26 novembre 2016 ore 7.12
Sono a Roma da mia madre per il weekend. Qualcuno mi tocca il piede, è lei. “Andrea ti devo dire una cosa”. Mi aspetto di tutto. Dai, sbattimi in faccia la realtà come hai sempre fatto, penso. Sono pronto. “E’ morto Fidel”.
Non ero pronto.
La bussola improvvisamente perde il nord.
Non ci credo, troppe volte lo hanno fatto morire e poi rivivere.
Mi attacco al pc e quando vedo la faccia di Raul capisco che non è uno scherzo.
Forse un giorno scoprirò quante volte sono stato a Cuba. Ho iniziato con la mia famiglia nell’ormai lontano 1999, avevo cinque anni e ora ne ho ventidue. Il 1999 era la prima di moltissime altre volte, una media di una all’anno. Qualche tempo fa mi divertii a calcolare i giorni passati in territorio cubano attraverso i timbri sul passaporto. Un anno e mezzo della mia vita. È qui che ho imparato a parlare spagnolo, o cubano come dice la mia fidanzata (lei davvero spagnola). È qui che ho capito cosa significa pensare, approfondire, non fermarsi davanti alle apparenze o alle notizie pret a porter, è qui che ho sviluppato il mio pensiero politico. Sono cresciuto con le storie dei miei due “grandi vecchi”, una coppia cubana che ha superato la soglia dei 70, con cui ho passato dal 2000 tutte le mie vacanze natalizie e molti altri momenti della mia vita e che per me sono un pezzo di famiglia. Loro, tra le altre cose, hanno partecipato alla campagna di alfabetizzazione che permise a Cuba in meno di quattro anni di essere uno Stato libero da analfabetismo. Non una cosa comune in America Latina e meno che mai nei Caraibi. L’UNESCO ha perfino fatto porre una targa nel museo dell’alfabetizzazione all’Havana con questo testo: ”Da tutto il mondo vi verranno a chiedere come avete fatto” . E in effetti è andata proprio così: ad imparare il metodo da Cuba sono andati la Bolivia, l’ Ecuador, il Venezuela, il Brasile.
Sono cresciuto ascoltando le discussioni tra loro due e gli europei “scettici”, nel patio della loro casa nel magnifico quartiere coloniale del Vedado, all’Havana. Non ricordo in quanti sono crollati di fronte alla realtà di questa rivoluzione, raccontata non con nebulose teorizzazioni del pensiero socialista ma con la realtà di conquiste e obiettivi raggiunti.
Ma sono cresciuto anche con gli articoli di Omero Ciai su La Repubblica o i saggi di Lucio Caracciolo su Limes. Ho letto di tutto. A casa mia sono sempre entrati saggi, romanzi, film dedicati alla rivoluzione. Favorevoli e contrari.
E così, mi scuserà il lettore se la mia visione sulla realtà cubana è particolarmente influenzata da ciò che ho visto, da ciò che sono, qualcuno direbbe una visione “di parte”. Diciamo che guardo a questa isola caraibica con gli occhi dell’innamorato.
Sono sempre stato dell’idea che noi occidentali non potremmo mai capire davvero Cuba. È vagamente come il Palio di Siena per i non senesi. Lasciate perdere, potrete solo avvicinarvi, forse, a comprendere la realtà, ma mai a farla vostra.
I giorni successivi alla morte di Fidel Castro sono rimasto sempre sintonizzato su Telesur, televisione Venezuelana che ha seguito passo passo il “dopo” e radio Rebelde, la radio dell’Havana. L’esplosione del dolore è stata veramente impressionante: le lacrime di anziani e anziane, di donne e di uomini, di giovani e bambini, il silenzio di dolore, le strade prima vuote poi lunedì nuovamente stracolme, la lunga fila per andare ad omaggiare il Comandante danno un’idea, parziale, dell’ondata emotiva che ha coperto l’isola.
Per spiegare l’idea che mi sono fatto di come i cubani hanno elaborato la notizia nelle prime ore e nei giorni a venire, prendo a prestito un film di Moretti, Mia madre. Tutto il processo che prepara alla morte di un genitore, non conta più nulla dopo che succede ciò che non avresti mai voluto e immaginato succedesse. Fidel era vecchio e malato da tempo. Recentemente, intervenendo all’assemblea popular aveva anche fatto riferimento ad una sua possibile scomparsa in tempi non troppo lontani. Eppure… nessuno era preparato.
La sera di Venerdì 2 dicembre sono atterrato all’Havana per andare a Santiago de Cuba dove Sabato sera alle 19 si sarebbe tenuto un “Acto de masa” dove avrebbero parlato personalità di rappresentanza popolare. Scendo dall’aereo e tutto è come sempre, il caldo umido, l’odore di gasolio, le hostess di terra con le orrende calze di pizzo e le lunghissime unghie da tigre. Apparentemente tutto a posto. Ma qualcosa non funziona: il silenzio mi colpisce dritto allo stomaco.
Chi è arrivato almeno una volta all’aeroporto dell’Havana conosce il caos che c’è lì fuori. Invece niente clacson, niente urla, niente musica a tutto volume. Niente di niente.
Fidel è morto, silenzio!
Dietro a quel silenzio però c’era già una forma di reazione. I tassisti in attesa, il personale al controllo passaporti, tutti i capannelli avevano un unico argomento e nelle chiacchiere sparse ricorreva “Fidel”, “el Comandante”.
Non erano passate neanche quarantotto ore dall’annuncio di Raul che i cubani avevano reagito. Martedì sera, nel ricordo organizzato nella grande Plaza de la Revolucion, una piazza colma all’inverosimile aveva gridato “Yo soy Fidel”, ricordando e ribadendo che il pensiero di Castro non sarebbe scomparso con lui. Dello stesso tenore anche le parole scritte dal cantautore Raul Torres e poi cantate: “nì la muerte cree que se apoderó de tí” (Neanche la morte crede di essersi impadronita di te.), canzone scelta dal governo per chiudere i vari “Actos de plaza”.
Ripercorrere la storia della rivoluzione e le gesta di Fidel è stato un filo rosso che nei giorni successivi alla morte ha unito i cubani. Ognuno aveva qualcosa da ricordare e condividere con gli altri. “Ti ricordi di quella volta…”, “E quando ha detto…”. I più vecchi raccontano, i più giovani ascoltano e commentano. In questi giorni si sono azzerate le differenze generazionali.
Mi dirigo al banchetto del noleggio delle macchine. So che ci aspetta un viaggio lungo e difficile. Dall’Havana a Santiago de Cuba, circa 900km tra autopista e carrettera central.
Quando chi mi sta affittando la macchina scopre che vogliamo fare questo viaggio di notte va in escandescenza. “Tu sei pazzo, è pericolosissimo. La carrettera central è piena zeppa di buche e non si vede nulla!”. Lo interrompo subito. Gli spiego che io ho fatto un viaggio di 12 ore solo per prendere quella macchina, andare a Santiago, rendere omaggio a Fidel e tornare all’Havana. Gli spiego che non sono vacanze, che già il lunedì sarei tornato in Europa.
A quel punto mi ha messo le chiavi in mano. Alza il sopracciglio e mi fa un’ultima raccomandazione: “Tenga cuidado compañero porfavor.” (Sii prudente compagno).
Finalmente partiamo, con noi, last minute, c’è anche Diango, figlio di una nostra cara amica, Luisa, direttrice della scuola nazionale di danza.
E così iniziamo l’avventura. In macchina Diango chiama gli zii a Camaguey (fantastica città coloniale sulla strada per Santiago). Ci aspetteranno per farci dormire un paio d’ore. Non importa se arriveremo alle 4.
Quando mancano poche decine di chilometri a Camaguey la polizia ci ferma. Hanno ragione, siamo passati da un passaggio a livello ad una velocità eccessiva. Tiro giù il finestrino e inizio a parlare con il poliziotto. Scendo dalla macchina, lo ascolto dirmi che ci dovrà fare una multa di 40 dollari e gli spiego che stiamo andando a Santiago, vogliamo arrivare in tempo per l’acto masivo in onore a Fidel e abbiamo un viaggio lungo alle spalle. “Fidel?” chiede lui sorpreso, come a dire “e te che ne sai?” Non è servito nient’altro. “Tenga cuidado compañero, no manejen con cansancios”. (Sii prudente, non guidate se siete stanchi). Pacca sulla spalla e via, si riparte. Gli zii ci aspettano in strada (mancano pochi minuti alle 4) e arrivati in casa scopriamo che ci hanno riservato la loro stanza. Le lenzuola migliori sul letto. Sono due persone sui 70, anche loro hanno partecipato all’alfabetizzazione. Lei ci racconta di aver passato tutto il giorno ad aspettare che arrivasse la carovana con le ceneri di Fidel. Ci racconta il dolore di tutta la città e la grande partecipazione, gli occhi lucidi. Ma insiste per mandarci a letto, dobbiamo riposare il viaggio è ancora lungo.
Poche ore più tardi troviamo una ricca colazione e mentre mangiamo ci raccontano “storie di rivoluzione”. Lui è ingegnere agricolo, lei economista. Entrambi parlano perfettamente russo, lui ha studiato e lavorato a Mosca.
Si riparte, andiamo a recuperare la macchina. Le strade sono vuote, le bandiere esposte fuori dalle case a mezz’asta. Solo una cosa si sente, il dolore della città.
Una volta in macchina via dritti a Santiago ascoltando la radio per capire dove è la carovana con le ceneri di Fidel che, anche lei, deve arrivare a Santiago sabato. Siamo indietro giusto di qualche ora.
Sul ciglio della carrettera central (una strada a tre corsie che percorre dall’Havana a Santiago tutta l’isola passando per i paesini) vediamo ciò che rimane della folla che poco prima ha acclamato le ceneri del Comandante. È emozionante vedere che anche in quei pezzi di strada in mezzo al nulla ci sono bandiere, cartelloni, scritte. La sera scopriremo che quel dettaglio non aveva stupito solo noi ma anche gli operatori dell’elicottero che, in alcuni tratti, aveva seguito la carovana. Si sente l’operatore chiedersi da dove arrivino tutte quelle persone se non ci sono centri abitati. Poi nelle immagini successive si vedono contadini camminare in mezzo ai campi, chi a piedi chi con i carri trainati dai buoi chi a cavallo. Dall’alto sembrano tante formiche che raggiungono il formicaio. Hanno camminato chilometri per vedere, ringraziare e omaggiare quei 5 secondi, le ceneri di Fidel. Inizia a farsi più chiaro il concetto che si nasconde dietro le parole, che ricorrono alla radio in televisione e nei discorsi della gente: “morte FISICA”. E’ morto il corpo non le sue idee.
Finalmente arriviamo a Santiago. C’è un caldo terribile, 38 gradi. Normale nell’estremo oriente cubano. Ad accoglierci, nella sua casa particular, è Mary con la figlia direttrice del dipartimento di Farmacia di Santiago.
Ci raccontano che non si sono staccate dal televisore, che in effetti rimarrà sempre accesso per tutta la durata della nostra permanenza. Hanno seguito passo passo il Comandante, perché: “Quello che ha fatto lui per noi non lo avrebbe mai fatto nessun altro. Nessuno. Ci ha dato la dignità, l’indipendenza e la libertà che prima il capitalismo non ci dava. Gli dobbiamo tutto.”
Rimango qualche minuto a conversare con Mary. Ad un certo punto arriva la nipotina. Mary la guarda e sottovoce ma con tono austero le dice: “Guarda, è venuto dall’Italia per il nostro comandante.” Poi la voce le si strozza.
Il tempo di una doccia e siamo già in piazza. Non importa chiedere dov’è la piazza, un flusso incredibile di persone si dirige verso un’unica direzione. Ci sono un sacco di i giovani. Oltre a genitori con i propri bimbi, anziani con le medagliette militari attaccate alla camicia, donne e uomini. Tutti con la fascia del Movimento 26 de julio al braccio. L’M26J è il movimento rivoluzionario cubano che prende nome dallo storico attacco guidato da Fidel alla caserma Moncada – a Santiago – nel 1953.
C’è chi piange a dirotto senza potersi fermare e chi invece canta e grida che Fidel è morto, sì, ma che loro non smetteranno di combattere, di resistere, di portare avanti il progetto rivoluzionario per cui tanto aveva combattuto Castro. Quello che c’era da imparare lo hanno imparato. Adesso possono anche continuare da soli. Adesso che muore uno di loro, come sempre hanno fatto, lo moltiplicano fino a farlo diventare milioni di esseri umani.
Se qualcuno crede che adesso “cambi tutto” o che “ma senza Fidel e Raul…” vada a parlare con un cubano. Uno qualunque. Se è vero che “Yo soy Fidel”, in ogni cubano c’è un pezzo di quella storia e di quelle idee.
Ciò che mi ha sempre stupito di questa rivoluzione è che fosse il popolo a portarla avanti e non un solo un individuo. E questo noi occidentali non lo abbiamo mai capito. Fidel certamente è stata una figura forte, centrale e imprescindibile. Ma Cuba non può essere capita limitandosi a studiare questo personaggio. Il popolo cubano ha un collante straordinario, un’identità talmente forte, un senso di appartenenza così profondo che, nel momento in cui si percepisce, se ne comprendono gli sforzi, la capacità di reagire ad un bloqueo che tenta di strangolare l’isola da oltre 50 anni. E si capisce da dove nasce la spinta che porta tanti medici cubani a partire per missioni internazionali (ricordo, per esempio, che Cuba, con i suoi 10 milioni di abitanti, è stata il paese che ha mandato più medici al mondo per l’emergenza Ebola . La stessa spinta che ha portato i maestri sulla Sierra Maestra ad insegnare a leggere e a scrivere ai contadini e i ricercatori a sviluppare tanti brevetti scientifici (di recente scoperta un vaccino contro il cancro alla prostata che tanto interessa agli Stati Uniti).
Il rapporto tra Fidel e il popolo cubano va oltre qualsiasi immaginario europeo. Il famoso patto sociale, di cui molto parliamo in questi giorni in relazione al deficit di ascolto e comprensione della politica verso i cittadini, a Cuba è sintetizzabile con una frase. “Patria o muerte! Venceremos.”
In anni in cui gli unici a cantare l’inno italiano sono i calciatori, sentire più di cinquecento mila persone urlare unite il proprio inno all’inizio della cerimonia in ricordo di Fidel non è da pelle d’oca ma da lacrimoni. E questo è un successo della popolazione e di Fidel. Aver difeso, anzi tutto, la propria sovranità e indipendenza. Averla difesa a costo di mangiare segatura di soya, cosa che durante il periodo speciale era all’ordine del giorno, a costo di morti ammazzati da attacchi terroristici, a costo di passare per decenni brutti e cattivi (A proposito consiglio A. Hellmann, N. Pannelli, Cuba, La rivoluzione imperdonabile, Roma, Stampa Alternativa, 2007).
Fidel lo ha ribadito anche poco meno di un anno fa nella celebre lettera diretta proprio a Obama, dopo il suo viaggio a Cuba. “Cuba non ha bisogno di regali. O ci si siede al tavolo da eguali oppure non siamo interessati a nessun tipo di trattativa. La nostra sovranità non è in vendita”. La storia sembra ripetersi. Infatti, quello che gli americani non hanno mai perdonato a Cuba e al suo popolo è di voler essere padroni della propria terra, delle proprie, seppur scarse, ricchezze. In due parole, di voler essere sovrani e indipendenti. Ed è questo uno dei principali motivi di orgoglio per la gente che vive nell’isola, di aver resistito al grande impero.
Sulla strada di ritorno da Santiago abbiamo dato un passaggio a uno dei tanti autostoppisti che si trovano lungo le strade cubane. Era un signore anziano, camminava male, aveva il bastone. Chissà da dove veniva. Si siede dietro.
Mentre la strada scorre veloce sui bordi della carretera central compaiono cartelloni e lenzuola con scritte di omaggio a Fidel, lasciati lì dopo il passaggio della carovana. Lui guarda fuori e, come un discorso tra sé e sé esclama: “Nessuno potrà mai capirci. Nessuno Stato ha mai avuto un Presidente come il nostro. Ha combattuto per la nostra libertà.” Poi, anche a lui, si strozza la voce.
Poco più in là ci fermiamo a fare benzina. C’è un sole forte e fa un grande caldo. Vado in bagno per sciacquarmi il viso. Uscendo, un anziano che stava prendendo il fresco dell’ombra mi guarda fisso e mi dice: “Hai visto che ci è successo?” Gli do una pacca sulla spalla, gli stringo la mano e gli dico che bisogna continuare “en la lucha” perché non c’è nient’altro da fare. Nulla di meglio ha potuto fare l’europeo che è in me. Lui comunque rimane spiazzato e mi guarda con occhi furbi: “ci siamo capiti!”.
Aumenta il traffico, vuol dire che stiamo per arrivare nella capitale. In macchina continua ad esserci un gran silenzio. Alla radio danno un programma in cui le persone raccontano storie su Fidel.
Una mamma, di un remoto paesino di campagna, racconta la storia di sua figlia rimasta cieca per una malattia molto rara. Non c’è nessuno a cuba che possa fare quell’operazione. Siamo alla fine degli anni novanta. Della storia viene informato anche Fidel che si attiva subito, l’operazione la fanno in Germania. La bambina è pronta a partire a spese dello stato cubano per operarsi e tornare a vedere. A poche ore dalla partenza Castro annulla tutto. Ha convinto un gruppo di medici tedeschi a venire a Cuba per l’operazione e per insegnare ai medici cubani a farla.
Questa è Cuba.
Infine voglio concludere con un concetto che ho sentito molto in questi giorni di lutto a Cuba. Quello del “si se puede”.
Quando tutti credevano che i Barbudos della Sierra non avrebbero mai sconfitto Batista, loro invece ce l’hanno fatta. Quanto tutti pensavano che Cuba sarebbe crollata con il bloqueo negli anni ’60, Cuba invece ha resistito. Quando con il crollo dell’Unione Sovietica il PIL di Cuba perde il 34.5%, il Paese rimane in piedi, zoppicante ma in piedi. A dimostrare che anche quando tutto sembra perso, avendo radici profonde, si può rimanere in piedi.
Ecco che la bussola torna a trovare il nord.
Qualche giorno fa leggevo un articolo di un giornalista cubano che rispondeva a Donald Trump, spiegava il dramma, il suo dramma quando è arrivata la notizia della morte di Fidel. Diceva che molti cubani, tra cui lui, avrebbero dato anni della loro vita pur di mantenere vivo Fidel.
Concludo i giorni a Cuba con il solito grande abbraccio di “a fra poco” dei miei due grandi vecchi. Questa volta diverso, più lungo, commosso. “Grazie per essere venuti in questo momento così difficile per il nostro paese. Non lo dimenticheremo!” Mi dicono.
Andrea Pesce, nato a Torino 22 anni fa, cresciuto a Roma. Studia Scienze Politiche all’Università di Bologna ma attualmente vive all’estero dove continuerà gli studi. America? Chi lo sa. E’ appassionato di Politica, America Latina e Istruzione. Spera che nel suo futuro lavorativo ci sia spazio per tutte e tre.