E’ il solito copione. Lo stato di Israele fa la voce grossa e lo ribadisce forte e chiaro anche all’Onu: è pronto ad agire da solo contro l’Iran se il mondo non interviene. E’ un avvertimento il primo discorso di Naftali Bennett all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Telaviv ne ha le tasche piene del programma nucleare iraniano, che secondo il Primo Ministro avrebbe “raggiunto un momento di spartiacque – così come la sua – pazienza“.
Circa cento giorni dopo essere diventato il nuovo premier israeliano e aver preso le redini del regno decennale di Benjamin Netanyahu, Bennett tenta di aprire gli occhi alla comunità internazionale e la sprona ad unirsi affinché fermi le ambizioni del suo acerrimo nemico, nonché minaccia per la sicurezza globale.
“Il grande obiettivo dell’Iran è chiarissimo – afferma Bennett dal palco di UNGA76 – cerca di dominare la regione sotto un ombrello nucleare“. Soprannomina Ebrahim Raisi, nuovo presidente iraniano, il “macellaio di Teheran” per il suo passato nella repressione del dissenso politico e accusa il Paese di armare, finanziare e addestrare i nemici di Israele. Hezbollah, milizie sciite, Jihad islamica e Hamas vorrebbero diffondere l’Islam radicale e, secondo Bennett, l’ingerenza iraniana ha portato disastri in Libano, Siria e Yemen: “Ogni posto che l’Iran tocca fallisce“.
Israele che appoggiava la decisione dell’ex presidente Donald Trump di recedere dall’accordo nucleare iraniano, ora si oppone alla volontà dell’amministrazione Biden di tornare nell’intesa. Per il Premier israeliano, JCPOA necessita di importanti modifiche prima di poter essere ripristinato perché non include sufficienti garanzie per impedire all’Iran di raggiungere la capacità di armamento.

A differenza del suo predecessore, famoso per la spettacolarità dei suoi discorsi e l’utilizzo di espressioni combattive anche contro i palestinesi, Bennett utilizza un approccio più tradizionale, ma ignora i suoi vicini di casa. Non li ha mai menzionati in 25 minuti di discorso e si è preoccupato solo di dipingere il suo Paese come il “faro nel mezzo di un mare in tempesta” nel mutevole Medio Oriente.
Dai microfoni dell’Assemblea generale, la scorsa settimana, il presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva lanciato un ultimatum a Israele, concedendogli un anno di tempo per porre fine all’occupazione dei territori. Il nuovo Primo Ministro ha già respinto le richieste di colloqui di pace, anche se spera di promuovere migliori relazioni economiche per ridurre gli attriti.
Likud, il partito di Netanyahu, intanto, rimpiange l’eloquenza di Benjamin. Si scatena sull’”incapacità” del nuovo leader di portare “gli interessi politici di Israele in prima linea all’attenzione internazionale” e lo rimprovera di aver “tenuto un discorso vuoto”.
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