Rivisitare in chiave critica e appassionata la scrittura e il pensiero di Carlo Levi suggerisce stimoli di riflessione sul presente politico e storico dell’Italia del secondo millennio che molto avrebbe da attingere dalle intuizioni, dalle certezze, dall’agire di questo torinese geniale e sensibile che fu qualcosa di più e di diverso dall’essere un lucido e attento intellettuale, figlio del suo tempo, a cui oppose la difesa ad oltranza della democrazia e della libertà, quali principi imprescindibili.
Egli concepì arte e politica, giustizia e libertà come un modo di vivere atto a contrastare il conformismo politico e culturale, per questo è così necessario collocare Levi nell’ambito che gli compete, ben oltre quel «Cristo si è fermato ad Eboli» che rese noto il suo nome nel mondo, tra idiomi e linguaggi diversi, in terre lontane e sconosciute.
Giovanni Russo, scrittore e giornalista, che conobbe Levi nel ’45 a Potenza, dove quest’ultimo si era recato per partecipare alla campagna elettorale per le elezioni dell’Assemblea Costituente del 2 giugno del ’46, nella lista del “Movimento democratico repubblicano,” e che di Levi fu amico e compagno di lotta, ha voluto ricordarlo in un libro, «Carlo Levi segreto», edito nel giugno scorso da Dalai, che soddisfa più di una istanza. In primis il desiderio di rievocare quegli ideali, da entrambi condivisi, di battaglie civili, culturali, intraprese nella speranza di un rinnovamento sociale che, dall’unione tra contadini e borghesia, traesse la spinta a produrre un avanzamento del Sud.
La storia andrà in una direzione diversa, e quella civiltà contadina, di cui Levi fu cantore invitto, si dissolse nella manodopera impegnata, dalla fine degli anni Cinquanta alla fine dei Settanta, nell’industrializzazione forzata del Nord a cui il popolo lucano partecipò in massa.
Alla stesura del libro non fu certamente estranea, ricorda Russo nella premessa dell’opera, la figura del poeta di Tricarico, a cui lo legava profonda amicizia, Rocco Scotellaro, le cui opere sono impregnate dei temi legati al Sud, alla terra, al mondo contadino.
A Scotellaro e Levi, Russo univa la presenza, in quegli anni, del grande Manlio Rossi Doria, economista, che proprio nella riforma agraria a cui stava lavorando vedeva la svolta necessaria a cambiare la vita di braccianti e contadini. Il motivo più forte, tuttavia, è rintracciabile nell’attualità del pensiero leviano, nella grande intuizione intorno all’identità di problema meridionale e problema dello Stato, perché è solo creando una forma di Stato nel quale i contadini si riconoscano, che si può stemperare l’antistatalismo di questi, trasversale alle diverse componenti politiche che nell’avvicendamento segnano comunque una continuità di corpi estranei ai retaggi della terra.
Carlo Levi fu un letterato “sui generis”, un uomo del Rinascimento, versato all’arte, eppure dentro il proprio tempo, così intensamente da viverne tutto l’impegno e l’ardire che la sua coscienza chiamava a raccolta per definire il presente, per cambiare la sorte di chi non ha visibilità. La sua arte, la pittura, la scrittura, poste “in ascolto” per far “parlare” quel mondo millenario che la borghesia vorrebbe silente, lontano dagli scenari mutevoli della storia, dal cammino progressivo verso una giustizia sociale di là da venire.
Levi, che del borghese non aveva nulla, interiormente e nelle scelte di vita, proveniva da una agiata famiglia di origine ebraica, una tipica famiglia borghese, originaria di Torino, la città che gli diede i natali il ventinove novembre del 1902, nella quale trascorse l’infanzia, dove espose un suo quadro alla Quadriennale già nel ’23, in cui frequentò l’Università, laureandosi in medicina nel ’24, a soli ventidue anni. Non esercitò mai la professione medica, praticò, invece, tutta la vita la pittura, e, quasi in eguale misura, la letteratura, ma fu anche giornalista e sceneggiatore, un artista con una personale concezione dell’arte, che considerava libera espressione del pensiero, non asservita alla logica soverchiante del fascismo, né ad altro che non fosse la propria autodeterminazione.
La sua formazione pittorica si era affinata a Parigi, vi aveva soggiornato a più riprese, frequentando l’ambiente dei pittori, conoscendo Amedeo Modigliani, il livornese tormentato e inquieto che trasferì sulla tela tutta la bellezza dell’esperire umano. Levi fu un antifascista della prima ora, per tutta la vita si oppose al fascismo, lui che militò in Giustizia e Libertà, il movimento antifascista fondato da Carlo Rosselli nel ’28, che il fascismo imprigionò a Torino, insieme ad altri ebrei torinesi, accusati di complotto antifascista contro il plebiscito del ’34; conobbe, però, dopo un secondo arresto, anche il carcere a Roma, nel ’35, a cui seguì la condanna al confino in Basilicata, allora Lucania.
E’ qui che giunse, in quel tempo di privazioni e violenze, a Grassano e poi ad Aliano che nel “Cristo” diverrà Gagliano, i luoghi che ritroveremo, intatti, nelle suggestive memorie del suo romanzo-testimonianza, tradotto in tutte le lingue del mondo, persino in finlandese, da cui prese avvio, nel dopoguerra, una riscoperta del Sud, del Mezzogiorno, di quella civiltà contadina che il resto d’Italia quasi ignorava. «Cristo si è fermato ad Eboli» venne pubblicato da Giulio
Einaudi nel ’45, “lievitò” per un decennio, prima di trascorrere dalla realtà dei luoghi, alle pagine stampate di un libro, in esso l’autore descrive la realtà sociale lucana, distinguendo tra i “luigini”, dal nome del podestà di Aliano, Luigi Magalone, simbolo borghese del provinciale meridionale, e i “contadini,” ponendo le basi di quella tesi meridionalista attraverso la quale egli mai intese mitizzare i contadini, demonizzando i borghesi.
Certo i “luigini” vengono da lui fotografati, rappresentati come quella piccola borghesia senza cultura, ignorante, la classe sociale più fedele al fascismo nel Sud d’Italia, non tanto per la condivisione di ideali, bensì perché offriva un sostegno nei confronti dei due mondi ai quali i piccolo borghesi sentivano di non appartenere, i contadini e i notabili del luogo, coloro che detenevano il potere economico.
Levi comprese quanto fosse necessaria una nuova idea politica, una forma nuova di Stato che fosse in grado di affrancare i contadini dalla loro anarchia, dalla loro indifferenza, creando, in tal modo, i presupposti per il superamento del “problema meridionale”. Tuttavia i giudizi veritieri esposti nel libro urtarono anche la suscettibilità dei contadini, che lo accusarono di avere denigrato il Sud, perché era, per essi, la verità più rivoluzionaria di qualsiasi rivoluzione e forse, a loro avviso, andava taciuta, o, quanto meno, mitigata. In realtà Carlo Levi ebbe nei confronti del mondo contadino una fedeltà non solo poetica, partecipando in senso civile e politico al dramma della miseria, avvertendo tutta la sconfitta che il fenomeno dell’immigrazione recava in sé.
Quando Levi racconta nel “Cristo” delle credenze nei “monacicchi” e nelle “fatture”, quel mondo contadino si rivela davvero, come scrive Russo, magico, chiuso in un’idea “pagana” dell’esistenza, rafforzando, nel contempo, la convinzione del lettore di trovarsi di fronte, come qualcuno disse, al “coautore” del libro.
Secondo Manlio Rossi Doria, suo caro amico, Levi non aveva inteso riprodurre fedelmente personaggi e situazioni, spesso aveva contraffatto i caratteri perché quei dati reali, in quanto tali, andavano visti come pitture su di un muro, come apparizioni, non in rapporti psicologici tra loro, l’io che racconta non è quello di Levi, è l’occhio che vede tutto, tuttavia Doria si riconobbe felicemente nel personaggio di Carmine Bianco. Scrive Giovanni Russo che la lettura del romanzo di Levi fu uno shock per tutti a Potenza, molta gente aprì gli occhi su un mondo nel quale era immersa e che non riconosceva, non individuava nella sua essenza profonda, quel mondo contadino che rappresentava la parte migliore della società lucana, l’humus della società del meridione.
Come nelle migliori tradizioni della memoria che riaffiora, dalla «Recherche» proustiana al «Don Chisciotte» di Cervantes, egli dà libero corso al flusso ininterrotto del pensiero rievocante, mentre era nascosto a Firenze, in casa di un’amica che lo ospitava, perché ricercato dai nazisti e dai fascisti, dopo il venticinque luglio del ’43, scrive «Cristo si è fermato ad Eboli», rivivendo nell’anima l’esperienza del confino e la conoscenza del mondo contadino, componendo un affresco potente, che il tempo ci restituisce inalterato.
Carlo Levi fu nell’immediato dopoguerra, direttore di due quotidiani: “La nazione del popolo” a Firenze nell’agosto del ‘44 e “L’Italia Libera” a Roma, a Firenze aveva partecipato attivamente alla Resistenza, dopo essere stato di nuovo arrestato nel giugno del ’43 e liberato il venticinque luglio, con la caduta del fascismo; a Roma diresse “L’Italia Libera” dal quattro novembre del ’45 al marzo del ’46, trasformando un “bollettino del Partito d’Azione in un giornale. «Il pianeta senza confini» raccoglie gli articoli giornalistici di Levi sui Paesi che visitò quando era inviato per la “Stampa”; il ritratto che fa di New York e dell’America nasce dalle sue considerazioni in merito alla complessa vicenda della storia italiana e del fenomeno dell’emigrazione che svuotò le campagne lucane e meridionali, abbandonate da braccianti e contadini dalla metà degli anni Cinquanta, per più di un ventennio.
All’emigrazione è strettamente connesso il mito americano, traduzione magica, ma reale, concreta, dell’idea eterna del Paradiso Terrestre, perduto e ritrovato; il contadino non distingue tra reale e immaginario, fa coincidere i due elementi, è così che l’America diviene un elemento necessario della vita dei villaggi, un composto di fatto economico sociale, famiglia, nostalgia, lavoro, pane, pensiero mistico, magia religiosa. Levi coglie la natura più intima degli emigrati del Sud Italia in America, un rapporto che egli racchiude in una frase: “Per i contadini, se esistesse lo Stato, la capitale italiana sarebbe New York”. Un altro aspetto che domina la società americana, scriveva Levi, è quello di creare “un perfetto tessuto connettivo in nome del moto delle cose come necessità, come bene in sé”.
Carlo Levi, che morì nel gennaio del ’75, dipinse fino al termine della sua vita, distrutto dalla cecità causata dal diabete, componendo 145 disegni in soli tre mesi, nel ’73; allo stesso periodo risale anche il diario «Quaderno a cancelli», titolo che allude alla scrittura su caselle tracciate su di una tavoletta ricoperta da una rete, un modo per sconfiggere l’oscurità delle tenebre.