Il commento alla figura del dittatore cubano Fidel Castro, scomparso nella notte americana del 25 novembre, deve fare i conti con almeno sette concetti della riflessione storica e politica: il patriottismo, la rivoluzione, il socialismo, l’imperialismo, lo sviluppo, la democrazia, il cristianesimo.
Si tratta di riferimenti fondamentali per la lettura, in occidente, di qualunque fatto del Novecento, che però tornano particolarmente necessari nel caso di Fidel e di Cuba.
Castro, sbandierato per mezzo secolo come grande leader del comunismo internazionale, era in realtà un patriota cubano che le circostanze e una forte dose di spregiudicatezza spinsero nelle braccia dell’allora Unione Sovietica e quindi del socialismo realizzato. Fu destino comune a molti leader di quello che era allora chiamato terzo mondo per distinguerlo dai primi due, le nazioni liberali e democratiche sotto controllo statunitense, e le nazioni sotto dominio sovietico.
Si pensi, in particolare, alla parabola politica di Gamal Abd el-Nasser in Egitto, Mohammad Mossadeq in Iran, Patrice Lumumba in Congo, e ben prima Augusto Sandino in Nicaragua. Erano interessati più al futuro del loro paese che all’affermazione di una certa ideologia, ma si trovarono di fronte la rotonda incomprensione degli Stati Uniti, fatta anche di opposizione, minacce e intervento militare, azioni coperte della CIA, boicottaggi economici: il tutto a tutela del cosiddetto interesse nazionale statunitense, in realtà spesso di interessi particolari. Persino nella biografia di un grande capo comunista come Ho Chi Minh, socialista e nazionalista prima dell’adesione alla Terza internazionale, si ritrova, nella fase iniziale, l’esigenza esclusiva di contribuire allo sviluppo patriottico del proprio paese, in quel caso repressa dal colonialismo francese.
L’epopea del giovane Fidel che lotta contro il regime corrotto di Fulgencio Batista, sostenuto dai “gringos” statunitensi, nasce dalla volontà di restituire ai cubani dignità e risorse sottratte dal dittatore e dai suoi alleati. Su questa base quando, nel gennaio 1959, si forma il governo provvisorio, Washington lo riconosce. Pochi giorni dopo, sei grandi imprese e banche statunitensi concedono al Primo ministro Castro il prestito di 1 milione e mezzo di dollari, per 1/3 coperto da United Fruit, bestia nera di ogni terzomondista latinoamericano d’epoca.
Peccato che gli statunitensi, che all’epoca garantivano l’acquisto di più della metà dello zucchero cubano, si mettano poi a mercanteggiare sul prezzo dello zucchero da canna, generando il primo screzio: Fidel dichiara che quella merce otterrà prezzi migliori da altri acquirenti. In aprile, viaggiando nella capitale statunitense, dirà di non essere “per niente comunista” e di volere “buone relazioni” e un accordo commerciale equo. Ma il mese dopo vara la riforma agraria che espropria le grandi proprietà agricole statunitensi, allestendo in parallelo una panoplia di imposte spropositate su importazioni e investimenti esteri.

L’idillio iniziale è definitivamente fallito, se ad un anno dalla presa del potere castrista, nel gennaio 1960, il vicepresidente Richard Nixon afferma che “l’attitudine costantemente ostile del governo cubano verso gli interessi finanziari americani” obbliga a reagire. Castro, che sta furbescamente giocando su due tavoli, firma in febbraio un vantaggioso accordo commerciale col vice presidente del consiglio sovietico Anastase Mikoyan. Vi fa seguito il ristabilimento delle relazioni diplomatiche bilaterali, interrotte dal 1952.
Castro ordinerà quindi la requisizione di Texaco, Shell ed Esso Standard, e l’espropriazione di beni americani offrendo buoni del tesoro cubano a 50 anni con tassi del 2% in indennizzo. Eisenhower, il 3 gennaio 1961 interrompe le relazioni diplomatiche. In febbraio, l’embargo statunitense chiude definitivamente la possibilità di conciliazione e apre la strada alla grande crisi di ottobre.
Le dichiarazioni del 1960 di Nikita Kruscev su un’URSS pronta ad usare missili intercontinentali se Washington avesse toccato Cuba, non erano state prese molto sul serio, ma va diversamente con le foto di rampe missilistiche sovietiche montate a Cuba, mostrate il 7 agosto 1962 da Washington. Nel conflitto bipolare in corso, Cuba appare ora definitivamente schierata. Con tutto ciò l’isola entrerà a far parte del Comecon, l’organizzazione della solidarietà economica tra paesi a regime comunista controllati dall’URSS, soltanto nel 1972, a tredici anni dalla presa castrista del potere.
La “revolución cubana” va vista in questo contesto relativamente poco “rivoluzionario”. L’assalto al quartier militare della Moncada del 1953, gli episodi gloriosi delle scaramucce sulla Sierra Maestra, i “barbudos” guerriglieri che sbarcano con il Granma (il nome dello yacht sarà poi attribuito al giornale ufficiale del partito) andrebbero letti come episodi dell’ennesima “rivolta” dei descamisados centroamericani contro il dittatore di turno. La rivoluzione intesa come sollevamento proletario contro la borghesia nazionale e il capitalismo internazionale sarà ideologia successiva, con la quale il regime neo-dittatoriale cercherà di mascherare la brutalità poliziesca, l’oppressione politica, lo sfruttamento economico della popolazione.
Dall’operazione incasserà due dividendi: l’appoggio romantico e “progres” di intellettuali e politici (talvolta persino governi) occidentali anche avversi a Mosca, l’ingresso nella grande chiesa comunista internazionale.
E’ soprattutto il secondo che serve a Castro, per recitare la parte di campione di tutti i David del mondo, a petto del Golia statunitense.
L’acme del trade off per il quale Mosca difende militarmente e politicamente la “revolución”, garantendo un buon prezzo per la monocultura dello zucchero da canna e la difesa dell’isola, lo si ritrova nelle guerre e azioni armate africane che Fidel farà per procura in paesi come Algeria (1962), Congo (1964-1965), Angola e Sudafrica (1975-1991), Etiopia e Ogaden (1977-1988), ma anche in Medio Oriente (appoggio alla Siria durante la guerra dello Yom Kippur, 1973-1974) e America Centrale (coinvolgimento nelle guerre tra sandinisti e contra (1979-1990). Per non dire delle cosiddette invasioni fallite in più luoghi del centro America. I prestanti giovanotti neri o mulatti delle piantagioni andavano a combattere le guerre sovietiche per procura nel terribile caldo africano e mediorientale.
Ho testimonianza personale e diretta di quel trade-off nel discorso pronunciato da Fidel nell’estate 1978 a La Habana in occasione del Festival mondiale della gioventù, per la prima volta aperto a non comunisti.
Mentendo spudoratamente Fidel, vestito dei panni del non allineamento (!), della lotta della grande periferia povera e sfruttata contro la metropoli imperialista e multinazionale che ne succhiava le risorse e voleva dominarne le dinamiche politiche interne, affermava il dovere all’aiuto “fraterno” e disinteressato, in totale sintonia con la fratellanza che il patto di Varsavia mostrava in Europa invadendo in quegli anni i paesi che provavano a sottrarsi al giogo sovietico.

Nella piazza gremita, con sullo sfondo l’enorme icona benedicente del Che, la voce stridula e chioccia del dittatore (si è detto che quel tono gli venisse dagli effetti delle torture subite nel carcere di Batista), titillò per ore l’uditorio adorante che ascoltava e plaudeva. Castro reiterò concetti che di originale non avevano più nulla, contraddetti come erano dalla pratica liberticida del potere, dallo sfruttamento salariale e sociale della popolazione, dalla politica estera che aveva trasformato in mercenari del bianco russo i presunti difensori della nazione cubana contro lo strapotere del vicino statunitense. I connotati “rivoluzionari” del regime si erano persi nel calderone degli interessi privati della cricca di potere e nel realismo al quale lo stato cubano si era votato per garantirne la sopravvivenza.
In uno scenario siffatto, il conflitto tra capitalismo e socialismo diventava esercizio retorico e propagandistico. Evocarlo serviva a dare stampelle a un regime avvantaggiato dalla rigidità iniziale di Washington e dal grande errore di Baia dei Porci. Cuba, con Fidel e Guevara, erano mito nell’immaginario di più generazioni di militanti per il socialismo e la liberazione dai mali del capitalismo. In realtà si trattava di un falso clamoroso. La popolazione soffriva, le ragazze, che ricevevano dal regime un vestito l’anno, istintivamente fuggivano col primo straniero che incontravano.
Il Che scambiava lucciole per lanterne con la sua teoria del focolaio che doveva incendiare in più punti l’America Latina, pagando l’errore con la vita. Fidel tiene in piedi un regime liberticida, con la popolazione ai margini dello sviluppo economico e sociale che, con la globalizzazione, investe un po’ tutti i paesi del continente. L’America latina troverà un minimo di benessere e un po’ meno di ingiustizia grazie a riformismo e dialogo sociale, Cuba è lì che aspetta.
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Vengono, dalla riflessione sulle contraddizioni del castrismo, elementi utili alla lettura della fase attuale della politica internazionale, in particolare se si tiene conto dell’evoluzione del trinomio sviluppo, democrazia, cristianesimo.
Nel tempo bipolare democrazia e crescita economica erano spacciati in occidente come unicum sul quale i popoli erano chiamati a giocarsi il futuro. Si affermava che non potesse esservi democrazia senza sviluppo né viceversa, così come si affermava che la libertà d’impresa fosse presupposto ideologico e morale di democrazia e benessere.
Le affermazioni sono state smentite da fatti clamorosi. Il più importante miracolo economico dei nostri tempi è l’uscita dalla miseria della sterminata popolazione cinese e l’affermazione della Cina come potenza economica proiettata verso lo status di prima potenza economica e tecnologica da qui a massimo quindici anni. E’ un processo governato dal regime dispotico del partito comunista dove il mercato ha ben poco a che spartire con i concetti liberali di un Adam Smith, con lo stato che occupa ogni settore economico strategico. La continuità di quel regime è sostenuta anche dai trilioni di dollari del credito sovrano che ha acquistato, con gli interessi, dal Tesoro degli Stati Uniti. Al tempo stesso la più vasta e importante democrazia, una volta “guida del mondo libero”, mantiene l’alto tenore di vita e di armamento che la caratterizza grazie al sostegno del dispotismo cinese che ne compra il debito sovrano.
In questo contesto la tensione verso la democrazia universale perde vigore e si affloscia, come un aquilone che perda il vento che gli abbisogna per volare. Non ha più vento nelle vele neppure il concetto di sviluppo come lo abbiamo conosciuto nel Novecento. Infatti la finanziarizzazione dell’economia e la bipartizione che ne è conseguita in termini di distribuzione della ricchezza (in pochi hanno troppo, in troppi hanno poco), v. mio articolo del 13 febbraio 2016, pur consentendo l’uscita da povertà endemiche di altissimi numeri di persone, ha infragilito le strutture economiche di molte nazioni e di moltissimi bilanci familiari in ogni parte della Terra. Il che, come in più occasioni si è qui scritto, non è l’ultima delle cause dei cosiddetti populismi che vanno ammorbando l’aria della politica internazionale, attraverso la salita al potere di nuove élite, di ispirazione nazionalista, razzista, esclusivista.
Cuba ha provato, sinora senza molto successo, a percorrere un cammino simile: mantenere al potere la sua casta dando alla gente un minimo di benessere. Difficile che funzioni, e possibile che l’isola caraibica sia una delle prime pedine di scambio nel dialogo tra il presidente eletto Donald Trump e Vladimir Putin.

Il cristianesimo, in particolare con la dottrina di papa Bergoglio, che per questo viene da taluni tacciato di essere un mascherato esponente della “teologia della liberazione”, se non un “comunista”, rivendica per gli uomini, in linea con il messaggio dei vangeli, e democrazia e sviluppo. Per farlo, causando devastanti orticarie a molti ambienti cattolici in particolare negli Stati Uniti, denuncia il denaro e la finanza come nemico di ambedue, un elemento satanico della storia umana che genera sfruttamento e guerre, vero impedimento all’avvento delle libertà umanistiche e socio-economiche.
Dice Bergoglio, intervistato dall’emittente dei vescovi TV2000: “Il nemico più grande di Dio è il denaro. Perché il denaro è l’idolo, in questo mondo sembra che comandi. … Il diavolo sempre entra per le tasche”.
Contrariamente alle premesse sulle quali aveva fondato il suo movimento, Fidel Castro non è riuscito a far funzionare il binomio democrazia e sviluppo. In morte al suo paese non lascia né l’una né l’altra. In quanto al cristianesimo, fallita la consegna trotskyana di garantire al proletariato il “paradiso” in questa vita, Castro ha provato a strumentalizzare gli incontri di tre papi con la realtà cubana. Difficile che l’effetto di quegli incontri garantisca sopravvivenza politica ai suoi eredi.
Raúl Castro, attuale presidente cubano, ha salutato la morte del fratello con il grido di vittoria che Fidel amava: “Hasta la victoria siempre”. La verità è che Fidel ha perso la sua battaglia con la storia, che ha ammainato la sua bandiera, come già fece con quella dell’alleato sovietico. E’ giusto che si andata così
Il dittatore scomparso, in preda alla sindrome di David, tentò di rendere irreversibili le tensioni tra superpotenze degli anni di guerra fredda, utilizzando anche il megafono di Che Guevara per rendere Cuba il “centro della crisi mondiale tra potenze”.
Nella crisi che si sviluppò tra agosto e ottobre del 1962, Krusciov ci mise del suo, ma risulta che fosse soprattutto Castro a soffiare follemente sul fuoco. I resoconti moscoviti ufficiali delle riunioni al vertice di quei giorni, resi pubblici nell’ottobre 2003, raccontano di un Castro infuriato per la rinuncia sovietica a proseguire il montaggio delle rampe missilistiche e ad armarle con testate nucleari. Appare, da quei documenti, che il dittatore cubano volesse lo scontro nucleare con gli Stati Uniti. A verbale, il presidium, nella riunione del 16 novembre 1962, dice di Castro: “E’ irragionevole, è come una gazzarra. A questo punto o collabora, o ritiriamo i nostri soldati”.
Si ammetterà che il mondo, quando cadono certe bandiere, emetta istintivamente un sospiro di sollievo, benché pronto a riconoscere a chi muore il positivo che ha generato in vita, nella consapevolezza che i successori potrebbero essere persino peggiori.