Basta indicarlo solo con le tre PPP. La sua presenza è ancora in me viva, nell’Italia che ne ha vissuto l’esperienza umana e letteraria. Il peso umano e culturale di Pier Paolo Pasolini, la poliedricità della sua attività lo rendono un gigante della cultura italiana, direi mondiale, con la sua voce e la rappresentazione in tutti i generi artistici contemporanei. Uno e centomila. Perciò ognuno può sentire la sua viva presenza nel campo a lui più congeniale, quel compagno della lunga via che vive nella fantasmagoria dei lunghi cento anni dalla sua nascita, il 5 marzo 1922, nella Bologna turrita, la città della prima Università.
Ognuno può ritrovare il compagno o il cultore dei suoi istinti vitali, il poeta impegnato e dileggiato che preferisce scrivere in vernacolo friulano, lo scrittore del vernacolo romano con il glossario alla fine dei romanzi. Poeta. Narratore della Roma degli emarginati, quei sobborghi di una vita a brandelli o della violenza che denomina i ragazzi (Ragazzi di vita, 1955, e Una vita violenta, 1959, fino all’incompiuto e postumo Petrolio, 2005). Ma ancor più rinunziare al particolare eloquio scritto e affidare all’attore di palcoscenico la narrazione della vita e assumere la responsabilità del drammaturgo. Può anche affrontare in prima persona come attore la vita umana oppure dirigerla come regista, dalla greca Medea al Cristo di Matteo, nella rappresentazione di attori da lui creati (vedi Ninetto Davoli suo compagno di vita), fino al terribile Salò. E L’anatema di Fellini e di Calvino: «quando smetti di fare il cinema?».
Può addirittura fermarsi solo alla prassi finale della sceneggiatura. Della lingua usò tutte le strutture e le sfumature, ne studiò ed indagò le metamorfosi come linguista, affrontò la difficile, direi impossibile prova della traduzione, che infine vorrebbe essere presentare una storia o un pensiero, addirittura una poesia, con altre strutture metriche e altri ritmi e soprattutto con altre sonorità glottologiche.
Di questa varietà professionale culturale ne spiegò anche la natura attraverso la saggistica. Se la letteratura nelle sue variazioni di generi e di versatilità prova il Logos, i latini lo dissero Verbum, nella ambiguità ideologica e sonora della scrittura o nella variabile sonorità della recitazione, l’immagine filmica ne riassume tutte le peculiarità. In questa sintesi globale non poteva mancare nella comunicazione e nella mimesi la forma più lampante ed evidente, e perciò egli affidò alla tela il suo animo, si fidò pure della pittura.
Scrisse il 14 novembre 1974 sul Corriere della Sera: «Io so, ma non ne ho le prove». L’Idroscalo di Ostia lo ricorderà in quella tragica e lurida notte del 2 novembre 1975, la notte della feroce violenza e dell’oltraggio dell’uomo e del cadavere, giorno fatidico ed emblematico della commemorazione dei defunti, in Sicilia comunione con loro attraverso il loro dono ai bambini di primizie e pupi di zucchero. Quel lido è rimasto nell’immaginario collettivo come uno dei tanti affaire della storia della Repubblica italiana, a cominciare dalla strage di Portella delle Ginestre, passando per gli anni delle bombe della strategia della tensione dalla strage di Piazza Fontana a Milano alla stazione di Bologna per giungere a quel corpo contorto di Moro in un bagagliaio e all’autostrada per l’aeroporto di Palermo che emblematicamente e per risarcimento è dedicato a Falcone e Borsellino, entrambi esplosi con i loro veicoli.
Eppure Pasolini nell’intervista a poche ore dalla morte aveva dichiarato: «Il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. È facile, è semplice, è la resistenza.».
Possiamo chiudere questo mistero tra complottisti e realisti con la riflessione di Moravia:
«La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché egli ne aveva già descritto, nella sua opera, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi, bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile»
(Pagine corsare, I ricordi, Un poeta e narratore che ha segnato un’epoca).
In questo luogo e confabulando con chi ci legge a New York ci interessa, nel Centenario della sua nascita il 5 marzo 1922, rievocare di lui l’ardente immenso amore che così espresse per la città in una intervista concessa a Manhattan ad Oriana Fallaci, in occasione della presentazione di due film, “Accattone” e “Uccellacci e Uccellini”, al festival di Montreal in Canada alla fine di estate del 1966:
«Questa è la cosa più bella che ho visto nella mia vita. Questa è una cosa che non dimenticherò finché vivo. Devo tornare, devo star qui anche se non ho più diciott’anni. Quanto mi dispiace partire, mi sento derubato. Mi sento come un bambino di fronte a una torta tutta da mangiare, una torta di tanti strati, e il bambino non sa quale strato gli piacerà di più, sa solo che vuole, che deve mangiarli tutti. Uno ad uno. E nello stesso momento in cui sta per addentare la torta, gliela portano via».
La Fallaci concluderà giustamente la sua strabiliante intervista Un marxista a New York: «È l’istantanea di un marxista a New York» (L’Europeo, 13 ottobre 1966, ripresa in Tempi, all’anniversario del 2 nov. 2012 e in Il Sole 24 ore, domenica 21 dicembre 2012, Pierpaolo Pasolini a New York, un amore possibile). Diciamo che aveva da stupirsi:
«Eccolo che arriva: piccolo, fragile, consumato dai suoi mille desideri, dalle sue mille disperazioni, amarezze, e vestito come il ragazzo di un college. Sai quei tipi svelti, sportivi, che giocano a baseball e fanno l’amore nelle automobili. Pullover nocciola, con la tasca di cuoio all’altezza del cuore, pantaloni di velluto a coste nocciola, un po’ stretti, scarpe di camoscio con la gomma sotto. Non dimostra davvero i quarantaquattro anni che ha».
Eppure egli le dichiara: «Io sono un marxista indipendente… e dell’America sono innamorato fin da ragazzo. Perché, non lo so bene.». Non gli piace la letteratura, l’establishment americano, la violenza, ma ama «un’America giovane, disperata, idealista… Non sono mai cinici, scettici, come lo siamo noi». È l’epopea di New York, una sintesi ancora oggi sconvolgente e vi invito a leggerla. Diciamo amore realizzato e ricambiato a cominciare in quella visita dal rapporto nato con Allen Ginsberg, il maggior poeta della Beat generation («Su New York esistono solo le sue poesie»). Come pure l’amore di Fallaci espresso in una lunghissima lettera del 16 novembre 1975 post mortem in cui tra l’altro dichiarava: «Diventammo subito amici, noi amici impossibili. Cioè io donna normale e tu uomo anormale, almeno secondo i canoni ipocriti della cosiddetta civiltà, io innamorata della vita e tu innamorato della morte. Io così dura e tu così dolce.».
New York si è mostrata riconoscente di questa passione e lo ha ricambiato con quel che poteva e può, almeno nei presenti e nei promotori di quella memorabile completa retrospettiva cinematografica che su proposta e sostegno di Gucci, si svolse al MOMA dal 13 dicembre 2012 al 5 gennaio 2013. La curatrice del MOMA Jytte Jensen alla presentazione dirà: «Ogni generazione dovrebbe avere il suo Pasolini». Al Museo apparvero le immagini della sua corposa e variegata, grandiosa filmografia, ma non solo. Si trattò di un lavoro eccezionale, in quanto i celebri film furono restaurati in due anni di lavoro in una nuova edizione dall’Istituto Luce Cinecittà, nella demarcazione delle quattro fasi della vita socio-politica dell’artista. Un polimorfo gruppo di artisti italiani e americani affrontò la lettura di passi della sua poesia e narrativa, si tenne un seminario di esperti, si rappresentò in concreto con una mostra di ritratti e di disegni. Si trattò di un avvenimento eccezionale e nuovissimo, l’allestimento di una quarantina tra suoi disegni e dipinti, raramente esposti prima d’ora, custoditi presso l’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del prestigioso Gabinetto Scientifico Letterario Vieusseux di Firenze. Il tutto concluso con la presentazione del nuovo saggio Pier Paolo Pasolini, il mio cinema. (Francesca Tomassini, Pasolini in America. La controcultura, il Living Theatre e la Beat Generation, in OBLIO IV, 16 64).
New York non fece mai caso a quella “anormalità” di uomo sfiorata da Fallaci, ma anche da Leonardo Sciascia. Il loro era stato un rapporto consonante tra un irridente e feroce critico del Palazzo e un fustigatore di mafiosi e di “professionisti dell’antimafia” (Corriere della sera, 10 gennaio 1987). Era stato Pasolini a scrivere una recensione in tre colonne sul periodico La libertà d’Italia del 9 marzo 1951 riguardo alla raccolta profetica di esordio di Sciascia alla Esopo e Fedro, Favole della dittatura, il suo “primo lemma” ove nella consueta formula allegorica, irreale ed ermetica, della fiaba, aperta satira antifascista, alludeva all’orrore delle tirannidi (a cura di Mario dell’Arco, editore Bardi, Roma, 1950, pp. 38, 27 fiabe, ora La Sicilia, il suo cuore. Favole della dittatura, Adelphi 2010).
Pasolini scrisse tra l’altro: «L’elemento grave, tragico della dittatura ha gran parte in queste pagine così lievi, ma è trasposto in rapidissimi sintagmi, in sorvolanti battute che però possono far rabbrividire». Il vasto epistolario documenta tuttavia un rapporto ondivago tra il tu e il lei, anche se esso fu costante e reciproco nel decennio dal 1951 agli inizi degli anni 1960. Quando Sciascia assunse la direzione di Galleria e di Quaderni di Galleria (“che energia” commenta PPP) vi apparvero le prime poesie di Pasolini e di tanti autori da lui segnalati. Poi qualcosa cominciò a non funzionare, pur nella identità di vedute e di pratica di vita, pensando, dicendo e soffrendo e pagando le stesse cose, quella che Sciascia ipotizzerà come “l’ombra di un malinteso”: «Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all’ antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali (l’ ultimo nell’atrio dell’ albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per “Le mille e una notte”). Ma io mi sentivo sempre un suo amico: e credo che anche lui nei miei riguardi. C’era, però, come un’ ombra tra noi, ed era l’ ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell’ omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti, i corrotti e cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso» (Nero su nero, Milano, Adelphi, 1991).
Si veda il giudizio dato all’amata Luisa Spaziani dal Nobel Eugenio Montale: “Povero e pederasta”. La critica ambigua di PPP a Todo modo secondo il quale per la purezza del linguaggio «il lettore si chiede, se per caso il suo contenuto, la dittatura, non sia stata una favola», quasi a stroncare il dossier, potrebbe essere segno di questa incrinatura (M.A. Bazzocchi, Pier paolo Pasolini, Milano 1998, p. 92).
Certo è il rimorso di Sciascia espresso ad incipit di L’affaire Moro e la vista di una lucciola durante una passeggiata notturna. È l’encomio più alto come esternazione di amore. Essa gli rievocò l’infanzia, voci e ricordi, «un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Pasolini ormai fuori del tempo ma non ancora, in questo terribile paese che l’Italia è diventato… Fraterno e lontano, Pasolini per me. Di una fraternità senza confidenza, schermata di pudori e, credo, di reciproche insofferenze. Per mia parte, sentivo un muro che ci separasse una parola a lui cara, una parola-chiave della sua vita: la parola “adorabile”… Pasolini trovava “adorabili” quel che per me dell’Italia era già straziante… e sarebbe diventato terribile… quelli che inevitabilmente sarebbero stati gli strumenti della sua morte… Le lucciole. Il Palazzo. Pasolini voleva processare il Palazzo quasi in nome delle lucciole. Per le lucciole scomparse» (Adelphi ed., Milano 1995, pp. 7-9).
Nella corrispondenza sul Corriere della sera (1° febbraio 1975, Il vuoto del potere in Italia, poi in Scritti corsari) la prima fase del regime democristiano, «come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali», va «dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole». Dei due “ultimi eretici” sarà lui a mantenerne l’eredità politica e morale, contro il Palazzo, sempre nell’estremo rimpianto di quella traballante amicizia.