Il 20 maggio esce nelle librerie italiane il saggio della giornalista russa Anna Zafesova, Navalny contro Putin. «L’ora X della Russia contemporanea scatta all’alba del 20 agosto 2020, quando Alexey Navalny perde conoscenza e cade sulla moquette del corridoio di un aereo low-cost nel cielo della Siberia». Potrebbe essere questa la data dell’inizio della fine del potere personale di Vladimir Putin in Russia. Di certo, è il punto più basso e difficile da almeno un decennio a questa parte. Tutto il mondo ormai sa che Navalny è stato avvelenato da un agente nervino uscito dai laboratori militari sovietici, il Novichok. Ma il fatto che sia sopravvissuto cambia tutto, e legittima quanti sono convinti che questo passo falso abbia innescato una serie di reazioni che porteranno il Cremlino verso una strada senza ritorno. In questo saggio, Putin e Navalny sono i due protagonisti di uno scontro politico – ma anche una battaglia culturale e un conflitto generazionale – che trent’anni dopo la fine dell’Urss potrebbe rappresentare tanto una svolta storica quanto un disastro epocale per la Federazione Russa e il suo leader, sempre più isolato nel suo bunker mentre altri poteri interni cercano di sostituirsi a lui.
Anna Zafesova è una giornalista e massima esperta in Italia di Russia e Putin, dopo esperienze con diversi giornali sovietici e italiani, dal 1992 scrive per La Stampa ed è analista politica per Il Foglio e Linkiesta. Fino al 2004 è stata corrispondente del quotidiano torinese a Mosca, dal 2005 vive e lavora in Italia. A lei si devono importanti libri tradotti dal russo, come I cinocefali e ha firmato la postfazione de Nel primo cerchio di Aleksandr Solzenicyn (Voland, 2018). A pochi giorni dall’uscita del suo nuovo libro ci ha concesso questa intervista.
Delle due figure protagoniste del suo saggio: Navalny contro Putin, io vorrei approfondire la prima semplicemente perché rappresenta il cambiamento, una Russia a cui noi europei o meglio, noi occidentali, non siamo abituati. La prima domanda che le faccio è questa: Alexey Navalny è stato definito in mille modi: nazionalista, populista, liberale, lei come lo definirebbe?
“Alexey Navalny è innanzitutto un politico 4.0, difficile da ridurre alle categorie della politica tradizionale. Esprime sicuramente idee liberali di stampo classico, tra cui l’individualismo, e la convinzione che una società libera di inventare, intraprendere e scegliere inneschi un meccanismo virtuoso che porta, quasi automaticamente, alla libertà e alla prosperità. È sicuramente un utilizzatore di metodiche di comunicazione populiste, con un linguaggio chiaro e di grande presa, con un discorso molto incentrato sulla corruzione e l’onestà, e con una gestione della rabbia popolare, che però non viene incanalata verso bersagli tipici dei populisti, come le minoranze o i “diversi”. Non rimpiange il passato glorioso, altra tipica qualità dei populisti, né esalta “l’uomo della strada” versus l’élite: semmai accusa le élite putiniane di essere troppo ignoranti e incompetenti rispetto al grande potenziale intellettuale e culturale della Russia. Non è un nazionalista nel senso di promuovere un discorso divisivo e/o di superiorità etnica, ma è sicuramente molto più sensibile all’orgoglio di appartenenza a un grande Paese dei liberali dichiaratamente cosmopoliti degli anni ’90, e di un campo politico che gli è avverso come quello nazionalista raccoglie alcune parole d’ordine come la dichiarata fede ortodossa o l’orgoglio patriottico della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. Ma soprattutto è un politico dell’era digitale, che si rende conto di come la battaglia politica passi dalla creazione di narrazioni, linguaggi, codici, dalla costruzione di consensi fluidi e non più legati a una base rigida di militanze storiche, in un Paese che oltretutto per una serie di ragioni non applica sempre la stessa scala di valori e misure della politologia classica europea”.
Ho letto su diversi giornali che nella telefonata del 13 aprile tra il presidente americano Joe Biden e Vladimir Putin non si è fatto alcun cenno alla nuova detenzione di Navalny e alle sue cattive condizioni di salute. Secondo lei nelle logiche e negli interessi della politica internazionale, una figura come Navalny, da chi potrebbe essere sostenuta e difesa al 100% e perché?
“Da chiunque ritenga che solo una Russia democratica, che condivida i valori della libertà e dei diritti, possa diventare un partner strategico dell’Europa e dell’Occidente. Questo non significa che non si possa parlare, e collaborare, anche con i dittatori, e ne abbiamo avuto numerosi esempi nel corso della storia, di cui la Seconda Guerra Mondiale resta il più celebre. Basta non confondere la tattica con la strategia: l’Europa è la prima ad avere bisogno di una Russia che invece di considerarsi sua avversaria e vittima, come oggi, torni a sentirsene parte. Un’evoluzione che non solo comporterebbe sviluppo economico per entrambe le parti, ma permetterebbe di estinguere una serie di focolai di tensione militare che continuano a minacciare la sicurezza nell’Est Europeo”.
“Il 60% di quelli che scendono in piazza con lui e per lui hanno meno di 35 anni; e la generazione presso cui il leader spopola è in realtà più quella di sua figlia Dasha, ossia la fascia dei 18-24 anni”.
Cito un passo del suo libro perché le voglio chiedere, chi sono questi ragazzi che scendono in piazza, non saranno tutti piccoli geni come Yuri Dud (*) o Daria Serenko (**) immagino.
“Non è questione di essere dei geni: chi scende in piazza è una generazione che vuole vedere rispettati i propri diritti, e che rivendica tra le altre cose anche una mobilità sociale che nella Russia odierna sta diventando sempre più un privilegio per i figli dei padri potenti. Chi aderisce alla protesta in piazza ha spesso obiettivi e idee molto eterogenee: ci sono attivisti della società civile, esponenti della comunità LGBT, femministe, ambientalisti, intellettuali, tutti quelli che sentono il loro diritto a esprimersi liberamente sempre più minacciato. Ma sono anche tanti ragazzi che semplicemente vogliono vivere in un Paese dove non devono aver paura della polizia, dove non si viene arrestati per un post sui social, dove si può essere liberi di fidanzarsi con chi si ama, dove nelle università si fanno ricerche all’avanguardia e non censure ideologiche, e dove le tasse non vanno a finanziare un’ennesima guerra di ambizioni geopolitiche. Sono la “prima generazione non bastonata”, che non ha mai visto altro che Putin alla guida del Paese, ma è cresciuta comunque in un clima culturale e politico non più totalitario. Molti dei collaboratori e seguaci di Navalny non vengono da Mosca o da Pietroburgo: sono ragazzi della sterminata provincia russa, che si sono fatti da soli, si sono pagati gli studi, si sono conquistati lavori che gli permettono di pagare faticosamente dei mutui, e di aiutare i genitori: sono stati loro ad aggiungere a una protesta libertaria e anti autoritaria anche una forte componente di rabbia sociale”.
Per gli studiosi moderni, una rivoluzione è sinonimo di rivolgimento, una rivoluzione include una visione etica che implica l’immoralità dell’avversario, cioè l’immoralità del potere sovrano.
In Russia in questo momento anche la storia e il passato vengono letti in modo differente, mi riferisco per esempio al blog Karagodin.org (***) che mette in discussione quei pezzi della storia russa che sono stati addirittura dichiarati intoccabili per legge.
Possiamo pensare che i russi di oggi sono pronti ad una nuova rivoluzione?
“Possiamo pensare che senza questa rivoluzione i russi non potranno andare avanti. Il passato, da espiare, da perdonare, da superare, resta il convitato di pietra della politica russa, e il fatto che la Duma proponga sempre nuove leggi per proibire di discuterlo già da solo mostra quanto sia urgente, e potenzialmente dirompente questa questione. Il rifiuto di condannare aspetti del proprio passato totalitario – comprensibilmente difficile dopo più di settant’anni – ha prodotto una sorta di autoritarismo sovietico di ritorno, il cui scopo principale è proprio quello di non mettere in dolorosa discussione la storia del ‘900. Il comunismo sovietico cadde nel 1991 in buona parte proprio a causa delle rivelazioni sui suoi crimini e fallimenti, e il putinismo è stato in un certo senso una rimozione post traumatica di quella scoperta. La Russia moderna è un Paese che non si protende verso il futuro, ma ha un discorso politico e culturale totalmente rivolto al recupero di un passato glorioso: un’ossessione naturale della generazione più anziana, ma l’entrata in scena di nuove generazioni di russi che non si sentono più responsabili personalmente del passato potrebbe aiutare a portare a termine questo processo traumatico.
Secondo lei qual è il punto debole di Navalny, il suo tallone d’Achille?
“Quello di qualunque rivoluzionario: abbattere un regime e costruire uno Stato nuovo sono due mestieri diversi. I simboli e i leader delle rivoluzioni raramente sono grandi statisti, ma possono fungere da garanti della transizione, come hanno fatto anche molti dissidenti storici dell’Europa dell’Est. Ma soprattutto il problema di Navalny potrebbe essere quello che è la sua forza principale: è un comunicatore eccezionale, che riesce a trasformare qualunque cosa faccia in un evento mediatico, e a dirottare l’agenda dell’informazione sui suoi messaggi. È un costruttore di narrazioni, che dovrebbero convogliare la rabbia della gente in piazza e nelle urne, ma in quello che si sta configurando sempre più come un totalitarismo repressivo le due ultime componenti rischiano di scomparire del tutto, mentre la possibilità di comunicare viene ridotta giorno dopo giorno”.
Oggi le sanzioni personali che i Paesi adoperano per mostrare il loro dissenso verso fatti come l’avvelenamento di Navalny, producono effetti tutto sommato “sopportabili”. Se qualche oligarca russo non può venire in Italia a fare le vacanze non credo si straccerà le vesti, riceverà in cambio ben altri compensi. Mi sembrano, le sanzioni personali, un modo per scaricarsi la coscienza e continuare per la propria strada. Lei cosa ne pensa?
“Innanzitutto per ora la maggioranza degli oligarchi russi può liberamente viaggiare e fare affari in tutto il mondo. Qui però si sottovaluta l’importanza dell’Occidente per la nomenclatura putiniana: l’obiettivo di tutta quella corruzione, e dei giochi di potere, è in una parte molto cospicua proprio quello di vivere in Europa o in America. Non c’è sindaco o viceministro – per non parlare di personaggi più altolocati – che non abbia almeno un appartamento in Italia o in Francia, un conto in Svizzera, una società di comodo alle Cayman e i figli in una scuola inglese, senza parlare di un passaporto cipriota o almeno un permesso di residenza in Lettonia. I ben altri compensi ottenuti in cambio possono essere i sontuosi palazzi sul Mar Nero, ovviamente, ma l’élite russa, notoriamente nazionalista nei suoi discorsi, è totalmente orientata verso l’Occidente non solo negli affari, ma anche nelle proprie aspirazioni: le ville in Sardegna, gli yacht nei Caraibi, le squadre di calcio in Regno Unito, i vigneti in Toscana e gli attici da centinaia di milioni a New York sono degli status symbol, sono la dimostrazione del successo di oligarchi e politici russi, la realizzazione della loro ambizione di giocare in una serie A globale. Colpire quelle aspirazioni sarebbe sicuramente molto sensibile, soprattutto se alla strategia del bastone venisse affiancata una diplomazia della carota per aumentare le divisioni interne al regime”.
Le faccio un’ultima domanda. Qual è il fulcro della politica di Navalny che convince le persone a farsi arrestare per sostenerlo, la cosa che fa più breccia tra le nuove generazioni?
“Il futuro. Il fatto che a un discorso ufficiale totalmente incentrato sul passato, e pronto a difendere la propria visione del passato anche con una guerra nel presente, contrappone una prospettiva di sviluppo, infatti il suo programma su YouTube si intitola “La splendida Russia del futuro”. È un’idea di normalità, contrapposta alla eccezionalità nella tragedia di cui una certa ideologia della Russia finisce quasi per compiacersi. È quel slogan di una “Russia che diventa europea”, che visto da un’Europa divisa e insicura appare vago, ma visto da una Russia sempre più dittatoriale è estremamente chiaro: libertà individuali, diritti civili, elezioni libere, tribunali onesti, lotta alla corruzione, concorrenza politica ed economica, libertà di pensiero. È l’idea che, per la prima volta in una storia plurisecolare, la grande missione russa possa essere finalmente quella di dare a ogni russo il diritto alla vita, alla libertà e a perseguire la felicità, e a poter decidere autonomamente cosa lo farà felice”.
(*) Yuri Dud. Classe 1986, popolarissimo video blogger, è stato il primo ad intervistare la famiglia di Navalny dopo l’avvelenamento. E’ ucraino, indossa sneakers, usa l’iPhone, ha misioni di followers su Instagram (io sono una ) e riesce a mostrare una Russia diversa, provate a guardare i suoi post e seguite l’hashtag #zaebis (significa cazzutissimo). Un suo reportage mostra l’attività della Ong Kruzhok che si occupa di insegnare ai bambini delle province a usare il computer, a utilizzare internet, a costruire siti, per poter avere diverse opportunità.
(**) Daria Serenko. Ha fondato a Mosca una casa-asilo per vittime di abusi e una scuola per attivisti. Ha ventotto anni, è una poetessa e una femminista, seguo anche lei su Instagram.
(***) Karagodin.org : Denis Karagodin, giovane ricercatore, è riuscito a trovare i documenti in cui venivano citati tutti i nomi di coloro che avevano giustiziato il suo bisnonno. Ha ricostruito i rastrellamenti e gli omicidi compiuti dai boia dell’Nkvd di Tomsk. Anna Zafesova ha definito Karagodin il Navalny della storia e la sua ricerca una Norimberga personale.