Proviamo a immaginare la scena, come in un film. E’ un venerdì. Una giornata buia, fredda, umida. Lo smog avvolge tutti e tutto. Siamo a due passi da piazza del Duomo a Milano. Una via oggi intitolata al cardinal Martini, allora semplicemente dell’Arcivescovado; immette su una piccola piazza: Fontana. Sullo sfondo la nenia di zampogne, gente assiepata davanti alle bancarelle con gli addobbi per l’imminente Natale. A lato dell’arcivescovado il palazzone grigio sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. E’ lì che si danno appuntamento, da sempre, agricoltori e mediatori, venditori e compratori di bestiame. Uno stringe la mano dell’altro, il terzo, di taglio, le sovrasta con la sua. L’affare è concluso, basta la parola, non c’è bisogno di notaio. Quella è l’Italia di quegli anni; quelli sono gli italiani che si sono dati appuntamento nel salone della banca, al centro del quale troneggia un gigantesco tavolo scuro.
Seconda scena: le lancette dell’orologio segnano le 16.37. Si scatena l’apocalisse; un boato tremendo. Nell’aria, acre, l’odore di fumo: brucia i polmoni, blocca il respiro. E grida, lamenti, l’inconfondibile odore di mandorle amare. E’ esplosa una caldaia?, chiede qualcuno… I più esperti, chi ha vissuto gli anni della guerra, i bombardamenti, capiscono: è l’odore di un ordigno esploso…
Terza scena: arrivano i soccorritori: prima i passanti, poi pompieri, agenti di polizia, carabinieri, le ambulanze. La scena è agghiacciante. Il salone è un mattatoio: morti, feriti, sangue ovunque; corpi dilaniati, irriconoscibili; per dar loro un nome, le scarpe regalate qualche settimana prima; i brandelli di un principe di Galles, il vestito della “festa”, indossato per l’occasione. Diciassette, le vittime; un’ottantina, i feriti.
Quel giorno quell’Italia che si crede innocente, e che certamente è ingenua, scopre che esiste anche una Italia diabolica, perversa, feroce. Che esiste uno Stato nello Stato che lavora contro lo Stato. Avrebbe forse potuto scoprirlo prima: quando negli anni Cinquanta, nel cuore della Sicilia, a Portella della Ginestra, i tagliagole del bandito Salvatore Giuliano, per ordine della Cosa Nostra, fanno strage di contadini e manifestanti che festeggiano il 1 maggio; dopo quella strage, è la volta dello stesso Giuliano, ufficialmente ucciso da un carabiniere nel corso di uno scontro a fuoco: in realtà tradito dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, perché testimone scomodo. Lo stesso Pisciotta viene eliminato con un caffè corretto al veleno, è in una cella del carcere palermitano dell’Ucciardone. Dicono che prima di morire abbia scritto un suo memoriale; documento andato smarrito, tanto per cambiare. Una storia remota, che interessa pochi, ormai; quella sì, una vera “trattativa” tra Cosa Nostra e potere politico e istituzionale del tempo.
Fine del flash back. Si torna a piazza Fontana, alla strage di cinquant’anni fa: un passato che non passa. Una storia fatta di menzogne, complicità, depistaggi, dolore e morte; una storia con tante domande che ancora oggi attendono risposta.
E’ l’inizio di una guerra sommersa che si combatte in tempo di pace. Per bloccare ogni processo riformatore, per cristallizzare equilibri esistenti. E si garantisce l’impunità dei colpevoli di questa e delle successive stragi. Una verità sottratta. Una verità negata.
Per capire la “logica” di quella strage e delle altre bombe (quelle che ci sono state per tutta l’estate su treni e banche, tutte puntualmente attribuite agli anarchici e all’estrema sinistra, e che hanno provocato “solo” feriti), occorre tener presente che sono giorni di grandi rivendicazioni sociali: c’è un movimento operaio forte, agguerrito; un sindacato determinato; nelle università un movimento studentesco ricco di fermenti. E’ la stagione dell’autunno caldo, si lotta per lo Statuto dei Lavoratori, la settimana di 40 ore, il diritto di tenere assemblee sindacali nei luoghi e durante l’orario di lavoro; un’Italia a due facce: boom economico, ma anche semi-arcaica; i governi centristi a guida democristiana degli anni Cinquanta cedono il passo a coalizioni di centro-sinistra: il Partito Socialista pur con mille contraddizioni, impone un ciclo riformatore.
Per bloccare, frenare questo processo, c’è chi, nel silenzio, nell’ombra, trema, trama. Prima di Piazza Fontana, tra il 15 aprile e il 12 dicembre si contano ben 22 attentati terroristici. Si dà la colpa agli anarchici. Ma non sono loro a mettere le bombe. Sono i neo-fascisti di Ordine Nuovo; soprattutto le cellule concentrate nel Triveneto. Quelle che fanno capo a Franco Freda e a Giovanni Ventura.
Ma quelli sono i “manovali” degli attentati, della strage. Gli organizzatori a livello basso. In realtà il piano è ordito dall’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno di allora; al vertice di quell’ufficio c’è un personaggio poliforme: Umberto Federico d’Amato; è appassionato di cucina, addirittura è titolare di una rubrica di segnalazioni gastronomiche per il settimanale “l’Espresso”. Lo stesso settimanale che in quegli anni è in prima fila nella denuncia delle trame che si dipanano a partire da piazza Fontana…
Alle spalle e sopra la cellula ordinovista, un apparato, forse non solo italiano, ramificato, organizzato, un livello politico che appare sullo sfondo, sfocato. Un livello che depista, crea colpevoli, protegge i colpevoli, li aiuta a fuggire all’estero: nella Spagna di Franco, nei paesi del Sud America oppressi dai vari regimi dittatoriali… Fin da subito. Ricordate la bomba che a Milano non è esplosa solo per un difetto del cavetto che collegava l’innesco? Se fosse esplosa alla Banca Commerciale di piazza della Scala i morti sarebbero stati centinaia. Gli artificieri vogliono metterla in sicurezza: per esaminarla con comodo, e ricavarne preziosi elementi per l’indagine. Niente da fare: dalla procura della Repubblica arriva l’ordine incredibile: far esplodere la bomba. Così vanno, letteralmente in fumo le tracce che avrebbero potuto condurre subito ai veri attentatori. Fin da subito si sarebbe potuto trovare il negozio padovano dove Freda ha acquistato le borse dove sono state celate le bombe; fin da subito si sarebbe potuta individuare la provenienza dei timer ricavati da alcune lavatrici, acquistati da Ventura… Fin da subito si sarebbe potuto dar credito a un commissario di polizia vecchio stile, Pasquale Juliano, che segue la pista dei neo-fascisti. Nei suoi confronti, invece, si scatena una feroce campagna di stampa; lo si incrimina e infine lo si trasferisce…
Bisogna aspettare un insegnante, Guido Lorenzon, che racconta a due magistrati di Treviso, Giancarlo Stiz e Pietro Calogero, di aver avuto le confidenze di Ventura, suo amico: si è vantato di sapere cose gravi su piazza Fontana… L’Ufficio Affari Riservati invece punta sugli anarchici, ancora una volta; quelli del circolo del Ponte della Ghisolfa a Milano.
In particolare, ci si accanisce su un ballerino precario sia di salute che finaziariamente, Pietro Valpreda. “L’Unità”, il quotidiano del PCI lo definisce “il mostro di piazza Fontana”, “un personaggio ambiguo e sconcertante dal passato oscuro, forse manovrato da qualcuno a proprio piacimento”; il quotidiano del PSI “l’Avanti!” lo descrive come esponente di un gruppo anarco-fascista, un “individuo morso dall’odio viscerale e fascistico per ogni forma di democrazia”; un giovanissimo Bruno Vespa, in diretta dal “TG1”, lo presenta come il “vero”, sicuro colpevole; Mario Cervi ricorre a stereotipi lombrosiani, “il crimine ha oramai una fisionomia precisa: il criminale ha un volto…la sua salute è insidiata da un’infermità grave, il morbo di Burger. La menomazione che lo impedisce, lui ballerino, nelle gambe, potrebbe avere contribuito a scatenare una forsennata e irrazionale avversione per l’umanità intera”.
Possibile che uno scalcinato Valpreda, e i suoi non meno maldestri compagni, abbiano saputo congegnare un simile piano? Ecco che ci cerca di fare il salto di qualità: Giuseppe Pinelli. E’ un ferroviere anarchico, ha fatto la resistenza, nel movimento è conosciuto e stimato; vive modestamente in un bilocale con la moglie e la figlia. E’ un idealista che non farebbe male a una mosca. Pensate: si reca in questura con il suo motorino, ignaro del destino che lo aspetta. Del resto lui il commissario Luigi Calabresi che guida la squadra politica milanese, lo conosce bene: a Natale si sono scambiati dei libri in dono. Entra in Questura sulle sue gambe; ne esce tre giorni dopo, “volando” dal quarto piano, dopo interminabili e serrati interrogatori. Cosa sia successo in quelle ore non lo sa bene nessuno. Quando “vola” dalla finestra nella stanza ufficialmente ci sono quattro agenti dell’Ufficio Politico: Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Pietro Mucilli, Vito Panessa; e un carabiniere: Savino Lograno. Non c’è però Calabresi. Ci sono, però, questo è si legge negli ultimi documenti trovati, un numero imprecisato di funzionari dell’ufficio affari riservati venuti da Roma. Nessuno li ha mai interrogati; nessuno di loro ha mai parlato. Un lungo omissis che dura tuttora.
Pinelli: è detenuto illegalmente; il tempo regolarmente del fermo è abbondantemente scaduto. Il magistrato non ha convalidato alcun provvedimento. Nella prima versione invece si dice il contrario. Quando questa versione viene smentita, nessuno viene incriminato per la falsa testimonianza. L’inchiesta sulla morte di Pinelli si conclude con una verità che lascia quantomeno perplessi: precipitato dalla finestra “per malore attivo”. Pinelli era alto circa un metro e sessanta; la balaustra novanta centimetri. Curioso malore; e poi, perché la finestra aperta? E come mai in mano a un agente resta una scarpa di Pinelli?
Inizia un altro tipo di depistaggio. Il reato più grave, la strage alla Banca, si consuma a Milano. Però il processo si attribuisce a Roma. A Roma si conducono le prime indagini, poi ci si rende conto che la cosa non può reggere. Tutto torna a Milano. Ma il procuratore capo (lo stesso che ha ordinato la distruzione della bomba inesplosa), ritiene che Milano sia una “piazza” troppo pericolosa, che possano nascere tensioni, turbative; ecco l’idea: spostare il processo all’altro capo d’Italia, Catanzaro. Nell’Italia di allora, per arrivare da Milano a Catanzaro occorrevano diciotto lunghe ore di treno… Sempre a Catanzaro confluisce il ramo dell’inchiesta veneta contro i neofascisti che i magistrati di Treviso doverosamente hanno riversato a Milano.
A Catanzaro dunque si celebra un processo uno e trino: contro gli anarchici, innocenti; contro i neo-fascisti, che appaiono sempre più inchiodati alle loro responsabilità; e nei confronti di alcuni alti dirigenti dei servizi che li hanno aiutati: i generali Gianadelio Maletti e il capitano Antonio Labruna. Nonostante le premesse, è un processo condotto in modo esemplare; alla fine gli anarchici sono dichiarati innocenti; i neofascisti e gli ufficiali dei servizi condannati. Scatta l’appello. Per una bizzarria, non ci celebra a Catanzaro, ma a Bari, dove una strana giuria assolve tutti. La Cassazione conferma. Nessun colpevole. Sempre anni dopo la Cassazione nell’ambito di un successivo procedimento, riconosce che i neo-fascisti sono colpevoli, ma in virtù della legge che non consente di essere processati per lo stesso reati se si è stati assolti precedentemente in fase definitiva, non si può far nulla se non prendere atto che storicamente le stragi sono attribuibili all’estrema destra e a settori infedeli dello Stato; ma giudiziariamente non si può far nulla.
Nulla fino a quando un giudice milanese ostinato, Guido Salvini, vincendo le resistenze del suo stesso ufficio, non riesce a individuare un altro pezzo di verità.
A questo punto la scena torna a piazza Fontana: quel pomeriggio un gruppo di uomini, silenziosi, anonimi, cammina lentamente dirigendosi verso la banca. Apparentemente si ignorano, in realtà non si perdono di vista un attimo. Davanti la banca da tempo è parcheggiato un furgone, targato Roma. Uno degli uomini allunga il braccio per un momento, ecco: ha in mano una borsa; un altro lo sorveglia attentamente, gli copre le spalle. Gli altri ostentano indifferenza. L’uomo con la borsa entra; chi ha il compito di proteggerlo, lo segue. Gli altri restano fuori, due fumano una sigaretta. Qualche minuto, e i due escono. Alla spicciolata il gruppo si disperde. Anche il furgone ingrana la marcia, si allontana. Infine, l’esplosione.
Dopo il caos delle prime ore, il silenzio. E un silenzio irreale il giorno dopo, quello dei funerali nella piazza del Duomo. Ancora non è in vigore l’oscena abitudine dell’applauso, del selfie. Trecentomila persone si sono assiepate, volti tesi, preoccupati, composti, qualcuno singhiozza. Carlo Arnoldi, figlio di una delle vittime, ricorda: “C’era un incredibile silenzio, si potevano sentire i nostri passi risuonare sul selciato…”.
La Milano medaglia d’oro della Resistenza, la Milano democratica e civile, reagisce in modo esemplare; sono duecentomila i metalmeccanici convenuti con le loro tute blu. La loro presenza dice: “Non siete passati, non passerete neppure ora”. C’è una consapevolezza generale: quella strage è un punto di partenza. Altro di non meno terribile e drammatico, deve venire.
La risposta alla domanda: perché? La si trova ne “Il cavaliere e la morte” di Leonardo Sciascia: “La sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini”. Ecco la chiave. Già Tacito, nei suoi “Annali” parla di “arcana imperii”, gli indicibili segreti del potere che governano stati e popoli.