Helene Stapinski è una scrittrice italo-americana autrice di best-seller che raccontano le sue origini italiane e la storia della sua famiglia. Dopo aver scritto della Jersey City criminale in Five-Finger Discount, si è occupata della sua trisnonna, Vita Gallitelli, emigrata negli Stati Uniti a fine Ottocento dopo aver commesso un omicidio nel suo paesino d’origine, in Basilicata. Murder in Matera è quindi una storia vera che procede come un romanzo investigativo, una ricerca appassionante su un segreto rimasto nascosto per oltre un secolo che permette al lettore di viaggiare nel tempo, in un Sud Italia che sembra lontano soltanto in apparenza, ma che si rivela estremamente attuale.
Vorrei cominciare parlando un po’ delle tue origini italiane e del tuo rapporto con la cultura italiana.
“Sono americana di quarta generazione, a casa non parlavamo italiano anche se mia madre cucinava italiano. Mi piacerebbe parlarlo, infatti sto prendendo delle lezioni. Ho cominciato quando ero al college e ho ripreso circa quindici anni fa quando ho iniziato le ricerche per il mio primo libro. Ho avuto la possibilità di studiare a Siena durante il college. Non ho parenti in Italia, non sapevo nulla del Paese. Non ero mai stata in Europa, vengo da Jersey City, da una famiglia della classe operaia, piuttosto povera, perciò a parte la Florida non ero mai andata da nessuna parte. Arrivata a Siena rimasi scioccata dalla bellezza della città e dell’Italia in generale. Era come un sogno. Non sapevo neanche che la mia famiglia venisse dalla Basilicata, pensavo fossero di Napoli perché è da lì che si sono imbarcati per gli Stati Uniti”.
Molti qui negli USA quando pensano all’Italia hanno in mente soprattutto Napoli, o la Sicilia.
“Sì, non sapevo nulla. Ora la Basilicata è più famosa per via di Matera che è stata Capitale Europea della Cultura, ma dieci anni fa qui era praticamente sconosciuta. Ci sono andata per la prima volta quindici anni fa quando ho scritto il mio primo libro (Five-Finger Discount: A Crooked Family History, ndr), che è stato un best-seller. Poi ho scritto un altro libro sulla mia esperienza come batterista (Baby Plays Around: A Love Affair, with Music, ndr), così il mio agente mi ha proposto di scrivere dell’omicidio commesso dalla mia trisnonna, Vita Gallitelli, un episodio che avevo menzionato in Five-Finger Discount. Pensai che fosse una bella idea e che sarei potuta andare in Basilicata alla ricerca di questo delitto”.
Ci arriviamo subito, ma prima volevo saperne di più sul contesto in cui sei cresciuta. Pensando al New Jersey, alla comunità italo-americana e alla criminalità ovviamente mi vengono in mente I Soprano…
“Uno dei motivi per cui il mio primo libro è andato così bene è perché uscì in contemporanea con la serie”.
So che molti italo-americani hanno un rapporto difficile con la serie per via della rappresentazione della comunità e degli stereotipi che vengono mostrati. Tu cosa ne pensi?
“Ho scritto anche io di questi argomenti e ho ricevuto parecchie critiche. Mi dicevano che non tutti gli italo-americani sono criminali ma nella mia famiglia lo erano quasi tutti, mio nonno lo era. Quando ho visto I Soprano la prima volta, l’ho trovato davvero realistico. A Jersey City conoscevo persone che erano esattamente così, senza esagerazioni o cliché. Mia madre è andata a scuola con tipi come Tony Soprano. Come giornalista mi sono occupata anche di criminalità organizzata e ovviamente non si può dire che gli italo-americani siano tutti criminali, ma allo stesso tempo non si può negare che alcuni di loro lo siano. Ho anche scritto un articolo per The Washington Post in occasione del ventesimo anniversario dei Soprano, così ho guardato la serie di nuovo in una settimana. È come uno splendido e lunghissimo film. Tragico, divertente, con personaggi magnifici. Quando l’ho finita non riuscivo crederci”.
Come autrice, hai qualche modello di riferimento tra gli scrittori italiani? Qualcuno da cui magari ti senti influenzata.
“Be’, adoro Carlo Levi, ovviamente. E poi Primo Levi, Italo Calvino. Credo che molti scrittori italiani tendano a scrivere in un modo molto elaborato, mentre il mio stile è parecchio lineare, con frasi molto semplici, come quello di Hemingway. Nella mia scrittura non c’è nulla di italiano, ma io amo comunque gli autori italiani”.
Pensi esista uno stile italo-americano? Una sorta di misto tra i due tipi di scrittura, o magari temi che vengono privilegiati? Ho notato, per esempio, che ci sono molti romanzi italo-americani che traggono spunto dalle storie di famiglia.
“Bella domanda, non saprei. Conosco molte autrici italo-americane, come Marianne Leone, che ha scritto un bel libro su sua madre (Ma Speaks Up: And a First-Generation Daughter Talks Back, ndr), oppure Juliet Grames che ha scritto di sua nonna (The Seven or Eight Deaths of Stella Fortuna, ndr), una storia simile a quella che ho scritto io ma romanzata. In effetti sì, quello delle vicende familiari sembrerebbe un argomento tipico di diverse autrici italo-americane. Gli uomini invece si concentrano di più sulla criminalità, penso a Mario Puzo o a Nicholas Pileggi”.
Pensi, quindi, ci sia una specie di separazione tematica tra autrici e autori?
“Io ho scritto di entrambe le cose! [ride] Un uomo una volta mi ha detto che non aveva mai letto un libro in vita sua, ma che aveva letto il mio libro in una sola notte, sul tavolo della cucina, con una bottiglia di scotch. È una delle cose più belle che ho sentito! Forse la mia scrittura attrae anche gli uomini, del resto da piccola ero un maschiaccio, odiavo acconciarmi e sono rimasta piuttosto semplice, magari questo si riflette su ciò che scrivo. Il mio stile non è per nulla infiocchettato o troppo sentimentale”.
Hai detto che conosci molte autrici italo-americane. C’è una rete molto attiva qui a New York?
“Prima che uscisse il mio libro non ci avevo mai pensato, anche perché qui a New York conoscevo persone da ogni parte del mondo. Poi ho cominciato a incontrare altri membri della comunità italo-americana, oltre a quelli con cui sono cresciuta, ed è lì che mi sono accorta di quanto la rete fosse numerosa. È una comunità intensa, si danno tutti una mano a vicenda. Joseph Sciorra, che gestisce gli eventi culturali al Calandra Institute, è una persona magnifica e mi ha messo in contatto con moltissimi altri autori italo-americani. Faccio parte della National Organization of Italian American Women (NOIAW) e ho partecipato a molte conferenze insieme a loro. È come se tutte queste donne siano in qualche modo parte della mia famiglia”.
Parliamo di Murder in Matera. Hai impiegato dodici anni a costruire e scrivere questo libro. Come ci hai lavorato?
“Io all’inizio pensavo che sarei andata in Italia e avrei trovato qualche lontano parente pronto a raccontarmi tutta la storia [ride]. Non è andata proprio così e di fatto il libro parla di questo. La prima volta ho trascorso un mese a Bernalda (il comune in provincia di Matera di cui la famiglia di Helene Stapisnki è originaria, e da cui proveniva anche il nonno del regista Francis Ford Coppola ndr), ma gli abitanti non erano molto amichevoli perché stavo facendo delle ricerche su quell’omicidio. Loro conoscevano la storia e sapevano che c’era anche dell’altro, che la mia trisnonna aveva avuto una relazione con più uomini. Forse questo li imbarazzava più dell’omicidio”.
Erano gelosi, in quanto comunità?
“Erano protettivi e non volevano sentirsi a disagio, ma si trattava della mia famiglia! Io ero arrabbiata perché si trattava della mia storia, ma in realtà quella storia era anche loro. Io non facevo parte della comunità, loro vivevano lì, erano rimasti. Chi va in America si lascia tutto alle spalle, poi invece sono arrivata io attirata da quella storia… Io sono una giornalista abbastanza decisa e sono andata lì con la pretesa di ottenere subito ciò che cercavo, perché in America è così che si fa. In Italia invece devi prima conoscere le persone, prendere un caffè insieme, andare a cena. Devi andarci piano, perché i ritmi lì sono diversi. Io sono stata troppo brusca e la gente voleva che me ne andassi. Una donna, che nel libro chiamo Miserabila, mi ha urlato contro “Tornatene in America e lascia in pace i morti!”. Così me ne sono andata ed ero furiosa, perché non avevo trovato nulla. Dovevo scrivere quel libro ma i miei figli all’epoca erano piccoli e non potevo tornare subito in Italia, così ho continuato le ricerche in America. Ho letto tutto ciò che potevo sulla Basilicata alla New York Public Library e sono andata al museo di Ellis Island per fare ricerche sugli sbarchi, sui viaggi in nave. In Italia non avevo trovato nulla sull’emigrazione, eppure dovrebbe esserci un museo per quei nove milioni di italiani che sono partiti”.
Per l’Italia l’emigrazione è una ferita ancora aperta…
“Lo so, ma non ho visto neanche una targa, niente. Ellis Island è stata di grande aiuto e dopo tutte le ricerche sono tornata in Italia. Stavolta c’erano anche i social network a darmi una mano, così quando sono andata lì di nuovo avevo già delle conoscenze e mi sono affidata a due persone per le ricerche sul posto. Ci ho messo solo tre giorni a scoprire l’omicidio! L’ho trovato negli archivi di Matera, fino a quel momento avevo cercato le date sbagliate. Mi ci sono voluti dieci anni, ma alla fine ho scoperto tutto ciò che cercavo sulla mia trisnonna, cose di cui non sapevo nulla. In quell’arco di tempo ho imparato tutto ciò che potevo sulla Basilicata così quando sono tornata ero molto più umile, cauta e pronta a fare quella ricerca alla maniera degli italiani”.
Pensi che l’essere una donna lì abbia reso il tuo lavoro più difficile?
“Certo, soprattutto la prima volta. In dieci anni sono cambiate molte cose, le donne sono più emancipate. La prima volta che sono andata lì, non c’era nessuna donna nei bar, erano tutte a cucinare e pulire. C’erano soltanto uomini che non capivano cosa ci facessi lì. Era come essere negli anni Cinquanta, ma quando sono tornata una delle due persone a cui mi sono affidata per le ricerche era proprio una ragazza. In un decennio ho visto un salto di trent’anni”.
Eri una donna e una straniera, oltre che la discendente di una persona che se n’era andata. Non pensi ci sia una connessione tra la tua storia e quella della tua trisnonna? In entrambi i casi ci sono delle donne forti e un viaggio. Credi che questi due aspetti giochino un ruolo importante nella ricezione del tuo libro? Sono due temi centrali e molto attuali sia negli USA sia in Italia, specie la migrazione.
“Quando cominciai a scrivere il libro l’immigrazione non era un tema così problematico in Italia. C’erano già allora gli sbarchi, li vidi io stessa, ma di recente l’immigrazione è diventata un argomento più complesso, anche negli Stati Uniti, sebbene qui i migranti ci siano sempre stati. Il libro è uscito quando il tema è esploso, anche se non tratta nello specifico dei problemi legati all’emigrazione. Dopo il libro, ho scritto un articolo sull’immigrazione per The New York Times che è diventato virale. Mi rivolgevo agli italo-americani elettori di Trump, chiedendo loro come potessero supportare le sue politiche contro i migranti, proprio loro che discendevano da persone che erano state considerate criminali e che erano state trattate in modo terribile qui in America”.
Molti italo-americani che hanno votato Trump sostengono che i loro antenati sono arrivati in America legalmente.
“Prima di tutto, non è così, e comunque cosa vuol dire? Gli italiani sono stati maltrattati, possibile che non abbiamo imparato nulla? Erano solo un paio di generazioni fa. Queste persone non conoscono la propria storia, dovrebbero andare a studiarla, perché se la conoscessero non tratterebbero così i messicani, i siriani e i mediorientali. Ci sono stati commenti assurdi sotto l’articolo, del tipo: “Come ti permetti a paragonare gli italiani ai mediorientali? Noi non abbiamo provato a far saltare in aria il Paese”. Ma di che stiamo parlando? Queste persone sono disperate, proprio come lo erano gli italiani. Miseria! Io neanche la conoscevo questa parola. Non avevo idea di come fosse tremenda la situazione in Italia quando la mia famiglia se n’è dovuta andare. Negli Stati Uniti ti dicevano solo quanto l’Italia fosse bella, del cibo buono. Scoprire la verità sulla vita quotidiana a quei tempi è stato più scioccante della ricerca sull’omicidio.
Chi è emigrato voleva voltare pagina e dimenticare…
“La prima volta che sono andata in Basilicata per le ricerche io ero lì solo per una storia curiosa su un omicidio, ma lì c’era gente che è rimasta e che ha abitato in quelle condizioni per un secolo. Qui in America le persone hanno cambiato vita e hanno dimenticato, e poi diventano elettori di Trump? Questa cosa mi fa impazzire. In Sud Italia, oltretutto, la gente è accogliente, come si vede in Fuocoammare”.
Purtroppo la migrazione è diventato un tema difficile e c’è una differenza tra la sua narrazione politica e cosa avviene effettivamente nella realtà.
“A me gli italiani sembrano accoglienti e non capisco quelli che sono contro i migranti. Siete seri? I vostri parenti sono emigrati in America, nove milioni di persone! E non volete che questa gente arrivi in Italia? Per me è una follia. Gli italiani sono emigrati ovunque e ora questi rifugiati vanno in Italia. What goes around comes around, per me ha quasi un che di poetico”.
Tornando al tuo lavoro, negli ultimi tempi il memoir è diventato un genere fondamentale. Tu sei un’autrice di non-fiction, ma hai mai pensato di scrivere un romanzo?
“Ho studiato giornalismo alla New York University. Volevo fare la scrittrice e la mia professoressa mi ha detto che avevo tre opzioni: fare l’insegnante e scrivere nel tempo libero, lavorare nell’editoria senza guadagnare un granché o diventare una giornalista e nel frattempo scrivere i libri che volevo. Come giornalista, mi hanno insegnato a dire ciò che è accaduto nella realtà, quindi per me è difficile inventare. Tra l’altro non avevo bisogno di inventare nulla, visto che la mia famiglia aveva un sacco di storie assurde! Ciò che è successo alla mia famiglia è incredibile, non c’era bisogno di romanzarlo. Sono stata fortunata perché ho cominciato a scrivere proprio quando il memoir è iniziato a diventare così importante. I Soprano e il successo del memoir hanno senz’altro determinato il successo del mio primo libro. Ho provato a scrivere un romanzo durante il mio master in scrittura alla Columbia, ma finiva sempre per diventare non-fiction! Ci sono due cose che non sopporto: quando qualcuno scrive un romanzo e lo chiama non-fiction e quando qualcuno scrive non-fiction che diventa un romanzo, perché non sono abbastanza coraggiosi da dire che ciò che scrivono è successo realmente”.
E che mi dici dell’auto-fiction?
“Mi piace, sto giusto leggendo l’ultimo libro della serie di Knausgård. Ci sono voluti anni, ma lo adoro”.
Di solito i lettori americani non si interessano di autori stranieri, ma i libri di Knausgård e di Elena Ferrante hanno cambiato un po’ le abitudini.
“Assolutamente. Amo i romanzi della Ferrante, mi hanno aiutato con le vendite di Murder in Matera proprio come I Soprano hanno aiutato Five-Finger Discount. Ho cominciato a scrivere Murder in Matera prima che la serie della Ferrante diventasse popolare negli USA. Stavo leggendo il primo romanzo sul treno per Napoli, mentre tornavo da uno dei miei viaggi in Basilicata. Pensai che fosse fantastico e quando ne parlai agli editor qui in America non ne sapevano nulla! Poi invece sappiamo cosa è successo. Anche io voglio scrivere un libro del genere, un best-seller di quelle dimensioni”.
Allora ti faccio la classica domanda per chiudere l’intervista. Stai lavorando a un nuovo libro?
“Quando feci le ricerche sulla mia trisnonna Vita e scoprii che era una donna perduta, venni a sapere della prima notte, uno stupro istituzionalizzato che avveniva non soltanto durante la prima notte di matrimonio. Quando uscirono il mio libro e il mio articolo sull’immigrazione sono stata attaccata da molti italiani che dicevano che non era vero, che la prima notte non esisteva. Ho intervistato varie persone in Italia, figli e nipoti di donne a cui questa cosa è capitata. Non è affatto diversa dalla vicenda di Harvey Weinstein, ma non so se in America avrebbe successo. Qui non se ne sa nulla, perché all’epoca molte persone del Sud Italia erano analfabete, non ci sono lettere o diari, solo le storie trasmesse a voce. È una cosa di cui mi piacerebbe davvero scrivere, insieme a qualche altro progetto, ma sto aspettando. Quando Mario Puzo era abbastanza conosciuto, disse che non aveva ancora scritto il suo grande libro, così scrisse Il Padrino [ride]. Diciamo che anche io sto aspettando di scrivere il mio grande libro”.