La 13.ma edizione del Bif&st ha coraggiosamente e, a mio modesto giudizio, giustamente reso omaggio all’indimenticabile poeta, scrittore, giornalista e regista Pier Paolo Pasolini – nel centenario della sua nascita – scegliendo di farlo attraverso un programma che non ha puntato sulla consueta retrospettiva cinematografica ma sulla conoscenza, da parte soprattutto dei giovani studenti universitari, del caleidoscopico artista attraverso anche il momento storico dell’Itali di quel tempo.
Due soli film sono stati mostrati nel Teatro Piccinni: Mamma Roma, di Pasolini, e La macchinazione, di David Grieco, amico vero ed ex collaboratore di Pasolini sui suoi set cinematografici e uno dei primi ad accorrere sul luogo dell’omicidio.
La proiezione del suo film, pur se del lontano 2016, si è dimostrata un scelta significativa perché continua ad essere un lavoro di valenza storico-politica e narrativa ancora intatta perché, pur se con qualche leggera caduta di ritmo qua e là, La macchinazione – trasposizione cinematografica del libro omonimo dello stesso Grieco – rimane un film/documentario importante per chi vuole seriamente cercare di capire meglio il mistero ancora irrisolto che circonda il tragico e brutale assassinio di Pier Paolo Pasolini, uno dei giganti della storia italiana del secolo scorso trucidato il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia. Ad interpretare Pasolini nel film. il bravissimo Massimo Ranieri.
Siamo alla vigilia di cambiamenti epocali per l’Italia e nell’estate di quell’anno, lo scrittore, poeta e regista sta montando il suo film più aspro e controverso, Salò o le 120 Giornate di Sodoma (“Opera che sorprende persino me che ne sono l’autore”, ebbe a dire). Mentre lavora al compimento del suo film, il poliedrico Pasolini sta anche scrivendo Petrolio, libro “profetico” sull’Italia del futuro che denuncia le trame di un potere politico-economico ormai molto corrotto.

Grieco ha il coraggio di “metterci la faccia” ipotizzando nel film – senza “saccenza” o manicheismo – le reali motivazioni dietro quel brutale assassinio: verdetto (?) ben lontano dalla verità giudiziaria che ha condannato fino ad oggi come unico colpevole l’allora minorenne “ragazzo di vita” Pino Pelosi.
Il mondo cinematografico sembra ormai aver demandato da tanto tempo alla televisione il compito di indagare su importanti fatti irrisolti della storia italiana, per cui ben venga la riproposizione di La macchinazione, nella speranza che un domani sia meglio capita la ricca personalità di Pasolini, la sua vera dimensione umana e culturale.
Per meglio comprendere Pasolini e quanto accaduto in quella terribile notte, abbiamo per il lettore questa lunga intervista al regista David Grieco.

Per chi in America non ha ancora visto La macchinazione o letto il suo libro omonimo: può dirci in poche parole in cosa consiste questa macchinazione?
“Userei come esempio il film JFK di Oliver Stone, non per paragonarmi ad Oliver, ovviamente, che è un gigante della storia del cinema, ma per paragonare il caso Kennedy al caso Pasolini. Pier Paolo è stato ammazzato con un pretesto, cioè il furto delle bobine del suo film Salò o le 120 giornate di Sodoma che lui stava ancora montando. Lui andò ad Ostia per cercare di recuperarle ma ciò diede a chi voleva ammazzarlo l’occasione perfetta per un agguato. Chi furono i mandanti di questo agguato il film lo dice: tanta gente che poi si scoprì, più avanti, faceva parte di una loggia massonica deviata, la P2, perché Pasolini rompeva le scatole, le rompeva parecchio scrivendo sul più importante giornale italiano, il Corriere della Sera, e raccontando tutte le trame oscure di quegli anni che – e forse molti americani non lo sanno – erano gli anni della strategia della tensione”.
Com’è nata l’idea del film? Era un progetto a cui pensava da tempo, vista la sua conoscenza da tanti, tanti anni di Pasolini, amico di famiglia?
“No, il film è nato per caso, grazie a un signore italo-americano, il regista Abel Ferrara, che mi venne a chiedere di scrivergli un film su Pasolini. Quando ci mettemmo a lavorare insieme mi resi conto che lui voleva raccontare un Pasolini che aveva soltanto in testa lui, non avendolo tra l’altro mai incontrato: un giorno mi disse addirittura ‘Diego, parliamoci chiaro: Pasolini era un uomo ricco che comprava corpi’. Io a quel punto non ci ho visto più e l’ho mandato a quel paese. L’idea che il film di Ferrara sarebbe stato comunque realizzato e sarebbe uscito (Pasolini – 2014, ndr) mi fece subito pensare, d’impulso, che dovevo fare La macchinazione, perché dietro l’uccisione di Pasolini ci sono tanti eventi importanti, come, tra i tanti, la crisi della Democrazia Cristiana, l’ormai prossima uscita di Petrolio (il romanzo postumo di Pasolini che uscì solo nel 1992 per Einaudi: 522 pagine, divise in Appunti in cui, oltre alle vicende dell’ingegnere Carlo dalle due facce, presenta anche l’esplorazione di diversi misteri riguardanti la sessualità ma anche la denuncia della trasformazione-involuzione dell’Italia di quegli anni, tra oscuri complotti di potere e stragi di stato rimaste impunite, Ndr): nel libro si capisce bene che Pasolini stava anche indagando su vicende e personaggi legati alla scoperta del petrolio, quali l’omicidio di Enrico Mattei, l’avvento di Cefis, e tanti altri attori più o meno di contorno”.
Quale è stato l’elemento scatenante dei tanti depistaggi dietro l’uccisione di Pasolini?
“Per capire meglio quegli anni va fatta la fotografia dell’Italia del 1974-1975, con i suoi diversi poteri occulti e dove c’è anche un elemento politico ‘devastante’: la presunta ascesa al potere del PCI, un partito comunista tutt’altro che filosovietico ma che fa paura agli Stati Uniti. Tutto quello che è successo in quegli anni e negli anni successivi, fino all’uccisione di Aldo Moro, poggia sulla paura che l’Italia potesse diventare un paese comunista, proprio un paese che era stato fin lì impegnato nella Nato: un evento che era assolutamente da scongiurare. La storia di quegli anni, ma anche quella recente in diversi episodi, nazionali e stranieri, ha dimostrato che quando c’è un problema da eliminare i poteri occulti ricorrono spesso a manovalanza di basso costo per risolverli. Non dimentichiamo, ricordando quegli anni che fece molto scalpore il discorso di Cefis, succeduto a Mattei alla guida dell’Eni, all’Accademia Militare di Modena (23 febbraio1972, Ndr) da cui traspariva sostanzialmente che la democrazia era un pericolo e che andava superata”.
Nel film sono presenti solo fatti accaduti o anche qualche piccola “invenzione”?
“Anche alcune invenzioni perché è un film, non un documentario. E le invenzioni sono quelle che non sembrano invenzioni e le cose vere sembrano invece invenzioni per quanto sono enormi. Due le invenzioni principali del film. Un’invenzione è il personaggio Giorgio Steimetz, interpretato da Roberto Citran: Steimetz è qualcuno che non esiste, è lo pseudonimo con il quale esce un libro, Questo è Cefis, che è un libro devastante su tutte le malefatte di Cefis, dalla Resistenza fino all’ Eni e alla Montedison. Pasolini, nella realtà, venne in possesso di questo libro che fu alla base del suo romanzo Petrolio. Ora, siccome faccio cinema, faccio film di finzione, glielo faccio incontrare questo personaggio che, ripeto, non esiste ma che probabilmente era Mauro Ragozzino, padre di un giornalista del Manifesto. Però anche questo non è certo. La seconda invenzione è il provino a cui viene sottoposto Pelosi (l’attore Alessandro Sardelli) per una scena di un presunto film assolutamente assurdo: lui deve imparare a memoria qualcosa che non ha né capo né coda. Questo qualcosa che non ha né capo né coda si rivelerà poi essere la sua confessione che fece una volta arrestato. Ho voluto tramutarlo in un provino perché se andate a leggere la confessione di Pelosi – è un documento pubblico – sembra scritta da un perito balistico: è una cosa impensabile, impronunciabile per chiunque, meno che mai per un ragazzino semianalfabeta. Chiaramente quella confessione lui non l’ha mai rilasciata, l’ha stilata per lui il suo avvocato, Rocco Manza, e così è andata agli atti. Queste sono le due invenzioni mentre il resto, purtroppo, non sono invenzioni”.
Perché, a suo giudizio, Pelosi nei 42 anni trascorsi dall’omicidio di Pasolini, nel 1975, alla sua morte, nel 2017, non ha mai detto la verità su quanto accaduto?
“Pelosi è stato sempre tenuto ‘spaventato’, sempre tenuto sotto minaccia. Non appena viene arrestato e portato nel carcere minorile, viene arrestato dopo la morte di Pasolini lui comincia ad avere persone lì dentro che gli dicono ‘Tu stai zitto, asseconda tutto, mi raccomando non parlare sennò la tua famiglia, sennò sennò sennò… Questo avviene anche negli anni successivi al suo rilascio dal carcere dopo aver scontato alcuni anni, pochi perché comunque era un minorenne: lui viene arrestato più volte, e certe volte anche ingiustamente per dei delitti che non ha commesso, Lui è ‘tenuto sempre spaventato’. Qualcuno può anche dire ‘Vabbé, poteva lasciare un memoriale per dopo la sua morte: ma occorre tenere presente che Pelosi, poco prima di morire, improvvisamente si sposa e lascia in dote a sua moglie un certo numero di appartamenti che, non si sa come, erano finiti nelle sue mani. E’ stato sempre tenuto sotto controllo ed è sempre stato retribuito”.

Se non ricordo male La macchinazione è stata presentata nel 2016, anno del film, anche in un’aula della Camera dei Deputati: che reazioni suscitò?
“Fruttò qualcosa che però poi non avvenne: dopo quella proiezione ci fu la decisione di alcuni gruppi parlamentari di aprire una Commissione sulla morte di Pasolini, solo che – sappiamo bene come vanno queste cose – venne aperta questa Commissione ma eravamo verso la fine della Legislatura e il sistema italiano non prevede che la Legislatura successiva erediti le Commissioni della precedente, purtroppo”.
In una scena del film Pasolini dice, più o meno, e mi colpì molto, “Chi ti tradisce è chi ti sta vicino”: l’ha detto davvero magari qualche volta conversando o serviva solo per un’ulteriore drammatizzazione cinematografica?
“Lui dice ‘Solo chi ti ama ti tradisce’: una frase molto sentimentale che Pasolini dice a sua madre. Non l’ha mai detta, è un’invenzione nostra, mia e di Guido Bulla, co-sceneggiatore”.

Ad oggi, dopo tanti anni, si è fatto un’idea di chi ha ucciso Pasolini?
“Quella notte erano in tanti, questa è l’unica cosa certa. Erano in tanti e lo hanno massacrato per mezz’ora. Tutto questo viene dalle testimonianze dei baraccati, di quelli che vivevano ai margini del terreno dove è stato ucciso, che poi non sono mai andati da un magistrato. Lo hanno detto ad alcuni giornalisti prestigiosi, come Oriana Fallaci, Furio Colombo. Quando Furio disse a uno di loro ‘Perché non andate a dirlo a un magistrato’, loro risposero ‘Non ci andremo mai perché sennò ci cacciano via da qua, siamo abusivi’. Ora, che loro non ci siano andati mi sembra anche comprensibile, ma che nessun magistrato sia andato da loro è inspiegabile. Tra tutti quelli che erano lì c’erano dei fascisti, manovalanza fascista che stava anche a Valle Giulia: alcuni sono ancora vivi e uno di loro, non ho la certezza ma la quasi certezza, è morto da poco, Stefano delle Chiaie”.

Parliamo ora del Pasolini “quotidiano”. Nel film sembra consapevole di poter anche morire quel giorno: con lei ha mai parlato della morte? Che ne pensava?
“Non aveva nessun atteggiamento nei confronti della morte. Sta di fatto però che negli ultimi tre mesi di vita, che poi sono quelli che più o meno racconto nel film, lui era cambiato, era profondamente cambiato: aveva un’ansia febbrile: per esempio a me, giornalista dell’Unità, chiedeva più del solito articoli, ritagli, fatti che aveva sentito dire o che erano usciti a destra e a manca, Stava lavorando a Petrolio e ci stava lavorando con un ansia smaniosa di sapere, costantemente agitato. E quando gli chiedevo ‘Ma cosa stai facendo, a cosa stai lavorando?’, un giorno, alla mia solita domanda, rispose ‘Sto facendo un libro, che non so neanch’io che cos’è e si chiama Petrolio: so soltanto il titolo e parla anche di Cefis, quello della Montedison. Poi non mi disse nient’altro. Quella sera in cui andò a farsi ammazzare – è questa forse la parola giusta – lui, prima delle 8, un orario assolutamente inconsueto per lui, andò a cena con Ninetto Davoli, Patrizia (moglie di Ninetto) e i loro due figli, Guido e Pierpaolo. La trattoria era chiusa ma il proprietario li fece entrare ugualmente perché erano degli habitué, e lì Pasolini incontrò due giornalisti che lavoravano con me all’Unità, Mirella Acconciamessa e Aggeo Savioli. Mirella ci parlò e lo vide stravolto: lui le disse ‘Non riconosco più niente, si vedono in giro solo brutte facce’. Poi andò a prendere in macchina Pelosi, con il quale aveva appuntamento, e andò all’Idroscalo di Ostia: tutto questo è un cammino verso la morte, e lui ne era totalmente consapevole. Talmente consapevole che mentre viaggiava sulla Via del Mare per raggiungere l’Idroscalo, ad un certo punto si fermò, spense il motore e raccontò a Pelosi la storia di suo fratello 19enne Guido, ammazzato nell’eccidio di Porzùs, in provincia di Udine (tragico episodio della Resistenza Italiana in cui diciassette partigiani delle Brigate Osoppo furono trucidati da un gruppo di partigiani comunisti appartenenti alle Brigate Garibaldi, per motivazioni politiche non legate alla lotta contro il nazifascismo. NdR). Pelosi, poco prima di morire, ha raccontò questa storia a Silvio Parrello, detto ‘Er pecetto’, un ragazzino che Pasolini conobbe quando aveva 7-8 anni e la famiglia si era da poco trasferita a Roma, nella borgata di Donna Olimpia, dicendogli ‘Ma perché? Perché si è fermato, ha spento il motore, è stato lì 5 minuti e mi ha raccontato la storia di suo fratello?’. Per me anche quella è la prova che lui non che ‘sapesse’ di morire ma che sapesse di rischiare di morire. Secondo me lui è andato là per riprendersi le bobine di Salò ma anche fronteggiare persone che sapeva potevano essere dei sicari. Siccome il coraggio non gli è mai mancato, ce l’ha avuto anche quell’’ultima volta”.

Dopo tanti anni c’è ancora, purtroppo, chi lo disprezza, mentre per altri è “il profeta dell’Italia di oggi” perché lui ha parlato già da allora delle tante divisioni, politiche e sociali, ha parlato del qualunquismo, dell’odio per lo straniero, il diverso: qual è la chiave per capire, apprezzare meglio Pasolini?
“Intanto non bisogna mai dimenticare che Pasolini è stato un poeta, un poeta in tutto quello che faceva, nella sua vita quotidiana. I poeti si amano, si odiano, ma era un poeta, forse uno dei più grandi del secolo scorso. Insomma, siamo davanti al classico ‘prendere o lasciare’: non so il perché preciso di tutto il male che hanno detto di lui. Per i suoi film? Perché era omosessuale?”.
Perché Pasolini ha spesso mostrato tanta rabbia nei confronti di quelli che definiva “intellettuali da salotto”: forse perché molti lo avevano lasciato solo mentre era ancora in vita?
“Lui ha sempre provato distacco verso gli intellettuali. Per capirlo meglio non dobbiamo dimenticare che arriva a Roma povero, disperato, con sua madre tra il 49 e 50, cioè poco più che ventisettenne, in una borgata di Roma, fa la fame perché vive dando ripetizioni, ma in un posto dove molti ragazzi non andavano nemmeno a scuola e quindi guadagnava poco. Poi a un certo punto ‘ragazzi di vita’, un po’ di soldi, un po’ di successo e tanti cominciano a corteggiarlo: lui però se ne tiene sempre abbastanza a distanza, anche se ha con quasi tutti dei rapporti personali molto belli, come con Moravia, con Parise, con Sciascia, con tanti altri, solo che lui detesta lo spirito salottiero degli intellettuali. Di tutto si può accusare Pasolini tranne che di essere un gauchiste (uno di sinistra, Ndr). E’ sempre stato uno che ha voluto vivere nelle periferie della città, vedere come viveva la gente vera e rinfacciava agli intellettuali il fatto di essere totalmente distanti dalla realtà. L’ultima prova di questo è la sua lettera a Calvino dopo il massacro del Circeo. Calvino aveva scritto che quanto avvenuto al Circeo era ‘un tipico esempio della degenerazione di una certa borghesia romana perché gli assassini sono dei pariolini’, ma Pasolini gli risponde in una lettera ‘No, guarda, ti sbagli: nelle periferie succede la stessa cosa, nel popolo che frequento io ci sono perversioni ancora più spaventose e dobbiamo renderci conto che tutto questo è un fenomeno molto più ampio di come lo descrivi tu’. Calvino nemmeno gli risponde e poco dopo Pasolini muore. Chiedono a Calvino cosa ne pensa di quella lettera scritta da Pasolini e Calvino costernato dice: ‘Io non gli ho risposto perché gli avrei risposto al delitto successivo, al fatto di cronaca successivo: non potevo mai immaginare che il fatto di cronaca successivo sarebbe stata proprio la sua morte’. Per dire, la distanza anche in questo!”.

Pensando al meraviglioso Il Vangelo secondo Matteo, quale era il rapporto di Pasolini con il cattolicesimo?
“Non so quale fosse, so soltanto che lui si ritrovò d’Assisi, a un convegno se e ne andò a dormire in una stanza di un convento e trovò nel cassetto Il Vangelo secondo Matteo e passò la notte a leggerlo. La mattina dopo decise di fare quel film. Per farlo lui chiese spiegazioni prima ai gesuiti – con loro ha sempre avuto un rapporto privilegiato – ma poi parlò con tutte le istituzioni ecclesiastiche dicendo loro ‘Io mi prendo una responsabilità enorme ma non so se ne sono in grado: vi prego, aiutatemi’. Tutti quanti lo hanno aiutato. Anzi, ti dirò di più, una cosa che non sa nessuno: chi lo ha aiutato di più è stato Padre Virginio Fantucci che era anche un critico cinematografico. Pasolini se lo porta a Matera all’inizio delle riprese del film e comincia a girare, ma è totalmente scontento delle immagini che produce, va a vedere i ‘giornalieri’ – come si usava fare una volta – ma è scontento perché sta girando il film tutto con delle riprese dall’alto, delle riprese da una distanza enorme, e lo dice a Virginio Fantucci lì vicino a lui. Il Padre gli dice ‘Tu sei scontento perché tu stai facendo Dio. Stai guardando tutto da una distanza siderale, mentre tu puoi raccontare questa storia, che è la storia delle storie, se ti ci infili dentro’. Grazie a Fantucci, Pasolini cambia completamente registro e fa il film come poi l’ha fatto e ci si infila talmente tanto dentro che quando sua madre Susanna Colussi, che interpreta la Madonna, è lì ai piedi di Enrique Irazoqui (Cristo in croce nel film) e non riesce a piangere – perché sua madre non era un’attrice, ricordiamolo – Pasolini le dice ‘Mamma, mamma, pensa a Guido’. Una cosa tremenda! In realtà era lui che pensava a Guido, suo fratello morto. Questo fa capire quanto è stato coinvolto in quel progetto”.

Per Pasolini la televisione era come il fuoco, da evitare: corriamo ancora il pericolo di diventare, come sosteneva lui, tutti uguali ma pieni di niente, in un’epoca piena di internet, smartphone, social?
“Purtroppo, è di grande attualità quello che dice Pasolini perché siamo diventati esattamente come lui aveva già descritto. In questi ultimi due anni, complice anche il Covid, siamo finiti tutti davanti alla bestia: non si va più al cinema, non si va a teatro, non c’è più una vita sociale, siamo tutti quanti davanti alla televisione: ci prendiamo tutto quello che ci dice la televisione senza alcun tipo di contradditorio. Purtroppo”.
Cosa fare per recuperare quella memoria storica e sociale che sembra fare sempre meno presa tra i giovani?
“Non lo so, francamente. Recuperarla spetta a noi anziani e purtroppo abbiamo commesso anche noi tanti errori cercando di dimenticarla. Noi viviamo ormai dopo decenni e decenni di dopoguerra in cui diamo per scontato tutto e siamo poi completamente ipnotizzati davanti alla televisione. Io voglio solo cercare di capire come affronteranno il futuro i giovani, che sono anche loro sempre davanti a uno schermo spento, un telefonino, un iPad, un computer: però sono convinto che loro hanno un altro linguaggio, hanno un altro modo di aspirare le cose. Di certo, noi abbiamo mancato su tanti fronti”.

Alcuni hanno definito Pasolini come una persona severa, dai giudizi taglienti, un qualcuno forse con la puzza sotto il naso: era così?
“Il tratto più importante, più netto, più chiaro di Pasolini in qualunque contesto era la gentilezza. Era un uomo dolcissimo. Se qualcosa non gli piaceva lo diceva, ma sempre con gentilezza. Lo diceva, con gentilezza, in modo estremo, proprio per dire ‘è la mia opinione, non voglio nemmeno che qualcuno la condivida’.
Quasi un senso di timidezza
“Era timidissimo, da morire. Timido, diffidente, aveva sempre quegli occhiali scuri che servivano a proteggere quello sguardo da bambino che aveva”.
Pasolini regista come era?
“Era un regista a cui non interessava minimamente l’aspetto tecnico del lavoro. Ha fatto dodici film, ma non ha mai imparato i nomi degli obiettivi. Quando cominciò facendo Accattone, Tonino Delli Colli gli mostrò gli obbiettivi dicendogli ‘Guardi, se deve fare un primo piano serve un 50,se deve fare un campo lungo..”. Lui lo interruppe dicendo: ‘Va bene, faccia lei, faccia lei’ E ha continuato a dirlo fino alla fine della carriera. Pasolini si ispirava alla grande pittura rinascimentale italiana, non era un cinefilo”.

Ancora oggi non ho chiaro il ruolo nella vita di Pasolini di Laura Betti: lo contrastava o lo assecondava sempre?
“Laura Betti è stata la donna di Pasolini. Lo è stata sempre, e per sempre perché poi è lei che ha costituito il Fondo Pasolini. Ha dedicato tutti i suoi anni dopo la morte di Pasolini, fino a morte di lei stessa, ad occuparti di lui. Lei ha capito il problema di Pasolini e infatti andava sempre con Paolo e lo proteggeva, era così la donna che esattamente serviva a lui. Era profondamente innamorata di Pasolini, pur sapendo di non avere nessuna speranza, come dire, dal punto di vista concreto. E’ stata sempre la donna di Pasolini, tant’è vero che per metterlo a suo agio quando c’era qualcuno, e divenne un’abitudine, lei trattava tutti al femminile, Alberto Moravia era Alberta, io ero Davida: era un modo per superare d’amblé questa cosa dell’omosessualità di Pasolini che a lui pesava tantissimo, anche se molti non lo sanno, non ne parla nessuno. Non bisogna invece mai dimenticare che Paolo ha sofferto tremendamente per la sua omosessualità, e lo dimostra il modo in cui si vestiva, con questi giacconi di pelle, l’automobile Alfa GT: Paolo si era creato quest’immagine da macho per proteggere la sua omosessualità. Ne ha sofferto tantissimo: se si legge la sua poesia Supplica mia madre si capisce che quella è una maledizione, come dire ‘mamma io ti amo, ma per questo io non riesco ad amare nessun’altra donna, sono condannato l’omosessualità’. La traduzione di quella poesia è questa, nemmeno tanto velata”
David Grieco sempre in movimento in tanti campi della cultura: progetti presenti e futuri?
“Sto scrivendo una cosa folle, una sitcom, da solo, senza committente, senza televisione, senza niente: è una storia di matti, in manicomio. Sono arrivato al nono episodio, devo arrivare a dodici. Una follia! Chissà se un giorno una televisione la vorrà fare, anche se non è tanto politically correct, e parla di matti, di medici, e quanto sono talvolta più matti i medici. Poi ho un romanzo, La nave di Teseo-L’uomo che visse due volte.