Quando sono atterrato a Sharm El Sheikh sapevo che la COP fosse un evento composto da altri eventi, me lo avevano raccontato. Immaginavo che ci fossero molti panel diversi nei padiglioni organizzati negli spazi ufficiali COP. Nonostante ci siano continuamente incontri di approfondimento e speech nelle diverse zone della COP27, sembra che i dialoghi di più alto profilo avvengano luoghi alternativi, creati da grandi fondi privati: i “side-events.” È qui che le vere “personalità” di spicco si esibiscono, chiacchierano e partecipano al dibattito.
Così, mi siedo a un tavolino a cinque stelle a mangiare pietanze i cui ingredienti arrivano dall’altra parte del mondo, l’offerta culinaria di ieri prevedeva sushi e quesadillas messicane, condivisione delle culture alla faccia del “chilometro 0”.
Poco dopo si siede di fianco a me una persona che ha percorso altre migliaia di chilometri di distanza per arrivare fino all’esclusiva Sharm el-Sheikh.
Inizio a chiacchierare e così scopro di trovarmi in una grande bolla di gente che parla la stessa lingua, condivide un’idea spesso simile di pianeta a trazione più responsabile, cosciente e sostenibile, in un luogo che di sostenibile ha solo i discorsi.
Se la sostenibilità è una bolla di gente che parla solo tra di loro, la COP27 è l’esasperazione di tutto questo. Una conferenza blindata, super controllata, dove ogni tipo di manifestazione è negata. Vedo più guardie di sicurezza che attivisti, ma questa è solo la punta dell’iceberg di una COP che ha deciso di riunirsi in un paese dove i diritti civili vengono calpestati quotidianamente.
Ogni giorno cammino tra aiuole di erba finta, sento aerei passarmi sopra la testa ogni cinque minuti, bevo acqua da una bottiglia che ho preferito ad una lattina di Coca Cola, sponsor dell’evento. Mi chiedo, come tanti altri qua alla COP27, quale sia il reale valore di creare questi eventi se non diamo il buon esempio e se a parlare di sostenibilità siamo sempre noi, uguali, privilegiati.
Mi preoccupa, infinitamente, la poca diversità che vedo ai tavoli di discussione, poca apertura a chi davvero vive nelle zone più vulnerabili del Pianeta. Vedo che sono sempre i paesi ricchi a decidere cosa poter fare e con che risorse farlo. Vedo che continuiamo a pensare soluzioni per luoghi che non conosciamo e dove non abbiamo vissuto, senza comprendere che i modelli “one-size-fits all” evadono la complessità della natura, degli effetti del cambiamento climatico e delle soluzioni.
Il Sud del mondo non necessita di soldi che cadono dal cielo, ma un reale interesse allo sviluppo sostenibile, che parte dall’educazione. Serve dignità e rispetto alla loro sovranità. Speriamo che i prossimi appuntamenti, quelli ancora da assegnare, vengano ospitati in quei luoghi dove le popolazioni indigene e locali vivono davvero da vicino gli effetti della crisi ecologica.
Mi preoccupa, inoltre, che lo spazio per gli attivisti e le manifestazioni sia ridotto, lontano dagli spazi decisivi della COP. È quindi nostro compito occupare gli spazi, fisici e digitali, usarli per nutrire il dibattito critico sulle negoziazioni e decisioni prese alla COP, far vedere e far riflettere sulle sue incongruenze. Anche per questo motivo, noi di zeroCO2 abbiamo deciso di raccontare la COP da dentro, mettendo i diritti umani al centro del nostro reportage.
La COP27 è una bolla chiusa in se stessa, blindata, dove le persone più influenti del pianeta atterrano in jet privato, parlano di mitigazione e se ne vanno avendo lasciato ben poco.
Se è questa la sostenibilità che la COP vuole raccontarci mi rendo conto che non manca solo coerenza, manca prima di tutto coraggio. Coraggio di guardare il problema negli occhi e affrontarlo in modo serio: la crisi climatica è un problema di tutti e, necessariamente, si affronta insieme: governi, mercato, popoli vicini e lontani. Comunicarlo è nostro dovere.
Potere seguire il mio racconto giornaliero della COP27 attraverso i miei canali Instagram e LinkedIn e da quelli di zeroCO2.