Carla Vitantonio è nata in Molise e vive a Cuba, dopo aver trascorso quattro anni in Corea del Nord e due anni in Myanmar come capo missione per una Ong internazionale. Oltre a lavorare come cooperante, è attivista per i diritti civili e attrice. Per add editore ha pubblicato Pyongyang Blues, che è diventato anche un podcast.
Dopo aver vissuto quattro anni in Corea del Nord, Carla Vitantonio sbarca a Yangon, la più popolosa e vivace città del Myanmar. Proprio come il Paese che la ospiterà, sta attraversando una travolgente trasformazione, sballottata tra antichi conflitti e promettenti novità. Il suo incarico è quello di direttrice regionale per un’importante Ong. L’obiettivo è assistere le persone disabili tramite numerosi programmi, tra cui quello di supporto alle vittime delle mine antipersona.
Il primo anno non è affatto semplice, in Myanmar tutto segue una logica impossibile da decifrare e ci vuole tempo per trovare il proprio posto. Poi, grazie a due gatti, una bicicletta su cui sfrecciare tra i pericoli delle strade birmane, una comunità queer tra le più aperte del continente asiatico e le trattative nella giungla con le milizie ribelli, l’autrice inizia a sviluppare un legame sempre più profondo con queste lande remote e con le persone che le abitano, offrendo ai lettori uno sguardo unico – di donna, attrice, attivista, cooperante,– per comprendere un altro pezzo di Asia.
Con Carla ci eravamo lasciate nel 2019 con il suo racconto dell’esperienza a Pyongyang, in Corea del Nord, ora la ritrovo a Cuba ma per raccontare della sua esperienza in Myanmar con Myanmar Swing.
In Myanmar Swing spieghi che per una Ong avere un ufficio in Myanmar è cosa ambita. Mi spieghi per favore che vantaggi ha una organizzazione ad occuparsi di questo o quell’altro paese?
“Le dinamiche della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario sono complesse e dipendono da molti fattori, io direi specialmente geopolitici ed economici, i quali si sommano a interessi storici spesso provenienti dall’era della colonizzazione Europea in Asia, Africa e America. È difficile riassumere tutto in un paragrafo, ma da sempre nel mondo ci sono crisi sexy e crisi che lo sono molto meno. Per esempio, qualcuno in Italia sente parlare della Repubblica Centrafricana, o della Somalia? Sicuramente molto poco. Sono crisi che in Italia non sono molto sentite, al contrario della tragedia siriana, o di quella palestinese. Nel nostro gergo le chiamiamo le “crisi dimenticate”, situazioni difficili, spesso innescate da dinamiche postcoloniali, alle quali i donanti internazionali non si interessano – i più cattivi direbbero perché non hanno niente da cavarne– e di conseguenza poche ONG vi lavorano (la maggior parte delle ONG funzionano con fondi istituzionali e donazioni private).
Il Myanmar è, in Asia, la crisi sexy per eccellenza. Un paese ricchissimo di risorse naturali, in conflitto da 60 anni, situato tra India e Cina. Un paese dove ci sono immensi interessi stranieri che spesso contribuiscono ad acuire i conflitti interni già fortissimi. I bisogni delle persone sono moltissimi, e quindi ci sono dei motivi reali e razionali per voler essere lì, ma purtroppo c’è anche la questione del prestigio, del chi arriva prima, del chi si accaparra più soldi. È triste ammetterlo, ma le ragioni che muovono a livello macroscopico l’assistenza umanitaria non sono sempre le più nobili, o non solo. Anche se noi, singoli individui, siamo magari animati dalle più oneste pulsioni e da ragionamenti a volte radicali sul cambiamento necessario, le nostre organizzazioni (alle quali rispondiamo) fanno anche i conti con la loro sopravvivenza economica e politica. Questo è un momento estremamente delicato per avvicinarsi al tema, dal 2016 parliamo molto di decolonizzazione dell’aiuto umanitario, ci chiediamo come sia possibile farlo, se non sia, l’aiuto umanitario, già completamente imbibito degli stessi principi coloniali. Insomma, molti di noi dicono (temono?) che fra 10 anni il nostro mondo non sarà più così, che molte ONG saranno scomparse, e allora bisogna posizionarsi.
È un ragionamento che mi deprime molto. Peraltro io, nell’organizzazione per cui lavoro ora, faccio parte del comitato di studio sulla decolonizzazione dell’aiuto umanitario, e leggo ogni giorno rapporti, riassunti, articoli, che mi riempiono di disillusione. Non era per questo che eravamo partiti, tanti anni fa. L’unica cosa che mi anima ancora sono le persone che incontro sul campo e che possono migliorare la loro esistenza grazie ai nostri programmi. In quei momenti ci credo ancora un po’”.
Hai scritto che la Birmania/Myanmar è l’amico più sporco della Corea del Nord. Mi fai capire meglio?
“Quando l’ho scritto la Birmania si apriva al Nord del mondo dopo decenni di sanzioni, e si sapeva molto poco di come avesse portato innanzi i propri interessi nei passati 50 anni. Le speculazioni sulla Corea del Nord si facevano in alcuni corridoi, specialmente quelli in cui si parlava di armamenti, ma non era un discorso molto popolare perché si percepiva che avrebbe potuto annebbiare l’entusiasmo verso il cambiamento che (credevamo) era in corso. Poi con l’andare dei mesi emersero molti dei legami con la DPRK, tanto che Aung San Suu Kyi dovette dichiarare pubblicamente che avrebbe tagliato almeno quelli più “sporchi” (armamenti, incluso quelli nucleari, formazione dei militari e dei servizi di spionaggio, supporto per le costruzioni di sicurezza come la capitale Nay Pyi Daw). Non posso speculare sullo stato di salute delle relazioni tra i due paesi oggi, ma con il colpo di stato dei militari è chiaro che si apre la possibilità di un ritorno di alleanze”.
Dopo Afganistan e Colombia il Myanmar è il Paese più contaminato al mondo dalle mine eppure non ha firmato il Trattato di Oslo sull’uso delle munizioni a grappolo e non ha firmato la convenzione di Ottawa contro la produzione, l’uso e lo stoccaggio delle mine antipersona. Quali sono le logiche alla base di questa scelta?
“La risposta disincantata e breve a questa domanda è che non hanno firmato i trattati proprio per potersi permettere di continuare a contaminare. Non solo le varie organizzazioni militari che combattono nel paese comprano questi armamenti, ma spesso li fanno loro stessi. Il loro uso è purtroppo ancora naturalizzato nelle tecniche di guerra e guerriglia nel paese.
Peraltro ricorda che anche paesi come USA e Israele non hanno la minima intenzione di firmare. E non ci sorprende sapere che gli USA stanziano ogni anno dei fondi per lo sminamento in Birmania. Questi fondi sono erogati esplicitamente per lo sminamento di aree potenzialmente contaminate da armi USA. Fai due più due, e hai svelato l’arcano”.
Tu scrivi:
Un giorno qualcuno mi chiederà dov’ero io, nell’autunno 2017, mentre il governo birmano sterminava i rohingya. Quel giorno dovrò rispondere che ero a Yangon, seduta a un lungo tavolo di legno, aria condizionata sui ventiquattro gradi fissi, pasticcini e Powerpoint, insieme a me tutti i rappresentanti delle più grosse potenze mondiali, le Nazioni Unite e le Ong. Portavo un giro di perle al collo e avevo un vestito fatto a mano per me. Tutti sorbivamo caffè. E non abbiamo fatto niente.
Perché nessuno ha fatto niente e perché Aung San Suu Kyi ha negato il genocidio?
“Io non so perché nessuno abbia fatto niente. So che nessuno ha fatto abbastanza. Nemmeno noi. Che fai, segui l’imperativo umanitario e porti aiuto in quelli che sono dei veri e propri campi di concentramento, o dichiari l’abominio e così ti condanni a dover uscire dal Paese senza poter avere più nemmeno quel poco impatto che avevi quando aiutavi la gente nei campi?
Io in Birmania ho capito che essere puliti nel bel mezzo di una crisi di queste dimensioni è praticamente impossibile, che siamo tutti colpevoli. E perché? Perché i Rohingya non contano abbastanza? Perché altri interessi contano di più? Perché nel nostro mondo le persone in genere contano troppo poco, soprattutto le persone più vulnerabili?
Che ASSK neghi il genocidio mi riguarda molto poco. La Signora ha cercato per 5 anni di sviluppare una strategia di negoziazione con Tatmadaw e questo probabilmente era parte della sua strategia. Peraltro non dobbiamo dimenticare che i rohingya sono molto poco benvisti in Birmania, e che ASSK aveva il dovere di parlare a nome del suo Paese, un Paese che non riconosce questo atto. Vediamo oggi che la supposta strategia di negoziazione con Tatmadaw non ha funzionato. Peccato per i Rohingya. Ma molti di noi li hanno già dimenticati”.
Ad un certo punto in Myanmar Swing parlando dell’estremismo buddhista dici:
Mioddio ma sti buddhisti erano buoni o cattivi? Quelli che si facevano massacrare dai militari erano gli stessi che ammazzavano i bambini musulmani? Che casino sta Birmania.
A quali conclusioni sei arrivata? Sono buoni o cattivi?
“Sono arrivata alla conclusione che me ne sono andata. E nel paese dove sono arrivata dopo la Birmania ho trovato gli stessi interrogativi ad aspettarmi. Ma sti cubani, sono buoni o cattivi? Ti aiutano quando sei nelle situazioni più disperate, eppure non perdono occasione per fregarti e farti sentire uno straniero. Insomma, per me questa è stata una domanda della crescita. E come tutte le domande della crescita non ha una risposta. La Birmania stessa è stata una tappa fondamentale della mia crescita personale e professionale. Già in Corea dicevo non devo giudicare, devo osservare, e ora lo penso ancora più forte. Te la ricordi la canzone degli Almamegretta che diceva pienzc bbuon, tienl ammente, chi è o bbuon e chi o mmalament”.
Ultima domanda cara Carla, visto che è già un po’ che vivi a Cuba, stai scrivendo già Cuba rumba?
“Ah! Mentre sceglievamo il titolo di questo libro con Ilaria Benini, sapevo che sarebbe arrivata la domandona! La musica gioca un ruolo importantissimo nella mia vita, nella mia produzione artistica e nella mia scrittura. Sono purtroppo convinta che certe cose non mi sarebbero uscite bene come hanno fatto se non avessi avuto l’appropriato accompagnamento musicale. Tutti i capitoli della mia vita sono stati caratterizzati da un’atmosfera. Pyongyang era un blues, un sentimento di perdita anticipata, di amore perduto prima di essere consumato, di sogno infranto, eppure mai disperato. La Birmania è stato uno swing. In Bamar swing e passaggio si scrivono uguale. Un transito. Tra due epoche differenti, tra due me differenti se vuoi, però con energia, improvvisazione, molte soprese, e gioia. Lo swing ti fa sempre nascere un sorriso irriverente quando meno te lo aspetti.
Vediamo come va questo swing, la risposta che trova nella gente, il ritmo. Potrebbe esserci un racconto di Cuba poi, e probabilmente avrà la sua musica, ma ancora non la sento, ancora non la so”.