Martin Wolf ha scritto su Financial Times un preoccupato articolo sulla rivolta degli “umiliati e offesi” del mondo contro le aristocrazie del denaro e del potere. Alla radice del malessere che da un decennio sta gettando radici ovunque, le differenze esponenziali, cresciute nella globalizzazione, tra i troppo tutto e i troppo niente. Il recente rapporto OXFAM informa che in questo nostro mondo 80 persone detengono una ricchezza pari a quasi $2 trilioni. La follia sta nel fatto che quella massa di denaro equivale a quanto possiedono i 3 miliardi e mezzo di persone più povere al mondo. Il rapporto è fuori da ogni senso morale della storia ma anche fuori da ogni razionalità, tanto da non poter essere rappresentato graficamente su questo giornale: il puntino dei ricchi risulterebbe invisibile all’occhio, proprio come risulta incomprensibile e “in-visibile” alla mente economica.
Attenti, andrà sicuramente peggio, e molto presto a sentire Oxfam: l’1% più ricco della popolazione mondiale si appresta a detenere più ricchezza di quella che tocca al restante 99% degli esseri umani. Attualmente quell’1% è “solo” al 48%, ma con la velocità con cui la sua bulimia gli fa ingurgitare ricchezze, questione qualche mese e salirà oltre il fatidico 50%. L’istituto mondiale di charity aggiunge che la crescente diseguaglianza sta facendo perdere posizioni alla lotta contro la povertà globale, quando 1 miliardo di persone campa con meno di $1,25 al giorno. L’1% di cui sopra, si gode una ricchezza media per adulto di $2,7 milioni.
Quanto accaduto con il nuovo secolo, è illustrato con sufficiente crudezza dal grafico di sintesi prodotto da Oxfam con Credit Suisse e Forbes, presentato al recente incontro di Davos. Dal 2000 al 2013 la ricchezza complessiva degli 80 paperoni mondiali non ha mai superato quella del 50% globale più povero, anzi dal 2002 (quando le due posizioni si incontrarono intorno alla massa di $750 miliardi), i più derelitti riescono a polarizzare più benessere relativo e quindi a restringere la forbice dai troppo ricchi. La rincorsa (chiamiamola così) raggiunse il picco nel 2011 quando la ricchezza del 50% più povero giunse a superare $2.500 miliardi e il gruppo degli 80 non sapeva superare quota 1.500. Poi il crollo delle posizioni dei maggiormente poveri e la lenta ma a questo punto inarrestabile salita degli 80 (iniziata nel 2009, dopo il pesante crollo del 2008) arrivati, dal 2014, a incamerare più ricchezza del 50% più povero dell’umanità.
La crisi del 2008 colpisce ricchi e poveri, ma il denaro distribuito dagli stati alle banche, prima negli Usa poi, in misura minore, in Europa, favorisce la speculazione e gli arricchimenti paradossali dei già troppo ricchi. Vanno in crisi i modelli di sviluppo di quei paesi, su tutti il Brasile, che avevano fatto gridare al miracolo dei Bric (Brasile Russia India Cina) anche perché cominciano a scendere i corsi di materie prime energetiche e non. Amministratori e alti dirigenti di grandi aziende (nel Regno Unito, i manager più pagati arrivano a stipendi che superano 183 volte quelli medi dei lavoratori a tempo pieno), alti burocrati di stato e di aziende pubbliche, rastrellano come possono aumenti vertiginosi di retribuzioni e fringe benefit. Le privatizzazioni fanno il resto. L’insorgenza degli islamisti e gli agguati del terrorismo, le grave crisi che si aprono in Ucraina e in Medio Oriente, i rinnovati rischi nucleari che arrivano da Iran e Corea del nord, il drammatico bisogno di uscire dalla recessione pompando risorse finanziarie e turando occhi e naso di fronte alla speculazione, fanno passare in secondo piano il quadro economico globale della crescita vertiginosa delle ineguaglianze. A bilancio, oggi, abbiamo il disastro della ripresa delle povertà mondiali, della maggiore polarizzazione delle ingiustizie, dell’incepparsi del sistema economico guidato da leadership incapaci viziate e arraffone.
Il signor Mario Draghi, dalla piramide dei lauti compensi sulla quale è accomodato, proclama un giorno sì e l’altro pure l’opportunità di generare un pizzico d’inflazione che unga le ruote dell’industria. Ma con quali soldi la gente dovrebbe prestarsi all’esigenza di banchieri e capitani d’industria? La deflazione è la paradossale ultima spiaggia dietro la quale si rifugia, visto che gli stipendi non aumentano anzi spesso diminuiscono, manca il lavoro per genitori e figli, non si fa credito e anzi i risparmi vengono assottigliati dal gioco spietato di molte banche verso i correntisti. Ovvio che stare a pelo di deflazione, alla lunga inclinerà il piano economico verso la recessione, ma se non si sposta ricchezza verso chi ha perso potere d’acquisto, la crescita dei consumi possiamo scordarcela. E generare artificialmente inflazione getterebbe indietro consumi finalmente in parziale ripresa, creando deflazione e recessione serie stavolta!
Non è che serva un genio per tirare fuori il mondo dal buco nero nel quale è stato cacciato nel recente decennio. Come Oxfam ha scritto e Wolf sembra condividere nell’articolo, bisogna far pagare più tasse a chi ha accumulato troppo cominciando con gli evasori, e garantire un salario dignitoso a chi lavora. Aggiungo che non basterà in questa situazione. Servirà che lo stato riprenda il coordinamento dell’economia e assuma politiche attive del lavoro, sussidiando per il minimo indispensabile, nelle fasi di attesa, chi il lavoro non ce l’ha. Chi ha troppo di tutto capisca che occorre invertire la tendenza, o siano gli stati a imporre detta comprensione.
Ha ragione Wolf quando scrive: “Losers have votes, too… If they feel sufficiently cheated and humiliated, they will vote for Donald Trump … Marine Le Pen … Nigel Farage… There are those, particularly the native working class, who are seduced by the siren song of politicians who combine the nativism of the hard right, the statism of the hard left and the authoritarianism of both. Above all, they reject the elites that dominate the economic and cultural lives of their countries … Elites need to work out intelligent responses. It might already be too late to do so”.
Il ragionamento di Wolf si inscrive nel solco di quanto l’economista della Columbia University e premio Nobel Joseph Stiglitz sostiene da tempo: la crisi e le sue perfide conseguenze non sono opera degli astri, ma di uomini, governanti ed élite, che l’hanno voluta e pilotata: ed è vero in particolare negli Stati Uniti, aggiunge lui. L’errore, se non il vero e proprio inganno, è iniziato con Thatcher e Reagan ed è proseguito con tutti coloro che hanno dato ad intendere che il denaro dato in premio dal cosiddetto mercato ai capaci di arraffarlo, sarebbe andato a vantaggio di tutti. Si è dimostrato fasullo l’assioma secondo il quale arricchire ulteriormente e senza limiti i già ricchi sarebbe stato un bene per i più poveri.
Da decenni Stiglitz riflette sul perché il paese più ricco del mondo risultasse portatore di forti disuguaglianze. Oggi si chiede come mai sia diventato il più ingiusto di tutti su questioni come reddito, patrimonio, istruzione, salute, aspettative di vita, accesso alla giustizia. Qualche risposta la dà Wolf nel suo articolo quando, riprendendo uno studio dell’Economic Policy Institute di Washington, ricorda che, dalla metà degli anni ’70, agli aumenti di produttività delle imprese statunitensi non ha fatto seguito l’aumento della retribuzione dei lavoratori: alla radice una “complex mixture of technological innovation, liberal trade, changes in corporate governance and financial liberalisation” e soprattuto un fatto “unquestionable”, ovvero che negli Usa come, in misura minore altrove, i frutti della crescita si sono concentrati “at the top”. Il 90% di chi stava più in basso, dai tempi di Reagan non ha goduto nessun aumento di reddito, e così oggi il campione mondiale della democrazia assegna all’1% della popolazione il 42% della ricchezza nazionale (dati 2012, università di California Berkeley).
A Stiglitz si potrebbe rispondere che, pur non raggiungendo l’ingiustizia del capitalismo statunitense, la prima potenza comunista al mondo, la Cina, non scherza, assegnando 1/3 della ricchezza all’1% più ricco della popolazione (studio dell’università di Pechino), e l’1% al 25% più povero, alzando il coefficiente Gini dallo 0,3 degli anni ’80 allo 0,49 del 2012. Per la Banca Mondiale collocarsi sopra 0,40 significa avere una società con forti diseguaglianze di reddito. Per la cronaca, Sud Africa e Brasile sono rispettivamente a 0,63 e 0,53, Usa a 0,41, Germania a 0,3, Svezia e Danimarca tradizionalmente sotto 0,3.
Valgano le parole con le quali Martin Wolf chiude il suo articolo: “Democracy means government by all citizens. If rights of abode, still more of citizenship, are not protected, this dangerous resentment will grow. Indeed, it already has in too many places”.