Un panel bene organizzato, tanti spunti di riflessione e un dibattito interessante sul mondo del cinema e dei giovani che si affacciano al mercato cinematografico. Al Consolato Generale d’Italia a New York è andato in scena un nuovo appuntamento con “Meet the New italians”, una serie di incontri promossi dalla istituzione diplomatica con l’obiettivo di approfondire i vari settori in cui operano gli italiani a New York e negli Stati Uniti d’America.
In una sala piena, a rendere l’incontro utile è stato il moderatore Antonio Monda, docente di cinema alla NYU, direttore del Festival del Cinema di Roma e scrittore, capace di gestire il dibattito in modo agile ma non superficiale. E non era facile, perché quando le idee sono tante e i contributor pure, il rischio di fare confusione e di far diventare l’appuntamento dispersivo c’è. Il dibattito invece è andato bene e ha rispettato i tempi. E si è aperto con l’introduzione del Console Generale Francesco Genuardi, che ha evidenziato la necessità di approfondire “un mondo come quello del cinema sempre più affascinante e sempre più complicato, dove però l’Italia non ha lezioni da prendere a nessuno e può giocarsi le sue carte anche in una città competitiva come New York”.
Anche Pif (all’anagrafe Pierfrancesco Diliberto) ha detto la sua, seppur non di persona (aveva appena lasciato New York dopo aver partecipato al festival Open Roads). Attraverso un video di pochi minuti, infatti, ha espresso ad alta voce ciò che tutti sanno e tutti pensano, ma che in pochi ammettono in modo così esplicito: in Italia, se sei giovane e non conosci qualcuno, in pochi ti ascoltano e ancora meno persone ti danno un’opportunità. E una qualsiasi esperienza, anche minore, all’estero può valere in termini di considerazione più di un qualsiasi titolo di studio ottenuto nel Belpaese. Del resto, e non è un caso, i contributor del panel erano tutti accomunati da un destino simile: consapevoli della bellezza della penisola italiana, ma anche consci che per costruirsi un futuro fosse necessario abbandonarla, a breve, a medio o a lungo termine. Un po’ per la burocrazia assassina (“Ho provato a fare business in Italia, ma passi ore ed ore con il commercialista piuttosto che con le tue idee” ha detto il regista Sebastiano Tronchetti Provera). Un po’ perché, parola della regista Chiara Clemente – unica tra i contributor ad essere nata negli States –, “le ambizioni in Italia scappano e si spreca troppa energia per ogni semplice passo da compiere”.
Nel corso dell’incontro, prima sono stati presentati i trailer delle nuove opere cinematografiche dei giovani talenti, tra cui “La porta sul Buio” di Marco Cassini, “La partita” di Frank Jerky, “Watch them Fall” di Kristoph Tassin, “Like a Butterfly” di Eitan Pitigliani e il documentario “Matera 15/19” di Fabrizio Nucci e Nicola Rovito. Poi è iniziato il dibattito vero e proprio che ha visto tra gli ospiti anche il compositore Giovanni Spinelli, l’attore e produttore Alessandro Parrello, lo scrittore e sceneggiatore Gabriele Scarfone e il regista e produttore Francesco Carnesecchi.

Numerosi i temi affrontati nel corso del dibattito. Ad emergere la necessità dei giovani nel campo cinematografico di operare al di fuori di un contesto ricco di ostacoli come l’Italia, per immergersi invece in una realtà complicata sì, ma ricca di opportunità come New York. Una città che non a caso è stata una calamita per tutti i contributor del panel, anche per chi come Gabriele Scarfone ha studiato cinema a Los Angeles per cinque anni o per chi, come Chiara Clemente, è tornata nella grande mela dopo un’esperienza a Roma. “Qui la bravura e i meriti sono ampiamente riconosciuti” ha evidenziato in questo senso Giovanni Spinelli. Nonostante New York sia una città in cui avere un buon agente che ti promuova pesi tanto quanto costruirsi le relazioni giuste, “chi cerca competenza, conoscenza e arte, tende a scegliere gli italiani prima degli altri”.
Abbandonare la propria città di nascita in ogni caso non è mai semplice, anche se spinti da forti motivazioni. E alla domanda di Antonio Monda sulle difficoltà affrontate durante l’esperienza newyorkese, sono emerse dai contributor criticità simili ma al tempo stesso diverse. “La cultura è accogliente ma molto diversa e capire il loro modo di pensare agli inizi non è facile” ha raccontato ad esempio Sebastiano Tronchetti Provera. Specie in un Paese in cui, per dirla come Chiara Clemente, “accade l’esatto contrario rispetto all’Italia: lì sei sempre troppo giovane, qui non lo sei mai abbastanza”. E a pesare, in questo contesto, sono stati e sono tutt’oggi “sia i problemi di budget” (Francesco Carnesecchi), sia lo sforzo di “dover scrivere e adattare i dialoghi in inglese: non facile”, come invece ha fatto notare Gabriele Scarfone.
L’importante comunque, specialmente in una città come New York e soprattutto nel contesto cinematografico di oggi, “è avere l’umiltà di saper cadere e la tenacia di saper rialzarsi, perché qui tutto è possibile” ha spiegato Alessandro Parrello nel parlare della sua esperienza. “Una giornata a New York equivale a una settimana a Roma e a New York ho avuto la conferma che sanno ascoltare le idee di un giovane, cosa che in Italia non succede: non solo, quando trovi il successo all’estero, poi ti richiamano proprio da quell’Italia da cui sei scappato”. L’importante, come ha fatto notare Francesco Carnesecchi “è sapersi vendere ma non svendersi” perché, ha evidenziato Giovanni Spinelli, “se produttori, attori, registi e compositori italiani sono così apprezzati a New York è perché sono portatori di una cultura sana e piena di valori, a livello di immagine e non solo”.