese che lavorò al progetto atomico, Masa Takeuchi, dell’Istituto Riken, ha riferito anni dopo un commento di suo marito: “Se avessimo costruito per primi la bomba, certo che l’avremmo usata. Per certi versi sono felice che i nostri impianti siano andati distrutti”

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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