Dalla prospettiva del transnazionalismo – l’ipotesi secondo la quale i migranti vivrebbero contemporaneamente in due società diverse: quella di provenienza e quella di destinazione – il secondo conflitto mondiale rappresentò la sfida più ostica per il patriottismo degli italoamericani. Infatti, tra l’11 dicembre 1941, il giorno della dichiarazione di guerra dell’Italia fascista agli Stati Uniti, e l’8 settembre 1943, la data in cui fu annunciato l’armistizio con gli Alleati, il conflitto contrappose la loro nazione di origine al Paese di adozione. Nel complesso, però, la prova fu ampiamente superata. Su una popolazione italoamericana di circa cinque milioni di persone, secondo le stime più attendibili almeno 850.000 (ma altre valutazioni più generose fanno salire il loro numero a un milione e mezzo) presero parte alle operazioni militari nelle forze armate statunitensi. Circa 40.000 erano immigrati nati in Italia e naturalizzati cittadini statunitensi. Ammontarono, invece, a 75.000 i militari di ascendenza italiana che combatterono nelle forze armate di Washington sebbene avessero familiari designati come enemy aliens dal governo federale fino al 12 ottobre 1942 perché non avevano ancora conseguito la cittadinanza americana dopo il loro trasferimento negli Stati Uniti.

A un tassello di questa vicenda è dedicata la mostra Voci di libertà. I combattenti alleati di origine italiana nella Seconda guerra mondiale che si è aperta a Firenze, lo scorso 5 aprile, alle presenza della console generale degli Stati Uniti nel capoluogo toscano Ragini Gupta. Curata da Matteo Pretelli e Francesco Fusi, due tra i più autorevoli storici italiani che si sono occupati di questo tema negli ultimi anni, l’esposizione si è concentrata soprattutto sul caso dei militari italoamericani che presero parte alla campagna d’Italia, iniziata con lo sbarco in Sicilia il 10 luglio 1943 e conclusasi con la resa tedesca il 2 maggio 1945. A fini comparativi, però, sono presi in considerazione anche i soldati di origine italiana che combatterono in altre forze armate alleate come quelle australiane, canadesi e britanniche.
In trenta pannelli – che riproducono fotografie, documenti d’archivio e articoli di giornale coevi – e in due vetrine – queste ultime dedicate ai libri autobiografici dei combattenti e ai volumi di storia che li hanno studiati – vengono ricostruiti non tanto gli avvenimenti bellici specifici quanto l’esperienza dei militari italoamericani. Il loro contributo alla vittoria statunitense nella seconda guerra mondiale è collocato in una prospettiva di ampio periodo. L’esposizione parte dall’iniziale infatuazione delle comunità italiane negli Stati Uniti per Benito Mussolini, seguita da un pronto ripudio del fascismo al momento dell’ingresso dell’Italia in guerra il 10 giugno 1940. Quella degli italoamericani, infatti, non era stata un’adesione ideologica al regime, bensì una rivalsa etnica da parte dei membri di una minoranza che avevano visto nei presunti successi del fascismo – non ultima la conquista dell’Impero nel 1936 – un motivo di orgoglio e una forma di compensazione dopo decenni di discriminazioni subite negli Stati Uniti in base alla loro presunta inferiorità rispetto agli anglosassoni.
Il percorso si conclude con la memoria pubblica attraverso le immagini dei monumenti eretti ai combattenti e dei cimiteri dove sono sepolti i caduti come gli American Cemetry and Memorial ai Falciani, alle porte di Firenze, e a Nettuno. Tra questi due estremi, sono affrontate – in maniera sintetica ancorché coinvolgente ed efficace – una molteplicità di questioni quali il reclutamento, la vita sotto le armi, l’impiego nell’intelligence statunitense (l’Office of Strategic Services) per sfruttare le capacità linguistiche e la dimestichezza con il territorio italiano degli immigrati, gli encomi ottenuti dagli italoamericani per valore dimostrato al fronte, la partecipazione all’Allied Military Government (come nel caso di Charles Poletti, governatore in tempi diversi della Sicilia, di Napoli, di Roma e di Milano), i rapporti con la popolazione italiana.
Particolare attenzione viene dedicata alla dimensione etnica e alla ricchezza di suggestioni che in Italia coinvolse maggiormente i militari originari di questa nazione rispetto a quelli impegnati su altri fronti della guerra. L’allestimento mette, infatti, in rilievo come gli italoamericani avessero utilizzato l’opportunità di trovarsi nella terra di provenienza anche per riannodare i rapporti con i parenti rimasti in Italia, andandoli perfino a trovare approfittando delle licenze di cui usufruivano, e per conoscere o riscoprire le tradizioni del Paese d’origine.
In tal modo, la guerra ebbe un duplice influsso sui combattenti italoamericani. Da un lato, li aiutò a riappropriarsi delle loro radici etniche o a consolidarle. Dall’altro, operò come un acceleratore di assimilazione perché la partecipazione alla guerra comportò la condivisione dei valori di libertà e democrazia su cui si fondavano gli Stati Uniti, mentre l’arruolamento nelle forze armate servi agli immigrati e ai loro discendenti per integrarsi nella società americana. Il raggiungimento di quest’ultimo obiettivo fu facilitato dai programmi a favore dei reduci, in particolare il Servicemen’s Readjustment Act del 1944 che finanziò la frequenza a corsi universitari, l’avvio di attività commerciali e l’acquisto della casa, consentendo a molti italoamericani di abbandonare le Little Italies per trasferirsi nei sobborghi residenziali.
I curatori non trascurano l’ormai imprescindibile prospettiva di genere, occupandosene soprattutto sul fronte interno. Qui le donne italoamericane parteciparono attivamente allo sforzo bellico di Washington, accettando il razionamento, tenendo a freno i consumi, confezionando capi di vestiario per i soldati e i marinai, acquistando i war bonds (i titoli del debito pubblico per finanziare la guerra) e arruolandosi nei corpi ausiliari. La presenza femminile emerge anche nella trattazione dei rapporti interpersonali dei combattenti italoamericani in Italia che contrassero matrimoni o si fidanzarono con ragazze del luogo.
La mostra non nasconde un paio di vexatae quaestiones: da una parte, l’internamento di alcune migliaia di individui di origine italiana, impenitenti filofascisti anche dopo Pearl Harbor, considerati dalle autorità federali come una minaccia per la sicurezza nazionale; dall’altra, la dolorosa evacuazione forzata degli immigrati non naturalizzati – a prescindere dal loro orientamento politico – dalla costa del Pacifico, per impedire che potessero fungere da “quinta colonna” a vantaggio dell’Asse nel caso di un’invasione giapponese. L’allestimento sorvola, invece, su altri aspetti controversi come, ad esempio, il cosiddetto Luciano Project (dal nome di Lucky Luciano, l’immigrato siciliano sbarcato negli Stati Uniti nel 1905 e assurto ai vertici della “cupola” newyorkese durante il proibizionismo), cioè l’oramai accertata cooptazione della criminalità organizzata italoamericana, che controllava il fronte del porto a New York, per impedire atti di sabotaggio nazifascista contro le unità della marina militare statunitense, e l’invece più che ipotetica collaborazione della mafia per favorire lo sbarco in Sicilia.

Inoltre, l’esposizione è pervasa da una certa atmosfera celebrativa, rispetto a possibili approfondimenti sul dramma vissuto in concreto da alcuni italoamericani per il fatto di dover affrontare la nazione di origine sul campo di battaglia, col rischio di trovarsi a sparare contro parenti e amici rimasti in Italia. Nella mostra, per esempio, si incontra la figura di John Basilone, insignito della più alta decorazione del governo statunitense per gli atti di eroismo compiuti durante la battaglia di Guadalcanal. Ma, come ricordava alcuni anni fa la testimonianza di un immigrato siciliano, “Remember when Sergeant John Basilone came home? He was the Medal of Honor winner. They have a bridge on the Jersey Turnpike named after him. He was our hero. He did the right things, but he did them in the Pacific. He was shooting gooks, so that’s okay. It would be very painful to see the same act of courage demonstrated against Italians. Even if he did it, he would have been forgotten about” (Paul Pisicano citato in Studs Terkel, “The Good War”: An Oral History of World War II, New York, Pantheon, 1984, p. 141). Non a caso, potendo scegliere, non pochi volontari italoamericani preferirono arruolarsi nei marines perché, come spiegò al padre immigrato il figlio nato negli Stati Uniti, “the Marines are fighting in the Pacific and I won’t fight against your brother and cousins in Italy” (Roland De Gregorio citato in Gary Ross Mormino, Immigrants on the Hill: Italian Americans in St. Louis, 1882-1982, Urbana, University of Illinois Press, 1986, p. 219).
La mostra tratta anche il caso di Daniel J. Petruzzi, che condivise la decisione dei comandi alleati di radere al suolo l’abbazia di Montecassino. Di contro, il romanziere e giornalista Gay Talese ha ricordato che, giunta la notizia della distruzione di questo complesso architettonico, suo padre – indignato da tale sfregio contro l’arte italiana – gli spaccò sistematicamente tutti quei modellini di aerei da combattimento americani che rappresentavano la sua gioia di bambino (Ai figli dei figli, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 664-665).
Queste posizioni tendono a uscire ridimensionate nell’ambito dell’allestimento. Comunque, come evidenziato in maniera persuasiva dalla mostra, gli italoamericani finirono per accettare la guerra contro l’Italia, anche in considerazione della sua lettura nei termini di un conflitto necessario per liberare gli italiani dalla dittatura fascista. In ragione di tale approccio, non si sentirono nemici degli italiani per il fatto di indossare la divisa statunitense, ma si considerarono portatori di democrazia nel proprio Paese d’origine.
A ogni buon conto, Voci di libertà costituisce uno sforzo meritorio e ben riuscito di alta divulgazione, che raccoglie materiale inedito, con cui perfino gli stessi addetti ai lavori hanno in parte scarsa dimestichezza, e restituisce una voce ai militari italoamericani, permettendo al grande pubblico di riflettere su vicende ancora poco conosciute. La mostra è accompagnata da un catalogo bilingue, riccamente illustrato, Fighting Paisanos: le storie degli italo-americani che hanno combattuto il fascismo dal titolo omonimo (Voci di libertà, Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2022, pp. 187, s.i.p.). Il volume, oltre a riprodurre il contenuto dell’esposizione, include alcune testimonianze di figli di combattenti italoamericani e quattro saggi redatti non solo dai curatori, ma anche dalla storica Silvia Cassamagnaghi, sulle spose di guerra e sulle adozioni degli orfani da parte di famiglie americane, e dal regista Marco Curti, autore di un documentario sulle esperienze di quattro reduci italoamericani (Fighting Paisanos, 2013), già noto ai lettori de La Voce di New York.