“In relazione a un caso separato, l’FBI è venuta a conoscenza di mail che sembrano pertinenti all’indagine […] ho dato il mio consenso affinché si proceda ai successivi passi investigativi per permettere agli agenti di rivedere tali mail e determinare se contengono materiale classificato”.
È con queste parole, contenute in una lettera rivolta al Congresso, che il direttore dell’FBI James Comey ha riacceso i riflettori su Hillary Clinton e sulla storia infinita dell’emailgate, cioè sulla impropria gestione della corrispondenza elettronica della candidata democratica quando ricopriva il ruolo di Segretario di Stato.
La lettera è un’autentica bomba, esplosa all’improvviso in un tranquillo venerdì di ottobre a meno di undici giorni dal fatidico election day. E ha colto di sorpresa tutti: dalla Casa Bianca allo staff di Hillary ormai certo della vittoria fino a Donald Trump, passando ovviamente per i media di tutto il mondo, costretti a resuscitare in prima pagina un caso giudiziario che sembrava essersi chiuso a luglio e a rispiegarlo per l’ennesima volta al pubblico.
Questa volta l’FBI si è imbattuta in una serie di mail della ex Segretario di Stato per puro caso nel corso delle indagini condotte su Anthony Weiner, uno dei politici americani più chiacchierati degli ultimi anni, in passato deputato del partito democratico e candidato sindaco di New York nel 2013. Protagonista di un’infinita serie di scandali sessuali che ne hanno distrutto (a ragione) la reputazione, Weiner era sotto torchio, tanto per cambiare, per aver molestato on line una quindicenne, ma mentre l’FBI scandagliava la sua corrispondenza elettronica è spuntato anche materiale che riguarderebbe Hillary. Il perché è presto detto: la moglie di Weiner, dalla quale si è tra l’altro separato poco tempo fa, è infatti Huma Abedin, da anni ai vertici dello staff della Clinton, i cui dispositivi erano ovviamente monitorati dagli agenti.
Per la ex first lady si tratta di un bel pasticcio, e ora i commentatori cominciano già a chiedersi quanto gli immediati sviluppi della questione possano incidere sulle sue ancora altissime chance di vittoria l’8 novembre. Guardando alla media degli ultimi sondaggi nazionali, i quali ancora non risentono a pieno dell’effetto emailgate, il vantaggio di Hillary si aggira intorno al 4,4 %, mentre appena due settimane fa aveva raggiunto il 7,1 %. Negli swing states la situazione continua a favorire la candidata democratica, la quale mantiene una solida guida in Pennsylvania, Michigan, Virginia e Colorado. I due aspiranti inquilini della Casa Bianca rimangono poi in sostanziale pareggio sia in Florida sia in Ohio, con Trump di poco indietro in Nevada.
In generale, nelle ultime settimane il crollo del tycoon era stato tragico: travolto da nuove accuse di molestie, abbandonato da influenti donatori, utili consiglieri (come l’ex CEO di Fox News Roger Ailes) e ampi pezzi del Grand Old Party, il tycoon pareva ormai alla frutta e aveva dovuto dirottare le ultime risorse in un pugno di stati, abbandonando contesti in cui era in passato competitivo.
Sulla scìa della crisi del magnate i democratici sono arrivati persino a sperare di vincere stati da decenni saldamente in mano repubblicana come l’Arizona e il Texas.
Insomma alcuni ritengono che le conseguenze della lettera di Comey non scalfiranno il raggiungimento dei 270 grandi elettori necessari alla vittoria di Hillary, ma è un fatto che la Clinton (email o meno) abbia comunque bisogno in questo rush finale di affiancarsi a figure popolari, come Michelle Obama (apparsa per la prima volta al suo fianco in un comizio giovedì in North Carolina o Joe Biden (il quale pare essere in lizza per il ruolo di Segretario di Stato) per superare quel gap di popolarità che la perseguita.
Di certo l’ultima bomba lanciata da Comey da una boccata di ossigeno a Trump, che ha infatti attaccato senza esitazioni: “è la più grossa indagine dai tempi del Watergate e la speranza di tutti è che si faccia giustizia” ha affermato durante un comizio in Iowa, lodando poi l’operato dell’FBI, fino a poco tempo fa criticato aspramente per come aveva condotto la passata inchiesta.
La squadra di Hillary è al contrario insorta contro Comey, avanzando dubbi sulla tempistica del suo annuncio e pretendendo di avere “piena e completa conoscenza dei fatti”. La Casa Bianca ha invece ha deciso di non intromettersi, mantenendo un corretto ma assordante silenzio istituzionale.
In ogni caso, a prescindere dalle ovvie strumentalizzazioni politiche da una parte e dall’altra il capo dell’FBI, repubblicano nominato da Obama tre anni or sono, continua a essere al centro di un fuoco incrociato e attraversa un frangente difficile della sua carriera. In quello che sembra un reiterato tentativo di non scontentare nessuno, da luglio in poi Comey ha assunto un atteggiamento ambiguo, prima assolvendo la Clinton da qualsiasi accusa (salvo poi criticarne in diverse occasioni l’operato) e ora riaprendo un’indagine ma chiarendo al tempo stesso di non sapere se il materiale ritrovato sia rilevante ed evitando di fornire delle scadenze in cui terminare le verifiche al riguardo (quasi a volersi autoassolvere nel caso di un ennesimo buco nell’acqua).
La genericità delle affermazioni di Comey è sconcertante e appare al momento impossibile verificare con certezza se dietro questo inaspettato colpo di coda si nasconda qualcosa di realmente grave dal punto di vista giudiziario.
Una cosa è tuttavia fuor di dubbio: l’ultima settimana prima del voto terrà tutti con il fiato sospeso.
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