Il Myanmar incolpa i terroristi, il Bangladesh ribadisce la posizione espressa in Assemblea Generale, mentre il Segretario Antonio Guterres chiede al Consiglio di Sicurezza di fare presto e di intervenire prima che sia troppo tardi. Così, dal Palazzo di Vetro di New York, le Nazioni Unite hanno affrontato nel pomeriggio di giovedì 28 settembre il dramma umanitario dei Rohingya, che si sta consumando in Birmania.

Uccisioni, villaggi bruciati, stupri: in Myanmar sono almeno 500mila gli appartenenti all’etnia musulmana dei Rohingya che si sono visti costretti, in una manciata di settimane, a fuggire nel confinante Bangladesh per non essere trucidati. L’inasprimento della situazione, già da tempo precaria, ha avuto inizio il 25 agosto, con l’Esercito per la Salvezza dei Rohingya che ha preso d’assalto centinaia di postazioni governative per difendere la minoranza musulmana, oggetto di intimidazioni. Una mossa a cui il governo birmano, sotto l’ala di Aung San Suu Ky – la premio Nobel, che per anni proprio era stata soggetta a detenzione forzata proprio nella Birmania per la cui libertà aveva lottato –, ha risposto con una repressione ancor più aggressiva. Una vera e propria persecuzione, ritenuta inaccettabile dalla comunità internazionale, verso la minoranza etnica musulmana.
“Dal 25 agosto, la situazione è entrata in una spirale che l’ha portata a diventare una delle emergenze di rifugiati tra le più rapide nel mondo e un incubo umanitario e per i diritti umani” ha detto un contrariato Segretario Generale Antonio Guterres in apertura di Consiglio di Sicurezza (min. 01:20). Guterres che già nel corso della conferenza stampa alla vigilia della 72esima Assemblea Generale ONU aveva espresso la sua preoccupazione per la situazione in Myanmar, inviando un’insolita – per la prassi degli ultimi due decenni – lettera formale al Consiglio di Sicurezza, e chiedendo di intervenire. Nel corso del suo intervento di giovedì 28 settembre, il Segretario Generale ha ribadito tre richieste immediate al governo del Myanmar: “Primo, porre fine alle operazioni militari. Secondo, permettere un accesso pieno agli aiuti umanitari. Terzo, assicurare un sicuro, volontario, dignitoso e sostenibile ritorno dei rifugiati nelle loro aree d’origine”. In questo processo, due saranno le necessità. Da una parte, utilizzare la dichiarazione d’intenti già sottoscritta nel 1993 tra i Ministri degli Esteri di Bangladesh e Myanmar, come base per le trattative. Dall’altra, concedere la nazionalità del Myanmar ai musulmani Rohingya, della quale spesso sono sprovvisti: “Tutti devono essere in grado di ottenere uno status giuridico che permetta loro di condurre una vita normale, che includa la libertà di movimento e l’accesso ai mercati del lavoro, dell’istruzione e ai servizi sanitari”, ha precisato Guterres.

Guterres ha infine evidenziato la necessità di rinsaldare la cooperazione regionale con il Myanmar, un “processo in cui le Nazioni Unite dovranno essere pienamente coinvolte”. Un processo, però, che non sembra semplice perché sia Birmania che Bangladesh hanno dimostrato in Consiglio di Sicurezza di voler tirare acqua al proprio mulino. Il Myanmar si è difeso, tramite l’intervento dell’ambasciatore Hau Do Suan. Suan ha prima negato ogni genere di discriminazione: “Abbiamo provveduto l’assistenza a tutte le persone che ne avevano necessità, senza discriminazione, in accordo con i principi umanitari”. Poi ha esteso “l’invito al Segretario Generale Antonio Guterres di visitare il Myanmar per valutae la situazione”. Infine ha ammesso che esiste una situazione di crisi all’interno del territorio birmano, ma dovuta non alla repressione del suo governo, quanto all’azione di gruppi terroristici idealmente vicini ad Al-Qaeda: “La maggior parte delle persone è impaurita da loro”. Dall’altra parte, invece, il Bangladesh ha confermato la posizione già espressa durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: “La crisi di oggi è nel territorio del Myanmar e la soluzione la si deve trovare in Myanmar”, ha detto

l’ambasciatore Masud Bin Momen, ribadendo la posizione del suo presidente Abdul Hamid. Maud Bin Momen che ha poi sottolineato come sia compito della “comunità internazionale proteggere pienamente e senza condizioni la minoranza dei Rohingya” e ha chiesto al governo del Myanmar di “assicurare pieno accesso umanitario alle organizzazioni ONU”, pur esprimendo solidarietà “alle forze di sicurezza birmane attaccate da gruppi terroristici”.
In questo contesto di incertezza, la condanna forte è arrivata anche dagli Stati Uniti, tramite la sua ambasciatrice Nikki Haley, che ha lanciato una frecciatina evidente al Premio Nobel Aung San Suu Kyi: “I senior leader birmani, che hanno sacrificato così tanto della loro vita per una Birmania più aperta e democratica, dovrebbero provare vergogna”.

Poi, parlando per quella che “sembra essere una pulizia etnica contro la minoranza Rohingya”, Haley si è rivolta direttamente al popolo birmano: “Mi appello alla bontà e alla speranza per il futuro che caratterizza il cuore della stragrande maggioranza di voi. L’obiettivo di una Birmania aperta e democratica è ancora possibile. Tenete bene a mente questo obiettivo e non rinunciatevi, non siate soddisfatti dei vostri leader che hanno deciso invece di abbandonarlo”.

Intanto, mentre all’orizzonte è in programma una conferenza dei donatori organizzata dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) per fare il punto su ciò che si dovrà fare per garantire l’accesso umanitario ai rifugiati Rohingya dal Bangladesh, l’Italia è intervenuta sostenendo la posizione del Segretario Generale Antonio Guterres. Nell’evidenziare come la risposta dovrà essere globale e come sia necessario seguire le tre richieste pervenute da Guterres, l’ambasciatore Sebastiano Cardi ha sottolineato che l’Italia sarà “pronta a prendere in considerazione ulteriori azioni costruttive da parte di questo Consiglio e rimane impegnata nella transizione democratica del Myanmar”.