Chi di voi non ha passato l'infanzia o l'adolescenza accanto a un fuoco o davanti a un tavolo ascoltando le parole lontane e preziose dei nonni andati in guerra? Cappelli di paglia e mani rigate, occhi sempre lucidi e allegri. Gli occhi di quelli che hanno fatto la guerra si somigliano, malinconici e felici, perchè come dice Fred “la prima cosa che impari quando vai in battaglia, è quanto non vuoi morire”.
L'italo-americano Fred Baldino ha passato la sua giovinezza in guerra, come tanti suoi coetanei. Arruolatosi nei paracadutisti, è poi tornato in America e ha vissuto a Bunbank. Come lui anche Frank, Al e Gene, protagonisti del documentario Fighting Paisanos di Marco Curti.
Il documentario, proiettato alla Casa Italiana Zerilli-Marimò a New York, per una produzione Rai Cinema e Briciola.tv, è stato anche presentato questo fine settimana al New York Independent Film Festival.
Fighting Paisano è un soprannome inventato dal giornalista di guerra Ernie Pyle per indicare un ragazzo della Ciociaria, che a causa della sua doppia cittadinanza italo-americana, aveva deciso di combattere con gli alleati per la liberazione della sua terra dal Nazi-fascismo.
Sono stati tra 500.000 e un milione gli italoamericani che decisero, come lui, di combattere per la loro seconda patria, l'Italia. Figli di italiani o italiani venuti da bambini in America, questi soldati avevano nel cuore una patria a cui a volte diedero anche la vita.
“Non è stato facile trovare i quattro italoamericani che avevano combattuto durante la seconda guerra mondiale – dice il regista – Il lavoro di ricerca è stato lungo. La cosa più difficile è stato trovare persone disposte a raccontare la propria guerra. La guerra e quello che succede dopo sono una cosa molto personale. Ho trovato per fortuna persone che hanno metabolizzato la propria esperienza e l'hanno potuta raccontare in maniera serena”.
Non è la storia raccontata sui libri, non quella delle battaglie, non quella dei generali, ma quella letta negli occhi di giovani soldati che vedono per la prima volta la morte. Tutti e quattro i protagonisti di questo documentario parlano di una guerra quasi disincantata, almeno all'inizio. La loro decisione di combattere era stata avventata, istintiva, emotiva, proprio come si fa a vent'anni. Non era stata la ragione a portarli oltre oceano, ma il cuore. Figli di italiani, erano nati nè qua nè la, un pò in mezzo all'oceano. Non erano nè americani nè italiani. Racconta Frank Monteleone, veterano di guerra presente alla proiezione del lavoro di Curti: “A casa parlavo italiano con la mia famiglia, ma con gli amici e a scuola parlavo inglese”. Un pò come facevano gli italiani con il dialetto. Lo confermano le parole di Fred: “Sono cresciuto in una famiglia di 14 persone nella stessa casa”. Una realtà tutta “italiana” accomunava questi ragazzi a quelli della penisola più povera, stretta tra la fame e l'ignoranza: il mondo della casa, con i tanti figli e il pane da dividere, così lontano da quello della società, italiana o americana che fosse.
I protagonisti del documentario sono italo-americani più simili agli italiani mai conosciuti che agli americani con cui condividevano la vita. Tuttavia, sembra che solo il pubblico americano abbia capito davvero l'essenza di queste storie. “Proiettare questo film qui ha tutto un altro sapore – dice il regista – La risposta del pubblico che ho riscontrato qui è più forte, con delle emozioni che non ho visto nelle sale italiane. È una storia che appartiene al pubblico americano. In Italia invece la vicenda degli italo americani è vista come qualcosa di esotico, fa ridere, è una cosa simpatica sentire qualcuno parlare nel dialetto parlermitano con l'accento americano”.
Se le storie narrate sono storie personali, lo è anche quella che ha spinto il regista a raccontarle. “Mi è sempre piaciuto ascoltare le persone anziane che raccontano storie – dice Curti – Mio nonno è stato il primo. Avevo preso l'abitudine di registrarlo quando mi raccontava della guerra, ma poi ho perso tutto il materiale”. Quella voce ora Marco Curti l'ha ritrovata in un italiano a metà tra il dialetto e l'americano di altri nonni, combattenti in guerra e a casa propria.
“Vivevo diviso in due identità – racconta l'abruzzese Gene Giannnobile – una da “nemico interno”, perchè ero italiano, e un'altra da soldato per il paese che mi aveva appena dichiarato nemico interno. Tutto ciò era assurdo”.
Restano i ricordi, i dolori e le sofferenze, l'esperienza comune di una generazione che ha avuto paura di morire di guerra e di fame. Resta per alcuni anche il senso di onore per aver combattuto per un obiettivo nobile e collettivo. “Sono molto orgoglioso di aver avuto l'opportunità di aiutare a liberare la mia terra natale dall'oppressione dei tedeschi e dei fascisti”, dice sicuro di sè Al Soria, veterano di origini ebraiche, figlio di un importante dirigente Fiat, costretto a fuggire dall'Italia fascista perchè “non ariano”.
“Ognuno ha vissuto l'esperienza della guerra e il ritorno in Italia in maniera diversa – spiega Curti – e le ragioni da cui erano spinti sono molteplici: dalla costrizione, la leva obbligatoria, alla volontà di riscattare l'Italia e riportarla alla libertà”.
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