Tutti coloro che hanno guardato con raccapriccio o peggio al risultato elettorale statunitense (sono tra quelli), devono fare i conti con due questioni: perché e come sia potuto accadere, come si comporterà da gennaio il nuovo presidente.
Alla prima domanda si può rispondere in mille modi. Vorrei rinviare a quanto scrivevo lo scorso 12 giugno su LaVoce, muovendo dai risultati della ricerca sul populismo di Jakob Schwörer, università di Bonn, curata dalla Fondazione Nenni. Chiedevo alle élite rispetto per il termine “popolo” e mettevo in guardia dal certo quanto contundente rinculo degli eccessi di demonizzazione del cosiddetto populismo. Aderivo anche alla teoria, ripresa da Schwörer, sull’elettorato thin centered, e sulla facilità con la quale demagoghi e contafrottole riescono ad ingannarlo. Concludevo il pezzo così: “Né si sfugge alla dimensione del rischio: lo capiranno molti elettori americani quando, pur deliziati e fascinati dal personaggio Donald Trump, si chiederanno, al momento del voto di novembre, se potranno continuare a dormire tranquilli da gennaio, sapendo che quel signore azzimato e bizzarro che vorrebbero eleggere, avrà sempre a portata di mano la valigetta nucleare, col bottone del doomsday a disposizione”. Deduco dal voto di martedì 8 che quel quasi quarto di americani che ha scelto The Donald, passi già notti insonni e quindi non le tema, o ama le emozioni forti, gettarsi in gola il cuore come sull’ottovolante.
Tra gli elettori di Trump ritrovo i tanti che mi hanno detto di voler comunque il nuovo e lo sparigliamento delle bocce ferme: una sorta di melting di estremi comunque arrabbiati. Ma penso che la maggioranza dei pro Trump abbiano inteso castigare Obama, giudicando negativamente il suo record. L’appoggio della coppia presidenziale, terrorizzata dal rischio di veder trucidata dall’avvento di Trump alla Casa Bianca la tela della legacy del primo afroamericano presidente, avrebbe di fatto danneggiato il rush finale di Hillary. Chi ha votato Trump, insomma, aveva le sue ragioni.
Si leggano le parole di Peter Cohen, nell’intervista a firma Federico Fubini uscita l’11 sul Corriere della Sera. Cohen, 70 anni, imprenditore di successo e di casa a Wall Street, concorda che maschi e bianchi, in particolare i colletti blu dei declinanti Michigan, Pennsylvania e Minnesota, si siano schierati con Trump, ma aggiunge che, più di Romney, il tycoon abbia attirato il voto di donne e latinos. “La gente è fuori di sé dalla rabbia in questo paese ed è disposta a scommettere sulla base di un istinto di pancia, piuttosto che avere altri quattro anni in stile obamiano”. Va nei dettagli: “Il voto è un ripudio degli ultimi otto anni. I posti di lavoro persi, gli errori di politica commerciale, di sicurezza nazionale, sulle tasse, la sanità”. E via con dettagli sul costo esorbitante della riforma sanitaria per i singoli, fatta eccezione per chi sta dentro un piano aziendale, sulle cifre vere di occupazione e disoccupazione, quest’ultima collocata da Cohen fra il 15 e il 18%, con 48 milioni di persone che prendono voucher del governo per il cibo.
Detto questo, Trump ha vinto anche perché ha spaccato le gambe all’avversaria, cosa ancora più grave visto che si trattava di una signora. Ma davvero si poteva chiedere ad un’America ancora così razzista e misogina, di portare una donna alla Casa Bianca dopo otto anni di negritudine?
Abbiamo visto una campagna odiosa e unfair, con un linguaggio a tratti squallido e da taverna. Anche per questo lascia sul campo risentimenti e malanimo, con fratture (colorati-bianchi, anziani-giovani, stati del mid e stati delle coste, città-campagna, ceti colti-ceti incolti, etc.) come non se ne vedevano in America dai tempi del Vietnam. La responsabilità appartiene a Trump: è lui che ha coagulato fattori che non promettono molto di buono per i prossimi anni. Clinton aveva proposto di portare “amore e gentilezza” in un paese da sempre troppo duro, di “unire” una società più divisa di sempre. Gli stati federati hanno scelto il futuro muscolare e armato proposto da Trump. Aprovecha, dicono i latinos.
Peraltro, nessuno si scandalizza più di tanto, visto che gli Stati Uniti, in politica come nello sport, sono abituati a stili maschi e colpi bassi. Chi può dimenticare il linguaggio infimo di un grande presidente, Richard Nixon, disvelato dalle registrazioni del Watergate? Però, apprendere che i russi abbiano sostenuto a spada tratta l’eletto presidente, intervenendo in campagna elettorale, non è notizia usuale e da assumere alla leggera. Così leggere che 1/3 dei tweet pro-Trump siano stati generati da macchine (collocate in Russia), e che gli account maggiormente distintisi in messaggi pro Trump siano stati originati dal territorio russo. E’ un fatto che Putin si sia subito complimentato con l’eletto, e che il viceministro degli esteri Sergei Ryabkov abbia affermato esserci stati, in campagna, contatti continui con il team del candidato repubblicano. Il viceministro ha testualmente affermato: “Conosciamo buona parte del suo entourage, persone che hanno ricoperto incarichi di grande importanza”, aggiungendo che i rapporti proseguiranno e saranno probabilmente intensificati e allargati.
Da censurare anche il comportamento del repubblicano James Comey, direttore di Fbi. Il 28 ottobre aveva annunciato la nuova inchiesta su emailgate, comunicando di dover esaminare un numero paradossale di messaggi. Quarantott’ore prima del voto dirà che è tutto a posto. In mezzo la rampogna di Obama e la convinzione di moltissimi che il potere abbia dirottato le indagini. Giocare maschio e vincere passi, commettere gravi scorrettezze contro l’avversario comporta l’espulsione, altro che vittoria!
***

E comunque Hillary ha preso più voti popolari di Trump. Il che dovrebbe consigliare ai democratici, per battere i repubblicani alle elezioni di mid term e uscire dalle macerie della sconfitta totale nella quale sono stati cacciati dal duo Obama-Clinton, di scegliere come nuovo leader una figura che sappia unire non tanto il partito quanto gli elettori nell’alternativa a Trump, in particolare se il presidente, come fanno temere tutte le dichiarazioni rilasciate all’indomani dell’elezione, intendesse tener fede ai pericolosi propositi manifestati in campagna elettorale.
Resta la speranza di un altro scenario, quello abbozzato da Joseph S. Nye, lo scorso aprile, in una conversazione col giornalista di La Repubblica, Maurizio Caprara. L’ex coordinatore del National Intelligence Council sosteneva che Trump presidente sarebbe stato costretto ad apprendere velocemente che le sue proposte elettorali erano “impossibili e pericolose”, aggiungendo che l’uomo, pur dicendo “cose stupide”, “non è stupido”, e sa cambiare idea: “Talvolta cambia idea dieci minuti dopo aver parlato. È un pragmatico”.
Il fatto è che se i russi si stropicciano le mani immaginando la riedizione del bipolarismo e delle sfere di influenza, gli altri poli del sistema internazionale, Cina ed Europa, manifestano preoccupazioni. Il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha osservato che il mondo butterà i prossimi due anni in attesa che Trump inizi a capire qualcosa di come gira la politica internazionale. E’ l’avvisaglia di come i rapporti atlantici soffriranno, e del rischio che venga lesionato, sul piano culturale oltre che politico ed economico, il rapporto storico che lega Europa e nord America. Trump ha espresso in ogni occasione disdegno verso la NATO, trattando l’unico strumento multilaterale di sicurezza esistente, peraltro a indiscussa leadership statunitense, col bilancino del farmacista: chi non paga il dovuto non si aspetti aiuto in caso di bisogno. Il presidente in pectore, mentre ha interloquito immediatamente con i capi di stato e di governo di paesi membri dell’UE, non ha risposto alla lettera, a firma congiunta del presidente della Commissione e del presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, che lo invitava a Bruxelles per la reciproca conoscenza. Un gesto che non è dato sapere se esprima più arroganza o ignoranza, comunque inaccettabile e irriguardoso verso rappresentanti della sovranità popolare europea (Juncker riceve il mandato dal Parlamento Europeo eletto, Tusk dai capi di stato e di governo dei 28).
Vi è, in questi atteggiamenti, lo sprezzo per il multilateralismo, ma anche la conferma della scelta di campo del presidente designato. Se, come ha fatto capire, a Trump piace la cultura politica dei Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdogan, Rodrigo Duterte, non può guardare con favore a una società come quella della “Venere” europea che ha scelto il welfare contro il warfare, e che all’idea di democrazia non ha nessun’intenzione di associare il concetto di uomo forte solo al comando. L’Europa non ama l’America della pena di morte e delle armi libere (Trump le vuole anche in uffici e chiese!), che coccola despoti e dittatori più o meno mascherati purché non interferiscano con i suoi piani di potenza, che non collabora alla salvaguardia dal riscaldamento climatico in un pianeta che sporca più e peggio di ogni altro paese, che sta fuori dalla Corte penale internazionale. Trump è la quintessenza di quell’America.
Si badi. Il paradossale distacco dell’Europa dall’ombelico americano potrebbe risultare persino salutare per il vecchio continente, finalmente libero di sviluppare le sue industrie, a cominciare da quelle militari, e la sua finanza, senza i limiti della tutela cooperativa statunitense: ad esempio l’Unione Europea potrebbe veleggiare verso un modello di effettiva difesa autonoma, con vantaggi enormi sulla sua prospettiva federale. Ma più probabilmente, soprattutto alla luce di certi cambiamenti di governo prevedibili in diversi paese chiave d’Europa, si potranno innescare processi di divisione nella compagine UE, con il peggioramento del quadro complessivo del vecchio continente, aspetti di sicurezza inclusi. Tensioni potrebbero allora risvegliarsi nei Balcani e nel Caucaso, i paesi Baltici e l’Ucraina potrebbero trovarsi sotto la recrudescenza della pressione russa. E un settore strategico già sotto sconquasso come il sud Mediterraneo e il Medio Oriente, dirimpettai degli europei, non ne avrebbero certo a guadagnare in termini di stabilizzazione. Alla larga da questi scenari: qualcuno spieghi a Trump, che pure discende da famiglia tedesca, la complessità e la rilevanza della vecchia Europa.
Persino più preoccupante lo scenario che la dottrina trumpiana sulla Cina potrebbe aprire in Asia. Da un lato la situazione inquieta del Pacifico: espansione del potere cinese, riarmo generalizzato (incluso il Giappone, la cui costituzione “pacifista” è sottoposta a revisione), nervi tesi e scontri sempre possibili per le rispettive sovranità su isole e piattaforme continentali, complessa transizione in Thailandia aggravata dalla morte del venerato re, build-up nucleare in Corea del nord, nuova presidente di Taiwan su posizioni attivamente indipendentiste che sta riarmando per 2 miliardi di dollari con navi e materiali statunitensi.
Dall’altro il progetto di Trump per il Pacifico così riassumibile: guerra commerciale alla Cina, contenimento strategico della Cina da condividere con la Russia, rinuncia al multilateralismo commerciale del Pacifico (con prospettive politiche) disegnato da TPP Trans-Pacific Partnership.
Dato per scontato che se gli Stati Uniti alzano barriere tariffarie del 45% sui prodotti cinesi, rovinano le proprie esportazioni in Cina e le multinazionali statunitensi che lì hanno delocalizzato, qualcosa di grosso potrebbe anche succedere alla massa di debito americano ora nei forzieri del credito sovrano cinese, 1,17 trilioni di dollari. La questione dovrebbe stare molto a cuore al Segretario al tesoro della prossima amministrazione, visto che, conscia che negli ultimi dieci anni la quota in dollari del credito sovrano cinese fosse scesa dal 74% al 54%, Washington ha da qualche tempo concesso a Pechino il privilegio di acquisti diretti senza intermediari e senza “pubblicità” via banche.
A parte queste obiezioni alla faciloneria ingannevole con la quale Trump ha raccontato al ceto medio americano che avrebbe sbarazzato il campo dalla concorrenza dei prodotti cinesi (si vedano le considerazioni sul “disastro” annunciato di Jack Ma, potentissimo presidente di Alibaba ) ben più seria è la questione strategica che si verrebbe a creare in EurAsia e Pacifico se Trump dismettesse il tradizionale “accompagno benevolo”alla potenza sorgente, che da Nixon in poi Washington ha esercitato nei confronti di Pechino.
Occorre piuttosto reagire alle manifestazioni non cooperative nei confronti degli Stati Uniti, che Pechino e Mosca hanno manifestato negli ultimi tempi, aprendo un’offensiva diplomatica multilaterale che ristabilisca fiducia nel rapporto tra le potenze. Proprio ciò che sembra essere fuori dalla dottrina Trump. Eppure i fatti che spingono nella direzione opposta non mancano.
Mosca ha sospeso il trattato con gli Stati Uniti per la riduzione di plutonio negli ordigni nucleari. Ha comportamenti aggressivi con le vicine Ucraina e Georgia. Dispiega ai confini baltici 3 divisioni motorizzate e circa 60.000 uomini, organizzando a seguire esercitazioni comprensive di sfondamento sul Baltico e occupazione delle tre repubbliche. Installa a Kaliningrad (enclave tra Polonia e Lituania) missili Iskander-M, abilitati al trasporto di testate nucleari: con gittata 700 chilometri, hanno Berlino sotto tiro. Organizza con i cinesi, subito dopo la decisione del tribunale del Mare che ha dato torto alla Cina per le rivendicazioni territoriali in zona, “Sinergia marittima 2016”, esercitazioni aeronavali congiunte nel mar Cinese Meridionale, finalizzate al “rafforzamento della partnership strategica, approfondimento pratico della cooperazione, consolidamento della capacità di rispondere alle minacce alla sicurezza in mare”. Nel maggio 2015, Putin aveva portato in mar Nero e Mediterraneo i vascelli della marina cinese, mai prima esercitatasi a tanta distanza dalle acque territoriali della Repubblica Popolare. Tre mesi dopo le due marine avevano realizzato esercitazione congiunta nel golfo di Pietro il Grande, sotto Vladivostok, con 22 unità di superficie, una ventina di mezzi aerei, un bel numero di effettivi da sbarco.
***
A chi lo rimproverava di cambiare idea, John Maynard Keynes rispose: “Quando i fatti cambiano, cambio idea. Lei che fa, signore?”.
A meno che, come chiedono le migliaia di irriducibili che protestano nelle città americane, i grandi elettori non compiano il grande ribaltone della politica interna statunitense, aprendo, allora sì, una crisi senza precedenti nel sistema politico, a meno che Clinton non vada fino in fondo con le sue accuse al capo FBI che le avrebbe tolto la vittoria con la storiella delle email; in gennaio Trump giurerà da presidente sulla costituzione. Disponendo di maggioranza in ambedue le Camere, nominando alla Corte suprema persona di suo gradimento al posto del seggio lasciato vacante da Antonin Scalia, almeno nel suo primo biennio di presidenza, Trump avrà tutti i poteri per realizzare il suo programma e rivoltare l’America e il mondo come da sue intenzioni.
Dovrà vedersela con un’America divisa e umiliata, quella di chi ha perso le elezioni, e con un’altra arrabbiata che gli chiederà presto conto delle tante promesse fatte. La posizione assunta dal sindaco di New York Bill de Blasio, con il rifiuto di consegnare la banca dati con l’identità di 850 mila immigrati illegali, fa intravvedere sin dove si potrà spingere il conflitto istituzionale.
Intanto, in un altro angolo d’America, il Ku Kluk Klan si appresta a marciare in parata per celebrare degnamente i fasti della grande era che si sta per aprire.