Il 2017 è stato l’anno dell’Italia al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Un anno in cui varie emergenze sono state affrontate, un anno di grandi novità e di vecchi problemi, in cui i temi dei diritti umani, dell’immigrazione e del pericolo di proliferazione delle armi nucleari hanno tenuto banco più di tutti. Tra i 15 membri del Consiglio, 5 sono permanenti: Stati Uniti, Federazione Russa, Cina, Regno Unito e Francia. Gli altri 10, invece, sono membri non permanenti a rotazione, che presenziano e lasciano il seggio di due anni in due anni. Per il nostro Paese, però, dopo l’accordo raggiunto con l’Olanda per la divisione del seggio nel 2016 (alle votazioni, Italia e Olanda avevano ottenuto entrambe 95 preferenze in Assemblea Generale e la fase di stallo fu sciolta solamente dopo cinque fumate nere, grazie a un incontro personale condotto dai Ministri degli Esteri Bert Koenders e Paolo Gentiloni e dalle loro delegazioni), è toccato solamente uno dei due anni.

Per l’Italia, dall’1 gennaio 2017, ha presieduto il seggio italiano Sebastiano Cardi. Diplomatico di lungo corso, con esperienze a Pechino e Parigi, l’ambasciatore non è nuovo all’ambiente ONU dove, negli anni ’90, è stato portavoce dell’indimenticato Francesco Paolo Fulci, il cosiddetto gladiatore, l’ambasciatore che seppe dire no agli Stati Uniti, quando volevano spingere per una riforma del Consiglio di sicurezza che avrebbe portato la Germania e il Giappone ad essere membri permanenti. Dal 16 settembre 2013, con il grado di ambasciatore, è invece Cardi a capo della Rappresentanza Permanente a New York. Dal Palazzo di Vetro, nell’elegante East Lounge dell’ONU, abbiamo conversato con lui (QUI il link dell’intervista integrale, sopra un estratto) del ruolo dell’Italia in questo Consiglio di Sicurezza e delle prospettive dal 2018.

Ambasciatore Cardi, sono stati dodici mesi lunghi, intensi, capitati in periodo storico delicato con tanti fronti aperti: dalla Libia alla Corea del Nord, dallo Yemen al Myanmar, fino alla Siria. Qual è stato il risultato o comunque il momento di cui va orgoglioso del suo anno al Consiglio di Sicurezza e il momento più complicato, delicato?
“Quello di cui possiamo andare orgogliosi è stata la presidenza italiana a novembre, quando abbiamo accolto il Ministro degli Esteri Angelino Alfano e il sottosegretario Amendola. È stata una presidenza importante perché, dato che è arrivata a fine anno, a novembre, tutto il lavoro che abbiamo impostato fin da gennaio, tutto il programma fatto in Consiglio, abbiamo avuto modo di coglierne i frutti. Lo abbiamo fatto attraverso le riunioni, i dibattiti e le risoluzioni approvate”.

Tra i temi più scottanti, il Mediterraneo, su cui si è dibattuto a lungo negli ultimi 12 mesi.
“Certamente ci siamo concentrati sul Mediterraneo, sulla Libia in particolare per risolvere il caos libico, che ha avuto e ha un impatto sui traffici di migranti, di uomini e che è stata una grande priorità italiana. Poi tra gli altri temi a noi cari, sicuramente c’è stata la protezione dei beni culturali nelle zone di conflitto, per il quale avevamo già adottato a marzo un importante, su nostro input, risoluzione e che abbiamo poi portato all’attenzione a novembre”.
Perché i caschi blu della Cultura sono così importanti per l’Italia?
“Non è solo questione di proteggere i beni culturali, che è importante in sé, è importante anche perché la distruzione da parte di Daesh ad esempio di questi beni comporta la perdita dell’eredità identitaria di questi popoli”.
Quindi conferma che proteggere la cultura permetta il mantenimento della sicurezza? C’è una connessione tra i due aspetti?
“Proteggere la cultura permette di mantenere un’identità e quindi di evitare anche l’esodo di queste popolazione incalzate dal terrorismo e dalle violenze del terrorismo. Anche la violazione dei beni culturali è una violenza. Immaginiamo la distruzione del Colosseo, cosa che per un romano e per un italiano sarebbe una cosa tragica. Questo è successo a Palmira, in Siria e in altri luoghi. E questo aspetto ha di sicuro fatto parte dei nostri temi forti”.
Quali sono stati, invece, i momenti di maggiore affanno?
“Ci sono stati momenti sicuramente non facili in questi mesi. In Siria ad esempio, non siamo riusciti sotto la nostra presidenza, non per colpa nostra ma perché c’è stato un veto di un membro permanente, a rinnovare un meccanismo di responsabilità sugli attacchi con le armi chimiche in Siria (il JIM, fermato tre volte dalla Russia, ndr). Questo sicuramente è stato un peccato, abbiamo fatto di tutto. L’altro dossier difficile è stato sicuramente quello nord-coreano. Il dossier forse più rischioso oggi per la pace mondiale e che comporta un rischio di proliferazione di armi nucleari e di missili balistici”.

I diritti umani sono stati uno dei vostri cavalli di battaglia quest’anno. In particolare, però, sul fronte nord-coreano per interessi internazionali e sul fronte libico per interessi nazionali, spesso non è stato facile far passare certe posizioni in relazione alla protezione dei diritti umani. Cosa siete riusciti a fare di più, sia da presidenti del Consiglio che da presidenti della Commissione 1718 sul controllo delle sanzioni, e cosa non siete riusciti a fare, dove non siete riusciti ad arrivare?
“Nel caso libico abbiamo avuto, un mese fa circa e durante la nostra presidenza, quel servizio della CNN che ha fotografato una situazione purtroppo reale, cioè gli abusi commessi sui migranti nei campi in Libia. Per questo motivo la nostra posizione è sempre stata quella di dire: dobbiamo gestire i flussi di immigrazione insieme alle autorità libiche e con le organizzazioni internazionali come UNHCR, ma non possiamo certo giustificare la violazione dei diritti umani, che quindi vanno perseguite. Bisogna che lo stesso governo libico, perché ricordiamolo esiste un governo in Libia, e le organizzazioni internazionali operino e incalzino gli attori delle violenze, affinché queste violazioni finiscano. Per questo, l’Alto Commissariato per i rifugiati e l’ONU in generale devono tornare in Libia, perché saranno meglio in grado di evitare questi abusi. L’Italia comunque, ben prima del video della CNN, aveva portato all’attenzione del Consiglio di Sicurezza, ed è un tema tra l’altro non facile da gestire in Consiglio, il tema dei traffici di umani, e non solo quelli in Libia. Credo che l’Italia su questo possa rivendicare il fatto che siamo stati i primi a mettere sul tavolo questo tema”.
E sulla Corea del Nord, cosa si sta facendo? Gli ultimi report dimostrano che la situazione è altamente a rischio, dal punto di vista dei diritti umani, per il popolo che vive nel regime di Pyongyang.
“Come Presidenti del comitato sanzioni dobbiamo fare attenzione alle violazioni dei diritti umani riconosciute: c’è situazione umanitaria difficile, sì, e come presidenti abbiamo sempre cercato di fare tutto il possibile per evitare che il rigido sistema sanzionatorio possa avere un impatto sulle persone. Esistono dei meccanismi e li stiamo mettendo in atto”.
L’Italia è la prima forza occidentale per quanto riguarda contributo dei caschi blu. Quanto conta essere all’interno del Consiglio di Sicurezza per riaffermare questo ruolo? Crede che i messaggi da lei inviati nel corso dell’anno siano stati ricevuti?
“L’Italia è il principale Paese occidentale per numero di caschi blu nelle missioni di pace. La quasi totalità di loro sono impiegati in Libano per la missione UNIFIL. Su questo aspetto, l’Italia ha una grandissima tradizione di operazioni di pace, e ci viene riconosciuto: si parla non a caso di ‘metodo italiano’ che coniuga bene l’elemento militare con quello civile e l’assistenza della popolazione. Nel caso del Libano, dato che siamo i principali contributori di truppe, quando si è trattato di rinnovare la missione UNIFIL in Consiglio, abbiamo fatto in modo ad esempio che la nostra voce fosse ascoltata”.
Noi de La Voce di New York scrivemmo che in quell’occasione tirò un po’ le orecchie alle potenze mondiali…
“Sì, alcuni dei principali attori, due membri permanenti in particolare, avevano ascoltato certamente ma non completamente cosa volessimo e quale fosse la nostra posizione. Quindi, allora, tirammo un po’ le orecchie per trasmettere al meglio le nostre richieste. Alla fine però la nostra posizione è stata rispettata e abbiamo ottenuto quello che volevamo”.
Ma non teme ora che il peso dell’Italia sulle grandi questioni internazionali, uscendo dal Consiglio di Sicurezza, svanisca?
“L’Italia rimarrà comunque presente per il prossimo anno in Consiglio, attraverso l’accordo con l’Olanda. Anche quest’anno l’Olanda del resto ha fatto lo stesso con noi (in virtù della divisione del seggio, ndr). L’Italia è un Paese non piccolo ed è molto rispettato all’ONU: su molti dossier sui quali abbiamo diretto interesse, da Libia a Libano e nella regione del Sahel in genere, la nostra posizione sarà comunque ascoltata. Ricordiamo ad esempio che sulla questione libica, ben prima dell’insediamento in CdS, la nostra missione già partecipava assieme ai membri del Consiglio alle decisioni, alla fase decisionale insomma, in vista della seduta. L’Italia ha la capacità, ha l’autorità e ha il peso sufficiente per essere ascoltata anche da fuori”.

Riforma del Consiglio di Sicurezza: già vent’anni fa, quando lei era ‘press officer’ dell’ambasciatore Fulci, si parlava di questa riforma ma mai nulla è stato fatto in questo senso. Dopo un anno all’interno dell’aula, cosa va riformato?
“Sì, l’Italia iniziò con l’ambasciatore Fulci una lunga battaglia, che ancora dura, per una riforma, non per impedirne una. Crediamo infatti che il Consiglio di Sicurezza andrebbe riformato. Anche perché è rimasto, se pensiamo, sostanzialmente lo stesso da 76 anni a questa parte, ecco. Vediamo allo stesso tempo come invece il mondo si sia invece evoluto e abbia avuto degli sviluppi enormi dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. Quindi anche il CdS dovrebbe evolvere. Ma dovrebbe farlo per essere più inclusivo, più trasparente, più democratico, senza aggiungere ulteriore elementi di privilegio”.
Quando parla di elementi di privilegio, a chi o a cosa si riferisce?
“Ad esempio, ci sono dei Paesi che aspirano ad avere un seggio permanente nel Consiglio. Ci sono già 5 Paesi membri permanenti con diritto di veto e sappiamo quanto il fatto che esistano e che esista lo strumento del veto, a volte, condizioni tutto. Con tutto il rispetto ovviamente, e rispettando le loro prerogative che la Carta ONU concede, ma quante sono le difficoltà a volte”.
E quindi?
“Quindi noi come Italia non chiediamo di eliminare i membri permanenti attuali, ma chiediamo che, se ci sarà una riforma, questa non comporti nuovi seggi permanenti che aumenterebbero l’elitarietà del Consiglio di Sicurezza anziché diminuirla”.

Nel vostro anno di Consiglio avete assistito all’esordio dell’amministrazione Trump e dell’ambasciatrice Nikki Haley (che qualche ora dopo a questa domanda avrebbe pronunciato la frase poco diplomatica, su Twitter: “We will be taking names”, in relazione al voto su Gerusalemme previsto giovedì 21 dicembre all’Assemblea Generale, ndr): da clima a cultura, da patto ONU sui migranti al veto su Gerusalemme, gli Stati Uniti si sono spesso allontanati dal resto della comunità internazionale. Siete stati sorpresi da qualcuna di queste posizioni o grosso modo è accaduto quello vi aspettavate? C’è qualcosa che vi ha spiazzato?
“No, l’Amministrazione Trump aveva fatto con il suo Presidente alcuni annunci in campagna elettore prima e ora li sta mantenendo, quindi non ci sono particolari sorprese. Va detta anzi una cosa, e in positivo: a fronte di alcune dichiarazioni all’inizio molto critiche verso le Nazioni Unite, credo invece che il lavoro di Haley sia stato quello di portare gli USA ad avere una posizione di supporto alle Nazioni Unite e non di ritiro. Ritiro che sarebbe ovviamente drammatico per l’organizzazione, perché gli USA sono i primi finanziatori e quindi i primi sostenitori”.
In che modo Haley ha assunto questa posizione nei primi dieci mesi?
“Beh, ha dimostrato di avere un atteggiamento molto pragmatico, molto positivo. Ha portato anche Donald Trump all’Assemblea Generale per la riunione con il Segretario Generale Antonio Guterres, dove è stato sostenuto lo sforzo di riforma portato avanti dallo stesso Guterres. Quindi credo che gli americani abbiano imboccato all’ONU una strategia positiva. Chiedono cambiamenti, certo, ma questi li chiediamo tutti, perché l’ONU deve diventare più flessibile, più leggera e deve essere più efficace, per affrontare le sfide odierne”.

E a che punto siamo per quel processo di riforma targato Guterres?
“È un processo lungo per cui ci vorrà tempo. La riforma dovrebbe toccare il comparto delle missioni di pace, così come il comparto management (gestione e burocrazia) e le proposte di Guterres in discussone dagli stati membri. Sono proposte interessanti, ma ci vorranno mesi per vederle concretizzare o meno”.
Come ogni giovane, entrando nella carriera in diplomazia, avrà avuto diverse aspettative. Ora che è diventato ambasciatore all’ONU e ha servito l’Italia al Consiglio di Sicurezza, si sente realizzato? Quali aspettative per il 2018?
“Realizzato sì perché questi quattro anni di incarico all’ONU sono stati intensi, abbiamo partecipato a tante decisioni delicate per la politica estera italiana. Ovviamente l’aspettativa di realizzarsi sempre di più è sempre presente, anche con l’andare dell’età, quindi spero che i prossimi incarichi siano altrettanto interessanti, stimolanti”.
*Intervista a cura di Davide Mamone e Stefano Vaccara. Montaggio a cura di Giulia Pozzi. Testo di Davide Mamone.