“Dittatore”. Parola chiara, quant’altre mai. L’ha pronunciata ieri il nostro Presidente del Consiglio, Mario Draghi, all’indirizzo di Recep Erdogan, nominalmente, Presidente della “Repubblica di Turchia”.
Noto, l’antefatto immediato della qualificazione. In occasione di un incontro diplomatico fra lo stato turco e l’Unione Europea, svoltosi un paio di giorni fa, alla Presidente Von der Leyen, cincischiando con il protocollo, è stato usato il malgarbo di una distinta e minorante disposizione fra i presenti: oltre ad Erdogan, anche il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, inerte per l’occasione. I due uomini, su una sedia, vicini; la donna, a distanza, su un sofa, a rimarcarne la pretesa “alterità” di rango e di dignità.
Il gesto è stato variamente riprovato, ma nessuno, prima di Draghi, ne aveva affermato così distintamente, e da così impegnativa qualità istituzionale, il sinistro valore politico e culturale. Le proteste, pur di estensione planetaria, sono state per lo più articolate sul registro della discriminazione di genere: indubbio, e indubbiamente rilevante, ma da solo insufficiente a definire, in tutta la sua portata, la gravità dell’episodio.
Insomma, non un cafone qualsiasi, o uno psicopatico complessato, ma un reggitore di uno stato che agisce politicamente nel metodico e reiterato disprezzo di libertà, verità, e democrazia. E Draghi, chiaramente, giustamente, l’ha detto.
Il Dittatore Erdogan, solo dal Luglio 2016 (quando, dopo un tentativo di colpo di stato militare, ha reagito secondo il principio “a brigante, brigante e mezzo”, e non si è più fermato), ha fatto arrestare decine di migliaia di persone, fra oppositori politici, giornalisti, militari, magistrati, avvocati, cittadini comuni, nel dispregio di ogni pur minima regola di dignità giuridica e umana, e con una ferocia pari solo alla sua viltà (e questa settimana, altri dieci arresti, altrettanti ammiragli, rei di aver contestato il progetto del cd “Canale Istanbul” per collegare, bypassando il Bosforo, Mar Nero e Mar di Marmara, dovuto all’egotismo espansionistico del Nostro, e ritenuto una “minaccia di colpo di stato”, nell’ineffabile linguaggio di regime).

Erdogan ha, di fatto, soppresso la libertà di stampa; si è lanciato, secondo la dottrina della “Patria Blu”, alla conquista di “spazi vitali mediterranei”, impiantandosi nella ex Libia (versante Tripolitania), in condominio rissoso ma consolidato con la Russia del suo omologo Putin (versante Cirenaica), non mancando di riattizzare antiche conflittualità con la Grecia, su Cipro e i giacimenti energetici dell’Egeo; ha messo a reddito una gestione estorsiva delle rotte migratorie balcaniche, grazie all’apertura e chiusura arbitraria dei suoi “cancelli anatolici”; soprattutto, ha preso ad agire come potenza regionale, su uno scacchiere delicatissimo, come quello compreso fra Caucaso e Medio Oriente, inserendosi prepotentemente fa Iran e Russia, e accrescendo così la pericolosità di quell’inesauribile ginepraio geopolitico, (da ultimo, schierandosi decisivamente con gli azeri, contro gli armeni, nell’ultima tappa dell’ultradecennale guerra in Nagorno Karabakh).
Insomma, “l’incidente del sofa”, è stato considerato da un Draghi che mostra di conoscere dossier complessi e delicati, e di avere sguardo lungo: proiettato ben oltre la giusta, ma tutto sommato rassicurante, dimensione della questione di genere: tanto vero che la Turchia ha convocato l’ambasciatore italiano ad Ankara, Massimo Guaiani, solo dopo la “qualificazione” politica (“Dittatore”): essendosi invece mostrato finora tartufescamente indifferente a quella culturale, del resto non disturbato da Michel.
A differenza di quest’ultimo, Draghi, non si è girato dall’altra parte; né si è nascosto dietro una non meglio precisata volontà di “non provocare un incidente più grave” infelicemente invocata da Michel; ma ha posto la faccenda nel più ampio e urticante contesto politico-istituzionale, proprio di un leader democratico di rango davvero europeo.
Ha poi svolto una considerazione ulteriore. Ricordando che, nel complesso campo delle relazioni internazionali, una democrazia (per quanto, qui notiamo, malridotta come la nostra, dopo un trentennio di “trattamento” questurino), può aver “bisogno di “collaborare” con uno di “questi dittatori” (“anzi, cooperare”, ha voluto precisare, in un puntiglioso tentativo di definire il più possibile una “necessità minima”). Potrebbe sembrare una sorta di mezza marcia indietro, rispetto alla stentorea parola prima scandita. Ma, a ben vedere, ne accresce la forza. Qualificare qualcuno, in carne ed ossa, come “male necessario”, mentre nulla toglie alla nettezza del giudizio, richiama tutti al confronto incalzante con l’arbitrio, con la prepotenza, con la violenza: non confinati in un qualche empireo di purezza senza responsabilità, senza rischio di contatto e, perciò, “giusto a costo zero”; ma ricondotti sotto i nostri occhi. Per non dimenticare che l’autoinganno di non volere “incidenti più gravi” è nelle nostre corde europee; è nei vari “Signor”, “Mr”, “Herr” con cui abbiamo in passato scelto di non vedere, di non porre ed esigere un freno all’arroganza, preferendo lasciarle spazio, incuranti e complici. Bravo Draghi.