Milano, 23 marzo 2025. Marco Cassini è seduto nella libreria Hoepli. Sopra di lui, una scritta: Casa Editrice SUR – Editore del mese.
Il cellulare si illumina. Lo prende, legge. È un messaggio di Michele Crescenzo, lo avvisa che sta arrivando per intervistarlo per La Voce di New York. Marco si gratta la barba bianca. Cosa posso raccontargli? pensa. Forse potrebbe interessargli il documentario Scrivere/New York con le interviste con A.M. Homes, Jonathan Lethem, Rick Moody e altri autori newyorkesi. O quella sera in una birreria di Brooklyn, quando ha brindato con Colson Whitehead alla vittoria del Pulitzer. Oppure della bandana che David Foster Wallace gli ha regalato. O di quella volta in cui Zadie Smith ha finto un mal di pancia per cenare di nascosto con lui e Martina Testa. O della fondazione di minimum fax. O della più recente SUR.
Potrebbe raccontare come è nato il suo amore per la letteratura americana. Forse con Ferlinghetti. O era con Carver. O forse è davvero cominciato tutto a casa di Francesco Piccolo, quando ha aperto Cattedrale e non è più riuscito a smettere di leggerlo.
Scuote la testa. Sorride. La mente non segue percorsi logici. Quelli sono per i computer. I pensieri inciampano, deviano, tornano indietro. Un ricordo ne chiama un altro. Poi un altro ancora.
Il tempo lineare è per gli orologi. Ma chi vuole vivere guardando sempre l’ora?
La libreria è silenziosa, le voci si perdono tra gli scaffali. Pochi lettori si muovono senza fretta, come in cerca di qualcosa che ancora non sanno.

Marco Cassini si lascia scivolare nei pensieri. Inchina il volto, fissa un punto indefinito del soffitto. Come se, tra quelle insegne bianche su sfondo azzurro e i faretti dalla luce calda, potesse trovare una risposta. O almeno un ricordo che meritasse di essere raccontato in questa intervista.
Forse dovrebbe provare a partire dall’inizio. Da quando, ancora studente universitario, decise di fondare minimum fax. L’idea era semplice: una casa editrice dedicata alla scrittura, ai saggi, alle interviste. Gli anni Novanta erano appena iniziati. «Anche io, nella primavera del ‘94, decisi di scendere in campo», ripeteva con un sorriso.
La letteratura angloamericana venne dopo. Per caso.
Nel ‘95 incontrò Ferlinghetti. Lo intervistò per il manifesto. Scoprì che in Italia, da vent’anni, nessuno traduceva più i suoi libri. Alla fine dell’intervista gli chiese due poesie per la sua rivista. Ferlinghetti gliene spedì una ventina, rigorosamente via fax. Lui le lesse. Poi, senza troppi scrupoli, gli propose di pubblicarle tutte.
Marco abbassa lo sguardo. Sul banchetto espositivo dei libri SUR scorge Fotografie del mondo perduto e Scoppi urla risate. Le ultime poesie di Ferlinghetti. Gli anni passano, ma continua a pubblicarlo. Anche se con un’altra casa editrice.
Forse è vero: tutto era nato da Ferlinghetti. Ma fu nel 1995 che le cose cambiarono davvero, quando pubblicò una celebre intervista a Raymond Carver uscita sulla Paris Review. Due anni dopo arrivò il primo vero libro dell’autore americano: Il nuovo sentiero per la cascata, una raccolta di poesie.
All’epoca, la narrativa di Carver era pubblicata da grandi case editrici. Per ottenere i suoi diritti, Marco dovette dimostrare a Tess Gallagher, erede e curatrice dell’opera, quanto lo amasse. Non si limitò a scriverle: andò a trovarla. E intanto pubblicò tutto ciò che era disponibile. Un’altra raccolta di poesie. I Racconti in forma di poesia. Un libro misto di versi e prose, Voi non sapete che cos’è l’amore. Perfino una sceneggiatura, Dostoevskij.
Ogni pubblicazione era un modo per farsi trovare pronto. Sapeva che, prima o poi, i contratti con gli altri editori sarebbero scaduti. E così, allo scoccare del nuovo millennio, divenne il suo editore. Per anni ha raccontato con soddisfazione che «fare l’editore e pubblicare Raymon Carver era come, da tifoso del Napoli, giocare una partitella con Maradona al campetto sotto casa».
Marco affonda le dita nella barba bianca, lo sguardo che scivola tra gli scaffali. Forse dovrebbe raccontare a Michele del suo colpo più importante. E quel colpo era, senza dubbio, David Foster Wallace.
Per arrivarci, però, bisognava tornare a Ferlinghetti. Marco ricordava bene quel giorno. Era il 9 agosto, il suo compleanno. Si trovava alla City Lights, la libreria di San Francisco fondata dal poeta americano. Passò lì l’intera giornata, una festa solitaria in mezzo ai libri.
Fu allora che vide quel volume. Non ne sapeva nulla. Era enorme, troppo grande per stare nello scaffale. Qualcuno l’aveva posato in orizzontale, sporgendo fuori. Passando, lo urtò. Il libro cadde a terra. Un segno del destino, pensò.
Si chinò per raccoglierlo. Lesse il titolo stravagante: A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again. L’autore era David Foster Wallace. Gli tornò in mente un suo racconto letto anni prima su Panta, Per sempre lassù. Lo comprò senza esitazione.
Sul volo di ritorno per l’Italia lo divorò. Non aveva mai letto nulla di simile.
Tornato a casa, scrisse all’agente. Mandò un’offerta. Firmarono un contratto. Era una piccola scommessa, una di quelle che si ricordano per sempre: aveva comprato i diritti di uno degli scrittori più influenti degli ultimi anni per cinquecentomila lire di anticipo (circa duecentocinquanta euro).
Nel 2000 conobbe Wallace di persona. Volò a Bloomington, Illinois. Si diedero appuntamento in una libreria fuori dal campus. Poi pranzarono in un diner. Due hamburger, niente di speciale.
Wallace lo guardò incuriosito. «Cosa ci fai qui?»
Marco gli raccontò di aver attraversato mezza America solo per incontrarlo. Wallace sgranò gli occhi. «Ma davvero sei venuto fin qui solo per me?»
Si sentì in dovere di offrirgli il pranzo. E di regalargli una sua bandana (oggetto che diventò iconico per intere generazioni). Poi, con il suo umorismo tagliente, glielo rinfacciò nella dedica sulla copia di Infinite Jest che Marco aveva trascinato per un mese nello zaino solo per quell’autografo.
«Sei il primo editore al mondo con cui ho firmato un contratto di traduzione», gli disse Wallace. «I miei libri sono usciti finora solo in inglese. Sarai sempre una mia prima volta.»
Un uomo si avvicina al banchetto SUR e sfoglia Questa strana e incontenibile stagione di Zadie Smith. Marco gli racconta che stanno lavorando a una nuova raccolta di articoli e saggi dell’autrice britannica, in uscita entro l’anno.
Quando il cliente si allontana, Marco sorride tra sé. Deve assolutamente raccontare a Michele il suo primo, surreale incontro con Zadie. Era a Mantova, durante un festival letterario. Zadie presentava un libro. Lui e Martina erano seduti in prima fila, con un sorriso stampato in faccia e le magliette di McSweeney’s. Quando Zadie ricambiò il sorriso, sembrò un cenno di riconoscimento. Dopo la presentazione, la trascinarono in una taverna. Il vino continuava a riempire i bicchieri, le conversazioni si facevano più allegre. Si parlava di scrittori americani, nomi che risuonavano familiari, scintille di entusiasmo a ogni scoperta comune.
A un certo punto, Marco infilò una mano nella giacca e tirò fuori una scatoletta di latta. Dentro, una bandana appallottolata. Quella di Wallace.
Zadie sorrise, colpita e divertita.
Poi, verso le due del mattino, Marco prese una tovaglietta di carta e scrisse un contratto. Zadie si chinò in avanti e lo firmò, facendo attenzione a evitare le macchie di vino.
Ancora oggi, Marco le manda e-mail per ricordarle che quel contratto ha valore legale. «Ci vediamo in tribunale», scrive.
Ma non c’è mai stato bisogno. Zadie ha sempre rispettato il patto.

Marco Cassini si volta verso il banchetto della sua casa editrice, SUR. In bella vista, La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead. Il loro bestseller.
Si appunta mentalmente che deve raccontare a Michele di quel libro. E di come Whitehead sia l’unico autore che sia riuscito a perdere due volte. Lo ricordava bene quel ferragosto del 2016. Barack Obama era ancora presidente e, come ogni anno, aveva pubblicato sui social la sua lista di libri preferiti. Tra quei titoli, c’era La ferrovia sotterranea, uscito da pochi giorni.
Marco aveva già pubblicato Whitehead in passato, con John Henry Festival per minimum fax. Poi l’autore era passato a Einaudi. Quando uno scrittore se ne va, pensi che non tornerà mai più. Ma e se nessun editore italiano avesse ancora preso i diritti?
Chiamò Martina Testa, traduttrice e socia di SUR. “Mi sembra impossibile, ma se nessuno ha annunciato l’edizione italiana, potremmo provarci.”
Martina non si fece illusioni. Ma inviarono comunque una mail all’agente di Whitehead.
La risposta arrivò in fretta. Il libro era disponibile.
Lo lessero d’un fiato. Ne riconobbero subito il valore. Ma mentre aspettavano una conferma, La ferrovia sotterranea scalava le classifiche. Arrivò al primo posto.
Gli altri editori italiani si fecero avanti. Offerte molto più alte della loro. Eppure, alla fine, SUR fu premiata.
Due anni dopo, la storia si ripeté. Lui stava trattando i diritti de I ragazzi della Nickel. Le trattative erano quasi concluse. Poi arrivò Mondadori. L’agente di Whitehead non fece giri di parole. “L’offerta è incommensurabilmente più alta della vostra.” Marco sapeva di aver fatto il massimo. La sua offerta più alta in trent’anni. Ma non bastò. Whitehead gli era stato portato via di nuovo.
La porta si apre. Michele entra con passo deciso. Marco si alza e gli va incontro. La stretta di mano è ferma, accompagnata da un sorriso accennato. Si siedono ai due lati del banchetto SUR. Tra loro, una pila di libri, il logo della casa editrice che spicca tra le copertine colorate. Michele poggia la borsa ai piedi della sedia, estrae il quaderno degli appunti con un gesto rapido. Alza lo sguardo, la penna già tra le dita. “Allora, da dove vogliamo cominciare?”.