1980, Brooklyn. Paul Auster è seduto alla scrivania sotto due lampade accese. Le tende delle finestre sono chiuse giorno e notte. Preferisce scrivere sulla sua Olympia accanto alle decorazioni sulle tele che al muro di mattoni davanti casa. Sospira. Sono ormai diversi anni che è tornato dalla Francia e ha pubblicato solo una raccolta di poesie. In Europa ha lavorato con la scrittrice Lydia Davis come critico e traduttore, hanno avuto la convinzione che la loro povertà fosse romantica fino a quando la situazione non è diventata disperata. Sono tornati negli Stati Uniti con nove dollari ma questo non ha evitato di sposarsi nel 1974 e di divorziare nel 1977.
Squilla il telefono, la voce di un uomo con un forte accento spagnolo chiede se quella fosse l’agenzia Pinkerton. Paul Auster dice di no e attacca. Lo stesso uomo richiama il giorno dopo e chiede di nuovo della stessa agenzia investigativa. Lui ribadisce che ha sbagliato numero ma subito dopo inizia a immaginare cosa sarebbe successo se avesse impersonificato un investigatore privato e si fosse offerto di occuparsi di un caso. Inizia, così, a scrivere la storia di uno scrittore solitario di nome Quinn che, in tre notti diverse, riceve una telefonata da un uomo che cerca “Paul Auster. Dell’agenzia investigativa Auster”.
Le prime due volte, Quinn dice semplicemente all’uomo che ha composto il numero sbagliato, ma la terza notte finge di essere Paul Auster, investigatore privato. Quello che segue è “City of Glass” la prima parte di The New York Trilogy (La trilogia di New York, Rizzoli, 1987 – Einaudi, 1996 trad. di Massimo Bocchiola) una antologia di tre romanzi brevi pubblicati dal 1985 al 1986 che hanno fanno conoscere Auster come un autore originale che oscilla tra tradizione e innovazione. Trilogia di New York è ambientato in una città allucinata, in cui tutto si confonde e sfuma. La prima parte, ‘City of Glass’, è un thriller poliziesco e psicologico. “Ghosts” – la seconda storia – è l’inquietante storia di un uomo costretto a pedinare sé stesso. La parte conclusiva, “The Locked Room”, è l’autobiografia di un autore letterario scomparso. Jan Kjærstad, scrittore e critico norvegese, l’ha descritto come un “cristallo che rifrange la luce in colori che raramente sono stati visti prima”. L’Enciclopedia Treccani ha definito l’opera come una parodia postmoderna del romanzo poliziesco, la trilogia scardina le convenzioni del genere, mescolando echi della grande tradizione americana (N. Hawthorne, H. D. Thoreau, E. A. Poe, H. Melville) a suggestioni del nouveau roman, per costruire un universo, sia narrativo sia urbano, dominato dal caso.
Il romanzo ebbe un successo europeo prima che statunitense. Quando uscì in Inghilterra nel novembre 1987, la prima tiratura di cinquemila copie andò esaurita in una settimana ed è stato subito osannato in Francia. È stato meno celebrato nel suo paese d’origine, anche se la situazione è cambiata quando, a metà degli anni novanta, ha realizzato, con Wayne Wang, il film “Smoke”. Si cominciò allora a prestare maggiore attenzione ai suoi delicati e ponderati lavori come The Music of Chance (La musica del caso, Guanda, 1990 – Einaudi, 2009, trad. di Massimo Birattari) Leviatano (Leviatano, Guanda, 1995 – Einaudi, 2003, trad. di Eva Kampmann) e Mr. Vertigo (Mr. Vertigo, 1994 trad. di Susanna Basso)
Con i suoi vestiti neri e la sua esperienza nella poesia francese, il suo amore per Samuel Beckett e le incursioni nel cinema indipendente, Auster è diventato presto un intellettuale elegante ma accessibile, un tipo di scrittore d’avanguardia che abbraccia un pubblico mainstream. Insieme a Lou Reed e Woody Allen, è oggi uno dei simboli di New York, così tanto che hanno proposto a lui e alla seconda moglie – la scrittrice di origini norvegesi Siri Hustvedt – di girare uno spot pubblicitario per Gap ma lui ha rifiutato. “Non mi piace la pubblicità”, ha spiegato al the Guardian.
“Il risultato del suo lavoro è quello di costruire un’architettura narrativa tradizionale con interni decisamente moderni” dice Don DeLillo, autore newyorkese e grande di Paul Auster, talmente tanto che quest’ultimo gli ha dedicato “Leviathan”. Tra i due c’è una reciproca influenza letteraria, in “Mao II“, ad esempio, uno scrittore solitario afferma “anni fa pensavo che fosse possibile per un romanziere alterare la vita interiore della cultura. Ora i fabbricanti di bombe e gli uomini armati hanno conquistato quel territorio”; questa osservazione potrebbe essere il motto segreto di “Leviathan”, il libro inizia infatti con la notizia che un uomo di nome Benjamin Sachs, un romanziere, è stato fatto a pezzi da una bomba che stava assemblando.
Diversi sono i temi ricorrenti usati dall’autore americano (su wikipedia c’è perfino una lista) come l’ambientazione a Brooklyn, la presenza di uno scrittore ossessivo come personaggio centrale e l’assenza del padre ma quello più ricorrente nella sua vita come nelle sue opere è sicuramente “la coincidenza”. Questo tema è presente sia nei romanzi Moon Palace (Einaudi, 2007, trad. di Mario Biondi) The Music of Chance e Leviathan che nella sua vita, tanto che Paul Auster ha raccolto nel libro Experiment In Truth (Esperimento di verità Einaudi, 2001, trad. di Massimo Bocchiola) e The Red Notebook (Il taccuino rosso, Einaudi 2013, trad. di Magiù Viardo) alcuni racconti dove il caso ha condizionato eventi realmente accaduti. Le storie riguardano incredibili coincidenze (avvenute sia all’autore che a suoi amici) che sbalordiscono il lettore. “Il caso fa parte della nostra realtà: siamo continuamente plasmati dalle forze della coincidenza, l’imprevisto si verifica con una regolarità quasi paralizzante in tutto le nostre vite” afferma Paul Auster in un’intervista su jstor.
Quando Paul Auster aveva cinquant’anni, e dopo aver sofferto alcuni periodi di cattiva salute, scrisse una serie di libri incentrati sul rapporto con la morte e i suoi fantasmi come Timbuktu (Einaudi, 1999, trad. di Massimo Bocchiola) The Book of Illusions, (Il libro delle illusioni, Einaudi, 2003, trad. di Massimo Bocchiola) e Oracle Night (La notte dell’oracolo, Einaudi, 2004, trad. di Massimo Bocchiola)
Durante i suoi sessanta anni, invece, Auster ha scritto del suo passato, sia nei suoi romanzi come Invisible (Einaudi, 2009, trad. di Massimo Bocchiola) che racconta la storia di uno studente della Columbia alla fine degli anni ’60 (Auster studiava lì propri in quel periodo) sia attraverso due saggi come Winter Journal (Diario d’inverno, Einaudi, 2012, trad. di Massimo Bocchiola) e Report from the Interior (Notizie dall’interno, Einaudi, 2013, trad. di Monica Pareschi) dove rievoca le sensazioni e gli avvenimenti della sua infanzia.
“Penso che quei due libri abbiano gettato le basi per il mio ultimo romanzo 4321(Einaudi, 2017, trad. di Cristiana Mennella)” dice al the Guardian e racconta nella stessa intervista che quando aveva invece quattordici anni, un ragazzo a pochi centimetri da lui fu ucciso colpito da un fulmine. “È qualcosa che non ho mai superato”, afferma “eravamo al campo estivo colti da una tempesta elettrica nel bosco. Qualcuno ha detto che dovevamo raggiungere una radura e dovevamo strisciare, in fila indiana, sotto una recinzione di filo spinato. Un fulmine colpì la recinzione mentre il ragazzo immediatamente avanti a me la stava oltrepassando. La mia testa era proprio vicino ai suoi piedi. Non mi resi conto che il ragazzo era morto sul colpo così l’ho trascinato nella radura”.
Se il fulmine fosse caduto solo pochi secondi dopo, sarebbe stato lui a morire. “Sono sempre stato ossessionato da quello che è successo, dalla sua totale casualità”, dice. “Penso che sia stato il giorno più importante della mia vita.” Un incidente simile si verifica nell’ultimo romanzo di Auster, 4321. Archie Ferguson, un tredicenne pieno di promesse, affascinato da The Catcher in the Rye di J.D. Salinger e dai suoi primi baci, corre sotto un albero durante una tempesta al campo estivo. Quando un fulmine lo colpisce e viene ucciso da un ramo che cade. Ma questo è il destino di solo uno dei quattro Archie Ferguson nel romanzo. La narrativa di Auster ha sempre esplorato i momenti in cui le vite, grazie al caso e alle circostanze, prendono direzioni diverse, e nel 4321 questa idea viene presentata nella sua forma più pura. Il romanzo inizia con la nascita di Ferguson il 3 marzo 1947 da Stanley, che gestisce un negozio di elettrodomestici a Newark, New Jersey, e Rose, che lavora per un fotografo. Quelle che seguono sono quattro versioni della storia di Ferguson. I quattro Archie hanno lo stesso punto di partenza (gli stessi genitori, gli stessi corpi e lo stesso materiale genetico) ma, mentre attraversano l’infanzia e l’adolescenza, prendono strade divergenti. Ogni Ferguson vive in una diversa città del New Jersey e ha una diversa configurazione di famiglia e amici. Man mano che le loro storie si svolgono in capitoli a rotazione, diventano persone sempre più distinte: si sente l’influenza del denaro, o la sua mancanza; divorzio; formazione scolastica; e tutti gli altri fattori che determinano le prime vite. Auster presenta quattro ritratti dettagliati dell’intensità della giovinezza – di imbarazzo e frustrazione, ma anche di passione per i libri, i film, lo sport, la politica e il sesso. Tutti gli Archie sono pieni di intelligenza e tutti sono aspiranti scrittori. Tutti si innamorano dell’accattivante Amy Schneiderman, anche se ogni relazione si svolge in modo diverso. Un Ferguson ha un incidente d’auto e perde le dita, uno è bisessuale, un altro ha un amico che muore improvvisamente. Paul Auster lo descrive come il “romanzo più realistico che abbia scritto”. Ha iniziato a scrivere 4321 all’età di 66 anni, l’età in cui suo padre è morto improvvisamente. Il pensiero che anche lui potesse morire lo fece lavorare in fretta, finendo il romanzo di 866 pagine in tre anni e mezzo invece dei cinque previsti.
Paul Auster oggi ha pubblicato diciotto romanzi più diversi libri di poesia, saggistica e opere cinematografiche come Smoke, Blue in the Face e Lulu on the Bridge. Vive in un bell’edificio in pietra calcarea di inizio secolo, il tipo di casa a schiera che rende Park Slope uno dei migliori quartieri di Brooklyn. L’appartamento è al terzo piano ed ha finiture in legno e soffitti alti. L’autore ama sedersi sulla sua poltrona a raccontare storie agli amici o parenti. Racconta spesso che ha iniziato a fare lo scrittore il giorno in cui, all’età di otto anni, incontrò il suo eroe del baseball Willie Mays a una partita dei New York Giants e, raccogliendo tutto il suo coraggio, gli chiese un autografo. Ma né suo padre né sua madre avevano una matita, e alla fine il giocatore scrollò le spalle e se ne andò. Auster era disperato e da quel giorno – così ha dichiarato al Columbia Magazine – non uscì più di casa senza una matita: “Se hai una matita in tasca, c’è una buona probabilità che un giorno inizierai ad usarla.” Ma la storia che preferisce è su una chiamata avuta dopo il successo di Trilogia di New York, quando al telefono una voce con un forte accento spagnolo ha chiesto del signor Quinn. “Ho pensato che fosse una specie di scherzo” racconta al New York Time “Niente affatto – l’uomo era serio. Così ho preso il mio taccuino. Poteva trasformarsi in una buona storia”