Negli ultimi giorni, anche su La Voce di New York, le parlamentari italiane elette nella ripartizione America settentrionale e centrale della circoscrizione estero (la senatrice di Forza Italia Francesca Alderisi e le deputate Francesca La Marca del Partito Democratico e Fucsia Fitzgerald Nissoli di Forza Italia) hanno manifestato la loro opposizione alla riforma costituzionale che sarà sottoposta al referendum confermativo del prossimo 20 e 21 settembre. Si tratta di una posizione bipartisan che trova una delle principali ragioni comuni nella incontrovertibile constatazione che il taglio generale dei seggi in Parlamento, stabilito dalla modifica della Costituzione, comporterà in maniera specifica una consistente riduzione della rappresentanza alla Camera e al Senato della Repubblica per i cittadini italiani residenti all’estero, già penalizzati dal fatto di trovarsi accorpati in ripartizioni molto vaste e, conseguentemente eterogenee, come quella del Nord e Centro America che si estende dall’Alaska a Panama e include anche dodici Stati insulari caraibici.
A fronte di questo solido allineamento trasversale agli schieramenti partitici da parte di tutte e tre le rappresentanti dell’America centro-settentrionale a Montecitorio e a Palazzo Madama, prima dello spoglio dei voti nella consultazione referendaria, con tutte le incertezze che una previsione comporta, è lecito domandarsi in quale misura la posizione di Alderisi e delle sue colleghe venga a riflettere quella degli elettori degli Stati Uniti che, per numero, rappresentano la maggioranza dei votanti potenziali della ripartizione. In tal senso, possono aiutare alcuni antecedenti.

Il referendum del 20 e 21 settembre, infatti, non costituisce la prima consultazione dei cittadini italiani residenti negli Stati Uniti su proposte di emendamenti alla Costituzione italiana dopo l’introduzione del voto per posta. Ci sono stati due precedenti, nel 2006 e nel 2016. Il primo riguardò un pacchetto di modifiche, formulato dall’uscente governo di centro-destra presieduto da Silvio Berlusconi, volto a rafforzare i poteri del presidente del Consiglio con l’introduzione del cosiddetto “premierato” e ad accentuare il regionalismo con la devoluzione di alcune prerogative dello Stato. Il secondo, promosso dal governo di centro-sinistra guidato da Matteo Renzi, ebbe come oggetto il superamento del bicameralismo perfetto con un considerevole ridimensionamento dei poteri del Senato e la designazione dei suoi membri, che sarebbero scesi da 315 a 100, da parte dei Consigli regionali. La principale analogia delle proposte di riforma del 2006 e del 2016 con quella di quest’anno riguardava proprio la riduzione della rappresentanza parlamentare in generale e, quindi, nello specifico, della voce dei cittadini italiani all’estero denunciata da Alderisi, Nissoli e La Marca. Con le modifiche del 2006 il numero complessivo di seggi sarebbe passato da 630 a 518 alla Camera e da 315 a 252 al Senato. Con gli emendamenti del 2016 la circoscrizione estero avrebbe perso i suoi otto seggi al Senato perché sarebbe venuta meno l’elezione diretta dei membri di questo ramo del Parlamento.
Come è noto, entrambe le revisioni della Costituzione furono bocciate a larga maggioranza dagli elettori, rispettivamente con il 61,29% dei voti nel 2006 e con il 59,12% dieci anni dopo. Invece, i cittadini italiani residenti negli Stati Uniti che parteciparono alle due consultazioni referendarie si espressero in netta controtendenza, ancorché in modo altrettanto ampio. Infatti, incurante dell’inevitabile contrazione della propria rappresentanza in Parlamento che andava a ratificare, il 53,51% dell’elettorato statunitense appoggiò le modifiche costituzionali del 2006 e il 58,87% sostenne quelle del 2016. In effetti, non sembrava che avere portavoce a Montecitorio e a Palazzo Madama fosse un interesse precipuo per gli italiani che vivevano negli Stati Uniti. Non a caso, solo una ristretta minoranza aveva partecipato alle elezioni politiche precedenti i due referendum: solo il 30,7% nel 2006 e appena il 27,6% nel 2013. Gli elettori non risultarono neppure particolarmente turbati dalle pesanti imputazioni che, in entrambe le occasioni, gli oppositori delle revisioni costituzionali avevano rivolto a chi aveva proposto gli emendamenti: sia Berlusconi sia Renzi erano stati accusati di voler cambiare la Costituzione per gettare le fondamenta istituzionali di una svolta autoritaria del governo della Repubblica. Ma il futuro della democrazia in Italia non parve rientrare tra le determinanti della scelta referendaria da parte della maggioranza dei partecipanti al voto, tanto nel 2006 quanto nel 2016.

A guidare gli elettori sembrò, invece, l’immagine dell’Italia negli Stati Uniti. Con il ventunesimo secolo era decisamente venuto meno lo stereotipo degli italiani brutti, sporchi, cattivi e collusi con la criminalità organizzata che aveva contraddistinto il nativismo e la xenofobia statunitensi nei secoli precedenti. Però, in un contesto in cui moda, design e cucina rappresentavano ormai da anni eccellenze che inorgoglivano gli italiani d’America e li incentivavano a manifestare apertamente la loro ascendenza nazionale, l’inefficienza della macchina dello Stato e della politica in Italia restavano ancora elementi negativi per una possibile stigmatizzazione delle persone di origine italiana con riflessi negativi sull’inserimento lavorativo e sulla vita professionale negli Stati Uniti che, non di rado, era connessa ai rapporti tra America e Italia. Le riforme costituzionali del 2006 e del 2016 vennero presentate dai loro promotori come una necessità imprescindibile per modernizzare lo Stato italiano e rimuovere i freni della politica soprattutto alle attività economiche e finanziarie alla luce della crescente integrazione dei mercati. In questa prospettiva, è ipotizzabile che l’essere associati a un Paese reso più dinamico e al passo con la globalizzazione da radicali cambiamenti della Costituzione fosse un vantaggio che, per i cittadini italiani negli Stati Uniti, avrebbe ripagato in larga misura il sacrificio di una rappresentanza parlamentare di per se stessa non particolarmente sentita. Di qui il loro voto a favore delle trasformazioni costituzionali del 2006 e del 2016.
La crescita dell’efficienza politica di una Camera e di un Senato a ranghi ridotti è uno dei benefici prospettati dai sostenitori delle modifiche proposte quest’anno. I cittadini italiani che vivono negli Stati Uniti continuano a non essere particolarmente interessati alla rappresentanza in Parlamento: nelle elezioni politiche più recenti, quelle di due anni fa, la partecipazione è ulteriormente calata al 26,1%. rispetto al 27,6% del 2013. Sembrano, quindi, sussistere ancora le medesime condizioni che hanno già portato gli italiani d’America a ratificare gli emendamenti alla Costituzione sia nel 2006 sia nel 2016.