La crisi in Etiopia si aggrava di giorno in giorno. La possibilità che i ribelli tigrini prendano la capitale è sempre più reale e Addis Abeba si prepara a combattere uomo per uomo con la mobilitazione dei civili pronti ad imbracciare i fucili. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sta seguendo con attenzione i drammatici sviluppi. I Quindici hanno chiesto la fine dei combattimenti e l’avvio di colloqui per un cessate il fuoco duraturo. Ma la pace nel Paese africano sembra un miraggio.
Gli operatori umanitari non sono i benvenuti in Etiopia e nemmeno le attività scolastiche cattoliche sono apprezzate. Oggi, 16 dipendenti dell’Onu sono stati arrestati nella capitale e portati in un luogo sconosciuto. La scorsa settimana a 17 sacerdoti, fratelli e impiegati in un centro Salesiani ad Addis Abeba è capitata la stessa sorte. E solo un mese fa, 7 alti funzionari delle Nazioni Unite sono stati espulsi con l’accusa di ingerenza negli affari interni del Paese. Una situazione tragica che minaccia la stabilità del Corno d’Africa. Durante l’Angelus della scorsa domenica, Papa Francesco ha pregato per la pace, ma la sete di sangue è troppa.
Le forze del Fronte di liberazione del Tigray (Tplf) si sono rafforzate alleandosi con altri otto gruppi armati che si oppongono al governo centrale, tra cui l’Esercito di Liberazione Oromo, e insieme hanno conquistato Dessie e Kombolcha, due città strategiche del Paese.
Abbandonato dalla sua stessa etnia, il premier Abiy Ahmed ha dichiarato lo stato di emergenza il 2 novembre, e in un appello disperato ha detto che “morire” per difendere il Paese “è un dovere di tutti”, per questo ogni cittadino cha ha raggiunto i 18 anni potrebbe essere chiamato alla lotta. Poi, in un post su Facebook, oscurato subito dopo per incitamento all’odio, ha inveito contro i ribelli: “Seppelliremo i terroristi con il nostro sangue”. Parole inaspettate da un uomo che è stato insignito Premio Nobel per la Pace (2019).
Il rischio che la spirale di violenza nel Paese si trasformi in una guerra civile in espansione è “reale”. All’Onu, l’ambasciatore etiope, Taye Atske Selassie Amde, ha detto che il percorso “verso un dialogo e una soluzione politica non sarà né semplice né facile”, ma per ora la priorità è “fermare il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray, e salvare le persone che hanno immensamente sofferto”.
Da un anno scorre un fiume di sangue nel Paese africano. Le uccisioni sono all’ordine del giorno. Uomini in uniforme stuprano donne e ragazze, persino bambine. Fattorie e centri sanitari vengono distrutti dai soldati. Ad oggi, più di sette milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari e nel Tigray in 400.000 rischiano di morire di fame. Ma cibo e medicine non raggiungono Mekellé dallo scorso 18 ottobre perché il capoluogo della ragione è nel mirino di attacchi aerei. Per l’Onu, il governo centrale è responsabile non solo del blocco degli aiuti destinati ai tigrini, ma anche di aver volontariamente ostacolato le comunicazioni con la stampa per coprire abusi e crimini di guerra.
Secondo il rapporto dell’indagine condotta congiuntamente dalle Nazioni Unite e dalla Commissione etiope per i diritti umani (Ehrc) “ci sono ragionevoli motivi per ritenere che tutte le parti in conflitto… abbiano commesso violazioni dei diritti umani internazionali“. Anche per il Consigliere Speciale del Segretario Generale per la Prevenzione del genocidio, Alice Wairimu Nderitu, la situazione in Etiopia mostra seri indicatori di rischio per crimini atroci.
“È ora di deporre le armi”, ha detto decisa al Consiglio di Sicurezza l’ambasciatrice USA all’Onu, Linda Thomas-Greenfield, aggiungendo: “Questa guerra tra uomini arrabbiati e bellicosi, che vittimizzano donne e bambini, deve finire”.