«Le storie non cominciano mai a New York. Forse qui si incontrano, si mescolano e si confondono, si separano e finiscono, ma non cominciano. Iniziano sempre altrove – un luogo lontano, un tempo passato, un viaggio rimasto per anni senza arrivo e senza ritorno». Comincia così Gli ultimi americani (Mondadori, 288 pagine, 18,50 euro), il nuovo romanzo di Arianna Farinelli.
Dopo il successo di Gotico americano, la politologa ed editorialista di «Repubblica», a New York da oltre un ventennio, allestisce un racconto affascinante e disturbante, che scorre rapido sul confine tra amore e dolore. È la storia di un’amicizia che solo New York può accogliere, l’incrocio di tre vite che sembrano partire da lontano proprio per incontrarsi e animare le pagine di questo romanzo.
La protagonista è Alma, che dalla periferia romana arriva a New York e diventa una scrittrice di successo. Alle prese con i frammenti del suo matrimonio, durante una serata di live storytelling. Alma conosce uno scrittore magnetico e malinconico e Lola, la sua compagna. Entrambi provengono dal Sudamerica ed entrambi hanno ferite che si mescoleranno con quelle di Alma e della stessa società americana, che non manca di mostrare il suo volto più crudele.
Arianna Farinelli presenterà Gli ultimi americani alla Rizzoli Bookstore, il prossimo 10 maggio alle ore 18, insieme ad Antonio Monda. Raggiunta al telefono, l’autrice ci ha raccontato in una lunga conversazione le motivazioni che l’hanno spinta a scrivere questa storia, indagandone i temi e mettendoli in relazione con l’attualità, tra pandemia, emergenze migratorie e guerra in Ucraina.
Rispetto a Gotico americano, ho trovato il tuo nuovo romanzo più sperimentale, più americano ma meno newyorkese (nel senso che New York è meno presente come sfondo). Inoltre, negli Ultimi americani il punto di vista mi è sembrato ancora più calato nella realtà americana, non c’è un’osservazione dall’esterno come nella tua storia precedente. Com’è stata questa nuova esperienza di scrittura?
“Il punto di vista è comunque di chi vede le cose dall’esterno. C’è una protagonista italiana che racconta la propria storia, ma sono piccoli tasselli nel romanzo. Alma racconta soprattutto la storia dei suoi amici sudamericani, che come lei non sono nati negli Stati Uniti. Questa è una condizione molto newyorkese, visto che un terzo delle persone che vive a New York non è nato qui. Può sembrare contro intuitivo, ma è una realtà tipica di questa città, che è fatta di storie cominciate altrove. È vero, questo romanzo è meno italiano e meno europeo rispetto a Gotico americano, dove la protagonista era italiana e una parte importante della storia si svolgeva in Italia. Con Gli ultimi americani mi sono interessata a chi arriva qui dal Sud del mondo e non viene per studiare, fare carriera, avere più opportunità o per amore, ma per necessità, perché non può farne a meno. I miei due protagonisti sudamericani sono uno scrittore che scappa e richiede asilo negli Stati Uniti perché è stato rapito e torturato dalle Forze Armate Rivoluzionare della Colombia, e una ragazza, Lola, con cui lui è cresciuto e con cui ha iniziato una storia sentimentale, costretta anche lei a scappare. Nel romanzo c’è anche una denuncia di classe di quello che accade in molti Paesi sudamericani, dove i ceti più abbienti insieme alle multinazionali comprano tutto, lasciando agli altri molto poco. Volevo raccontare questo punto di vista perché è una realtà che vivo qui a New York. Ho voluto farlo in maniera sperimentale chiedendomi ogni volta quale fosse il modo migliore per raccontare una determinata parte della storia: in prima persona, in terza persona, come un’intervista a tre, come un memoir, come un testo teatrale. Non c’è un solo modo di raccontare una storia, quindi ho provato a giocare con stili diversi, che danno movimento al racconto”.
Il tuo divertimento si percepisce e dà alla lettura una sensazione di piacevole sballottamento, concedendo a chi legge sempre una sorpresa. Poi ci sono anche alcuni colpi di scena che è bene non rivelare qui.
“Non mi è mai interessato il finale del delle storie, conta più vedere come si arriva alla fine. Nel mio romanzo non punto sul colpo di scena. Mi è stato fatto notare che arrivo sempre sulla soglia e non racconto fino in fondo ciò che accade. Infatti Alma dice apertamente che alcune cose preferisce non raccontarle, per esempio la morte dello scrittore. Di violenza purtroppo ne vediamo moltissima, soprattutto in queste settimane di guerra, perciò mi interessa poco parlarne nei dettagli. Voglio portare chi legge fino a poco prima che succeda. Io mi fermo lì. Se il lettore vuole entrare, lo metto in condizione di immaginarsi ciò che succede dopo, ma è una sua scelta”.

I personaggi ti hanno suggerito modi diversi per raccontare le storie. Delle tre storie intrecciate, affermi nella Nota dell’autrice che quella dello scrittore è stata ispirata dal racconto di un tuo studente. La sua vicenda ti si è mostrata per prima, rispetto a quella di Alma e di Lola?
“Dal punto di vista cronologico sì, ho cominciato a scrivere prima la storia dello scrittore. In quei giorni leggevo Nozick, Sartre, Schopenhauer e un’antologia di filosofia sul senso della vita e sul significato della nascita e della morte. Il primo capitolo che ho scritto è proprio quello in cui lo scrittore si pone queste domande. Alla fine, lui dice che l’unica cosa che dà senso alla vita è la morte. Per scrivere la parte sul suicidio, sono entrata in una chat di aspiranti suicidi che si scambiano consigli sui modi migliori per morire, perché la riuscita del gesto sta tutta nel metodo che si sceglie. Entrando in questa chat ho scoperto molte cose che non conoscevo. All’interno ci sono dei disclaimer che invitano gli utenti che pensano al suicidio a chiamare un numero verde o a consultare uno psichiatra. Non so se fossero più surreali i consigli che gli aspiranti suicidi si scambiavano o i disclaimer. In America il suicidio è un tabù. Ne puoi parlare solo se ti vengono dati gli strumenti per uscire dal pensiero suicida. È senz’altro anche un modo per proteggersi dal punto di vista legale. Nel romanzo polemizzo su chi abbia o meno il diritto di raccontare le storie, su quali storie si possano raccontare e su come si possa farlo. Sembra che di suicidio non si possa parlare. Negli Stati Uniti, poi, si discute molto di appropriazione culturale, cioè del fatto che ognuno dovrebbe scrivere solo nell’ambito della propria cultura, senza appropriarsi di quella altrui. Secondo questo principio, gli afroamericani dovrebbero parlare solo di afroamericani, gli ispanici solo di ispanici. I miei protagonisti, invece, dicono che tutti possono scrivere di tutto, purché alla base ci siano studio e ricerca. Non ero mai stata in Colombia, ci sono andata dopo aver concluso e venduto il romanzo. Ho fatto tantissima ricerca rimanendo a New York, come se stessi scrivendo un saggio, basandomi su libri, video, giornali, siti che parlano di cibo, musica, danze e uccelli colombiani. Sono italiana, ma non vuol dire che io possa scrivere solo di italiani e italo-americani, perché altrimenti ci imponiamo confini artificiosi. Il racconto dell’esistenza umana non può conoscere confini”.
È per questo che hai inserito e utilizzato il personaggio di Alma? Tra l’altro con lei costruisci anche un gioco di specchi.
“Io sono tutti e tre i personaggi. Alma è quella che mi somiglia di più perché è italiana , ma il personaggio dello scrittore, che è assolutamente inventato, pensa i miei stessi pensieri. Alma ha il diritto di raccontare la storia dei suoi amici, anche ciò che loro non le hanno detto e che lei non ha vissuto. L’ha immaginato e ha studiato, perciò ha il diritto di raccontare. Lo rivendico con molta forza. Dante ha raccontato l’inferno: c’è mai stato? Ha raccontato cose che non ha visto né vissuto, ma forse nel Trecento erano un po’ più intelligenti di oggi su queste cose”.

Alma dice: «Io scrivo per capire quello che è accaduto anche quando non è accaduto, racconto per avere la comprensione di chi ascolta. È della vostra comprensione che ho bisogno». Nel romanzo, poi, ci sono pagine meta-narrative con cui il lettore si affaccia sul processo della scrittura, sul ragionamento dietro il racconto. Temevi forse che il lettore fraintendesse questa storia?
“Quando raccontiamo, cerchiamo la comprensione di chi ci ascolta. Una storia non raccontata rimane intatta e spietata, come se continuasse ad accadere ogni giorno. Raccontare è un’esperienza catartica. Quando Alma va a “The Moth”, una competizione di live storytelling dove le persone raccontano storie spesso autobiografiche, divertenti e dolorose, condivide con il pubblico la propria storia quasi in uno stato di trance. Se racconti, la storia ingiallisce come le pagine di un libro. Invecchia e fa meno male. Se invece non racconti, quella storia ti ferirà per sempre. Sempre per parlare di ciò che si può scrivere e che non si può scrivere, nel romanzo racconto anche del mondo dell’editoria. Oggi va molto di moda l’auto-fiction. Spesso accade che quando scrivi auto-fiction, i lettori capiscono che non sei veramente tu nel racconto, perché sembra assurdo che un autore si sveli in modo tanto esplicito. Quando invece scrivi un romanzo, per la gran parte immaginato, si dà per scontato che quella sia la tua storia. A me è successo con Gotico americano, c’è chi ha pensato che avessi scritto della mia vita.
Infatti ne parli attraverso Alma.
“Alma si confida con Lola su ciò che si può scrivere e lei le dice proprio questo: se cercano il tuo nome accanto a quello di tuo marito, è perché pensano che tu stia scrivendo la tua storia, perché i lettori vogliono conoscere la vita degli scrittori. Chi scrive conta più di ciò che scrive, perciò la scrittura passa in secondo piano. Chi continua a raccontare la propria vita, finisce con lo scrivere sempre lo stesso romanzo. Io preferisco azzardare, immaginando mondi dove non sono stata e che non mi appartengono in nessun modo. Ho amici colombiani, ma non sono cresciuta in una hacienda, non sono stata rapita e torturata. Eppure, posso raccontare queste cose con onestà e integrità, se le studio. Dove non arrivo con lo studio, immagino. Il compito di chi scrive è immaginare”.
Nel confronto tra Alma e il suo editore, lei dice: «Se non raccontiamo mai storie lontane, è difficile che i lettori possano avere la curiosità di sentirle».
“La Disney ha vinto un Oscar proprio con una storia colombiana (Encanto è premiato come miglior film di animazione, ndr), quindi anche le storie lontane possono essere raccontate. Ho bisogno di andare lontana dalla mia vita che è quella accademica. Non sono cresciuta ricca, anzi, ma negli anni ho avuto molte opportunità. Se penso alla mia infanzia all’estrema periferia di Roma, dico che la vita in diverse occasioni mi ha sorriso. Forse ho bisogno di raccontare mondi difficili proprio perché vengo da un mondo difficile, diverso da quello in cui vivo adesso. Come dicevo, per me è importante anche come si racconta una storia. Per gli americani le storie devono sempre avere un inizio problematico e poi una risoluzione, che poi è il regolamento di “The Moth”. Lì la storia si deve risolvere in cinque minuti. Ma non tutte le storie si risolvono. In questo romanzo, infatti, non c’è soluzione”.

Dici di avere una posizione privilegiata per condizione, io aggiungo che sei privilegiata anche in quanto scrittrice. Hai il privilegio di scegliere cosa raccontare, eppure sembra che il tuo radar di narratrice venga attivato sempre dalle situazioni difficili. È successo con Gotico americano e accade con Gli ultimi americani, dove tra l’altro parli anche del primo lockdown a New York e delle deportazioni degli irregolari avvenute proprio durante l’inizio della pandemia. Cosa ti attira in queste storie?
“Io non nasco come scrittrice. Ho iniziato come studentessa di dottorato, poi come docente universitaria. Leggo tantissima saggistica e leggo in modo molto approfondito tutti i giornali americani. Qui alcune volte trovo un trafiletto a cui la maggior parte delle persone non fa caso. Quando ho letto di quel centro di detenzione per immigrati irregolari in Georgia, dove praticavano l’isterectomia a donne immigrate, senza interprete e senza che ne avessero necessità, ho sentito tremare le vene e i polsi. Si trattava di operazioni ginecologiche non necessarie, praticate per lucrare sui soldi del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale. In un Paese come questo, che amo e di cui sono diventata cittadina, per me è inconcepibile che accada una cosa del genere nel 2020. Questa notizia è apparsa sui giornali, ma nessuno si è indignato, nessuno ha chiesto di chiudere i centri di detenzione. Non si possono deportare persone prese a caso, nonnine onduregne che sono qui da quarant’anni, con figli e nipoti americani. Che senso ha? Che democrazia siamo? Che esseri umani siamo? Tutto questo mi commuove e mi indigna, perciò devo scriverne. Quindi da una parte c’erano questi articoli di giornale, dall’altra questo mio studente che mi ha raccontato di avere avuto un nonno nazista, di essere stato rapito e torturato dai guerriglieri e di essere entrato qui come rifugiato politico. Quando incontro queste storie mi tremano le mani, devo andare alla tastiera e scrivere. Ne viene fuori un romanzo difficile, dove alterno la filosofia all’analisi storico-politica, magari meno fruibile rispetto a Gotico americano, ma con temi e stile più alti”.
Descrivi anche la pandemia, una mossa coraggiosa visto che ogni racconto su questo argomento diventa vecchio ancor prima che si asciughi l’inchiostro. Oltretutto, racconti proprio di New York, dove tutto accade così rapidamente e dove questi ultimi due anni sembrano contenere un decennio. Quanto è difficile, a livello narrativo, maneggiare questi ritmi forsennati?
“Le deportazioni e la pandemia avvenivano nello stesso momento. I rimpatri erano iniziati nel 2017, perché era la politica di Trump non dissimile da quella di Obama che aveva deportato due milioni e mezzo di persone. Trump ha preso di mira le città-santuario per gli immigrati: New York, Chicago, San Francisco. Qui gli irregolari, a differenza degli stati governati dai repubblicani, possono iscrivere i figli a scuola, trovare un lavoro, costruirsi una vita. Quando è scoppiata la pandemia, Trump ha chiamato il BORTAC, un corpo speciale che normalmente pattuglia i confini, e lo ha fatto venire a New York. Sono loro che hanno fatto le retate per arrestare gli irregolari. Tutto questo accadeva mentre c’era il covid. Persone portate nei centri di detenzione senza il rispetto di nessuna norma sanitaria, incatenate e messe sugli aerei, senza mascherine, con la febbre, per essere rimpatriate nei Paesi d’origine dove magari non avevano vissuto per anni, portando con sé anche il covid. Non puoi scegliere di raccontare queste retate senza parlare della pandemia. O decidi di raccontare la storia nella sua interezza, con tutti i rischi che questo comporta o è meglio lasciar stare. Tutto questo avveniva rapidamente, mi sembrava di osservare del magma incandescente che si solidificava mentre scrivevo”.

Se penso agli «ultimi», penso agli ultimi della fila, ai lasciati indietro, oppure agli ultimi nel senso di ultimi arrivati, i più recenti in ordine cronologico. Mi viene in mente anche un’altra sfumatura, cioè ultimi come ultimi esemplari di una specie. Chi sono i tuoi ultimi americani?
“Avevo pensato solo ai primi due significati. Ultimi in ordine di tempo e ultimi nella scala sociale, perché i clandestini possono vivere vent’anni in un Paese senza nessun tipo di diritto. Non avevo mai pensato che potessero essere ultimi della loro specie. Quando Biden è stato eletto, ha detto che avrebbe regolarizzato undici milioni di irregolari. Magari loro sarebbero potuti essere gli ultimi della loro specie, cioè gli ultimi americani a dover vivere in quella condizione, senza diritti. In un anno e mezzo, però, Biden non tenuto fede alle promesse fatte in campagna elettorale, quindi purtroppo quelli come Lola non sono affatto gli ultimi, in questo senso. Ce ne sono e ce ne saranno ancora molti costretti a vivere in questo limbo, senza nessun diritto e vulnerabilissimi, in grado di perdere tutto in qualsiasi momento. Tra l’altro Biden ha continuato le politiche di Trump riguardo l’attesa per l’asilo politico: la legge dice che bisogna aspettare in Messico. L’unica eccezione viene fatta per gli ucraini che possono entrare ottenendo asilo in pochissimo tempo, mentre i sudamericani e centroamericani devono aspettare mesi in Messico che la loro richiesta venga anche solo esaminata”.
Invece chi sono gli ultimi europei?
“Anzitutto ci sono gli ultimi italiani, che sono nati in Italia ma ai quali non viene riconosciuta la cittadinanza, quindi nemmeno il diritto di votare. Quando finalmente il Parlamento italiano farà qualcosa su questo tema, forse questi italiani non saranno più ultimi ma avranno gli stessi diritti di tutti. Per quanto riguarda l’Europa, qualche giorno fa ho scritto un articolo per «La Repubblica» sul diverso atteggiamento dell’Occidente nei confronti dei profughi ucraini. I neuropsichiatri ci dicono che l’empatia dipende da fattori etnici e culturali: siamo naturalmente più empatici verso chi ci somiglia. Appena scoppiata la guerra, Paesi come Polonia e Ungheria hanno accolto centinaia di migliaia, milioni di rifugiati. In Germania persino Alternative for Germany, partito di estrema destra contrario a qualsiasi tipo di accoglienza, ha accolto gli ucraini. Boris Johnson ha messo a disposizione trecentocinquanta sterline per ogni famiglia ucraina, mentre tutti gli altri migranti provenienti dall’Africa sono costretti ad aspettare in Ruanda che la domanda d’asilo venga esaminata. La stessa cosa accade negli Stati Uniti, dove centomila ucraini vengono accolti e passano la frontiera che è chiusa da due anni con la scusa del covid. La migrazione è un fenomeno globale, una condizione dell’esistenza umana. Abbiamo cominciato a migrare dall’Africa centomila anni fa. Non possiamo stupirci che ci sia una parte del mondo più povera che preme per entrare in una parte del mondo ricca, scappando da cartelli, organizzazioni criminali, guerre dimenticate. Solo nel 2021, in Colombia sono morte quattordicimila persone, lo stesso numero di morti che ci sono stati in Donbas in otto anni, eppure nessuno ne parla. Finché non capiremo che tutti i rifugiati hanno uguale dignità e che tutte le guerre sono ugualmente atroci, continueremo a fare queste discriminazioni”.
Per concludere, ti chiedo: dove si sta spostando la tua attenzione come narratrice? Hai detto che Gli ultimi americani, insieme a Gotico americano, fa parte di una trilogia dedicata agli Stati Uniti. Stai già lavorando al terzo romanzo?
“Non so perché, ma tutte le storie che mi arrivano parlano di temi che si assomigliano. Nel primo romanzo c’era il terrorismo di matrice islamica, nel secondo i terroristi delle FARC, nel terzo ci saranno terroristi marxisti americani che negli anni Ottanta volevano fare la rivoluzione comunista negli Stati Uniti. È una storia che mi è arrivata per caso. Attraggo sempre questo tipo di racconti. Forse questa trilogia non la sto scrivendo io. Credo piuttosto che si stia scrivendo da sola”.
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