Ci sono tanti motivi per cui si può decidere di fare il cuoco. Per Fausto Ferraresi è stata la voglia di viaggiare. “Ricordo un pomeriggio ozioso dopo la fine delle scuole medie, a chiacchierare sul dondolo con un amico. Ci chiedevamo cosa volessimo fare. Il meccanico? No, non è per me. L’elettricista? Nemmeno. O il liceo per poi dover andare all’università, ma io ho sempre avuto l’angoscia dell’esame. Volevo essere un cittadino del mondo. Volevo viaggiare. E allora ci venne l’idea della scuola alberghiera. Pensai: il cuoco, sì il cuoco! Fu un’illuminazione”. Fausto aveva trovato la sua strada, ma non sapeva ancora che quella strada lo avrebbe portato a New York.
La mattina della nostra intervista, ci incontriamo al The Leopard at Des Artistes, uno dei ristoranti gestiti da Gianfranco Sorrentino, storico imprenditore della ristorazione italiana a New York. Una volta cucina e luogo di ritrovo degli artisti che occupavano gli studi ai piani superiori, oggi è un elegante ristorante dalle pareti sontuosamente affrescate, frequentato da personaggi del jet set newyorchese e da quegli italiani che nella Grande Mela cercano una cucina dal sapore di casa e di alta qualità.
Il ristorante è aperto solo per cena, così che la mattina Fausto può dedicarla alla riorganizzazione della cucina, alla ricerca degli ingredienti e a qualche sperimentazione. Il menu del The Leopard propone piatti della tradizione del Sud rivisitati in una chiave moderna. L’impostazione è quella data da Sorrentino e dal suo chef di fiducia, compagno di molte avventure imprenditoriali, Vito Gnazzo. Ma da quando in cucina è arrivato Fausto Ferraresi, che di Sud ha poco nel DNA quanto nelle ricette, la proposta del The Leopard sta prendendo qualche lieve accento romagnolo. Fausto è in realtà veneto, di Bergantino, paese di 2.500 abitanti in provincia di Rovigo. Ma le sue influenze in cucina vengono, come spesso capita nelle famiglie italiane, da due donne, la madre e la nonna, di origini riminesi. Era a Rimini, infatti, che Fausto passava le sue estati, immerso nei profumi della cucina della nonna. E a Rimini ha frequentato la scuola alberghiera, scoprendo subito la realtà di fatica e sacrifici dietro il lavoro di cuoco: d’estate, mentre gli amici erano in spiaggia a divertirsi, lui era dietro i fornelli a faticare e sospirare. “Ho pianto lacrime vere mentre squamavo cernie su cernie. Sono stato molto combattuto quando mi sono accorto che se vuoi fare il cuoco le tue vacanze non coincidono più con quelle dei tuoi amici e che è difficile avere una vita sociale. Ti rendi conto che questo lavoro deve avere dietro una vera e propria vocazione, come per il prete. Se non c’è quella vocazione non ce la fai”. Fausto evidentemente quella vocazione l’aveva e l’ha ancora, perché oggi, a 43 anni, non ha smesso di credere in quello che fa e di farlo con passione.
La ricerca del sapore perduto
Dopo qualche esperienza riminese, deciso a non rinunciare all’esplorazione e al viaggio, andò a Londra, ma l’avventura durò poco a causa di un infortunio a un braccio che lo costrinse a tornare in Italia. Seguirono vari lavori in ristoranti dal carattere molto diverso, dove Fausto approfondì le proprie conoscenze e allargò il campo delle proprie competenze e abilità spaziando dalla cucina di pesce a quella di carne, da piatti più moderni a ricette più tradizionali, da locali per pasti veloci, a ristoranti di impostazione più classica.
Un’esperienza importante fu quella alla Porta del sasso, a Verucchio, dove iniziò ad appassionarsi a una cucina antica e povera. Lui la chiama la cucina dei piatti dimenticati come le patate nella cenere, il pasticcio di maccheroni o il galletto nell’argilla per cui si faceva fare da un ceramista un involucro in cui metteva il galletto ed erbe di campo locali che andava a raccogliere nelle campagne intorno al paese. “Andavo in giro a chiedere alle ‘zdore (signore, in dialetto romagnolo) dei paesini di raccontarmi e mostrarmi le loro ricette. Poi molte di questi piatti andavano rielaborati per adattarli alle esigenze della vita di oggi. La cucina di una volta era molto più calorica perché la gente lavorava nei campi e aveva bisogno di energie. Oggi tutte quelle energie non le bruciamo più e finiscono solo per appesantirci. Quindi le ricette vanno comunque alleggerite”. I giornali iniziarono a parlare di questo cuoco che bussava alle porte delle massaie per raccoglierne il sapere e i sapori. Fausto stava mettendo insieme un interessante ricettario, riportando alla luce piatti ormai quasi scomparsi e facendo entrare nella ristorazione una cucina povera a lungo sottovalutata.
Psicologia tra i fornelli
Il passo dalla campagna italiana alla metropoli americana per Fausto è stato breve. La Porta del sasso fu venduto e lui si ritrovò ancora una volta on the road. Fu allora che un collega, Mirco Del Vecchio, chiamato per l’apertura a New York di Ago, il ristorante creato da Robert De Niro e altri personaggi holliwoodiani, dovendo mettere insieme una squadra di cuochi pensò a Fausto. Dopo qualche mese di tirocinio ed esperienza in altre sedi di Ago, la trionfale apertura a Tribeca.
“Fui affascinato e travolto da questa città che è stupenda, offre tantissimo ed è talmente competitiva che ti fa capire che puoi superare te stesso, che non esiste un limite. Allo stesso tempo, dal punto di vista professionale fu un po’ un trauma perché venivo da un ristorante di stampo italiano, dove in cucina si è in pochi, per ritrovarmi in una macchina enorme con più di 30 persone”.
Era il 2007 e tutto sembrava andare per il meglio. Fausto si stava inserendo nel nuovo ambiente lavorativo, imparando che la cucina è anche questione di psicologia.
“L’interazione con gli altri all’inizio era difficile, c’erano le barriere linguistiche e dovevo imparare la psicologia della gente e le regole di comportamento degli americani, le cose che non puoi dire e le cose che puoi dire, le cose cui devi stare attento. Ma poi iniziai a capire e alla fine è semplice: religione, razza e orientamento sessuale sono cose a cui non devi neanche azzardarti a fare riferimento. Poi c’erano ovviamente dei piatti cose che qui non potevo cucinare. Le ricette con cui avevo iniziato a sperimentare in Italia sono difficili anche per gli italiani figuriamoci per gli americani… Ho capito che dovevo compromettere sempre un po’ per arrivare al palato degli americani. Alla fine per me è stata tutta preziosa esperienza”.
La grande crisi
Ma poi arrivò la crisi, il crollo delle borse, il panico generale. “In quel periodo c’era un’atmosfera strana a New York. Era come se la città avesse cambiato ritmo. Vedevi i bancheri e i broker che si andavano a ubriacare di pomeriggio… Faceva un po’ paura”. Le prime a saltare furono le attività meno necessarie. E un ristorante come Ago, pensato per una società che non aveva paura di spendere e di indulgere nel piacere, non era certo indispensabile. “Iniziarono a licenziare una persona dopo l’altra. Andavi a lavorare la mattina e trovavi il personale ridotto. Sapevi che prima o poi sarebbe toccato anche a te. Lavoravi ma aspettavi che venisse il tuo turno”.
E alla fine, poco prima della chiusura del ristorante nell’aprile 2009, arrivò anche il turno di Fausto che si ritrovò ancora una volta a doversi reinventare. Di tornare in Italia non ne aveva nessuna intenzione, anche perché la crisi stava iniziando a ripercuotersi anche sull’Europa e la sensazione era che comunque New York e l’America sarebbero riuscite a trovare una via d’uscita. La vecchia Italia, invece, chi poteva dirlo? Fausto si mise a cercare nuove opportunità e passò da un bistro francese a una steak house italiana, cercando di proseguire quel suo percorso di avvicinamento al gusto americano. “Man mano mi rendevo conto di come gli americani, come società, come persone, siano diversi da noi. Si divertono in modo diverso, articolano le frasi in modo diverso e, ovviamente, mangiano in modo diverso. Mi è capitato di sentire cose incredibili dai clienti. Una signora una volta mi ha rimandato indietro un pesce perché era “too oceanic”, un’altra volta mi dissero che il ragù alla bolognese era troppo cotto. Se valuti queste cose da italiano ovviamente ti suonano assurde, ma se cerchi di essere cittadino del mondo, ti rendi conto che non puoi essere troppo autentico. Siamo noi che siamo ossessionati dall’autenticità. L’americano non cerca l’autenticità dell’Italia, ma un sentore di Italia. Il menù è come un linguaggio, devi scegliere i vocaboli da usare. E in molti casi scegli quelli che sono più familiari al tuo interlocutore, qualcosa che siano in grado di interpretare. Quindi il piatto italiano va fatto con prodotti che conoscono, che siano per loro riconoscibili. Imparare a cucinare per gli americani è stato un po’ come imparare una nuova lingua, come imparare l’inglese…”.
Scoprendo il Sud
Poi un altro brusco cambiamento dovuto a un licenziamento per motivi economici. Ancora una volta, il cuoco arrivato dal Veneto con la Romagna nel cuore dovette rimettersi in gioco. L’opportunità capitò per caso, quando un venditore di vini gli disse che Gianfranco Sorrentino stava cercando qualcuno per il Leopard. “Il giorno dopo feci il colloquio con Gianfranco e iniziai subito a lavorare. All’inizio ero un po’ perplesso: questo è un ristorante del Sud e io non sono del Sud né ho mai lavorato in un ristorante del Sud. Ma per fortuna avevo una base tradizionale forte che mi ha aiutato e poi l’esperienza e la sensibilità possono essere riadattate a ogni situazione. All’inizio Gianfranco e Vito non mi lasciavano intervenire troppo sul menù. Accettavano suggerimenti, ma non avevo molta autonomia. Poi, con quest’ultimo menu, ho iniziato a inserire delle cose mie. Per esempio i sardoncini marinati, che sono un piatto di mia nonna, cui io ho aggiunto un’insalata di rucola e il pane carasau”.
Dopo tanto peregrinare, Fausto sembra oggi aver trovato al Leopard una sua dimensione in cui può finalmente esprimere la sua creatività. “Mettersi sempre in gioco è indispensabile in questo lavoro, ma ci vuole una buona dose di umiltà. Non ti devi mai fermare o pensare di essere arrivato. Lavorando insieme a Vito, poi, c’è uno scambio continuo. Abbiamo un buon equilibrio perché lui è un po’ più old school ma ha un grande rispetto per le ricette e gli ingredienti”.
E forse ora potrà anche riprendere quel discorso con la memoria della cucina tradizionale, lasciato interrotto nelle campagne romagnole. A cominciare dalla ricetta che vi proponiamo qui sotto, la minestra nello straccio, uno dei piatti che per Fausto rappresenta di più quel percorso di ricerca, recupero e divulgazione della cucina di una volta. A insegnargliela è stata una ‘zdora di Verucchio, la signora Celli, che gli raccontò di questa ricetta gustosa che da sempre preparava, soprattutto le domeniche. “Andai a casa sua e la guardai prepararla, poi la assaggiai e fu subito amore. Ormai sono anni che la faccio, spero di riuscire a introdurla anche qui al Leopard, anche se è un piatto del Nord”. In attesa di poterla gustare nella versione di Fausto, potete provare a prepararla a casa vostra.
Minestra nello straccio
Ingredienti:
1 etto di ricotta;
1 etto di stracchino o caciotta morbida;
1 etto di parmigiano;
1 etto di spinaci o erbe cotte;
un limone grattugiato;
noce moscata;
latte quanto basta.
Preparazione: impastare tutti gli ingredienti e aggiungere il latte se l’impasto risulta troppo duro. A parte stendere una sfoglia come per le lasagne, spalmare la farcia ed arrotolare a mo’ di girella. Avvolgere in uno strofinaccio da cucina e legarne le due estremità con dello spago. Immergere in acqua bollente in posizione orizzonatele e cuocere per 40 minuti, infine raffreddare sul tavolo girando di volta in volta per mantenere la forma rotonda. Tagliare a rondelle e coprire con ragù di carne.