A Parigi è un venerdì sera come tanti altri. Sono da poco passate le 21 quando Federico mette a letto il suo bambino di un anno e mezzo, lo prende in braccio e gli canta la ninna nanna, come sempre. Mentre i suoi piccoli occhi lentamente si chiudono, Matteo sta uscendo da teatro. Di anni ne ha 35, ride spensierato finché il telefono non inizia a squillare in modo strano, troppo insistente. A poche centinaia di metri dalla casa di Federico è in corso una carneficina e le agenzie di stampa cercano testimonianze, testimoni oculari. Sia Federico Iarlori che Matteo Pellegrinuzzi sono giornalisti, Matteo è anche un fotoreporter. “Ho deciso che non sarebbe servito a niente uscire a fotografare i fatti di una notte di follia”. Follia.
Sette attentati in poche ore, diverse sparatorie, è il terrorismo che arriva nei luoghi del divertimento parigino e fa un massacro da 128 morti, 250 feriti di cui 99 gravi. Viene colpito lo stadio, un ristorante cambogiano del decimo arrondissement della città con colpi di kalashnikov. Una sparatoria sulla rue de Charonne, nell'XI arrondissement di Parigi, altri colpi di arma da fuoco a boulevard Beaumarchais e a Faidherbe, tutti luoghi a pochi metri da place de la Bastille. Settanta persone all’interno del teatro Bataclan diventano da spettatori di un concerto metal ostaggi, freddati uno a uno. L’ISIS rivendica l’attacco, il presidente francese Francois Hollande proclama tre giorni di lutto nazionale, chiude le frontiere e dichiara lo stato di emergenza Alpha Rouge, la prima volta del livello di allerta massima, riservato agli attentanti multipli. "Le forze di sicurezza e l'esercito sono mobilitate al massimo livello", dichiara il presidente in diretta TV. Eppure la sicurezza dopo Charlie Hebdo a Parigi già c’era, ma non è bastata.
“Abito non lontano dai luoghi degli attentati – racconta Federico Iarlori – dopo aver messo a letto mio figlio sono andato in cucina, ho preparato la tavola per la cena e nel frattempo ho gettato un occhio alla partita di calcio, Francia-Germania, in diretta dallo Stade de France. Ad un certo punto la mia compagna mi ha parlato di una sparatoria. Inizialmente ho pensato ad un fatto di cronaca come un altro, poi gli aggiornamenti si sono susseguiti, le sparatorie sono diventate 3 e i morti 18. Ho pensato: ci risiamo. Subito sono stato assalito dai brividi dell'attentato a Charlie Hebdo, ho ripensato alla veglia in Place de la Repubblique, a quel freddo dello scorso gennaio, d'un tratto così vicino”.
Niente sarà più lo stesso, nella vita di Federco Iarlori come in quella di tanti altri: “Dopo un attentato del genere ti senti un po' come chi ha avuto i ladri in casa. Ti senti violato nella tua intimità quotidiana. L'attentato a Charlie Hebdo era orientato verso un obiettivo ben preciso, marcatamente ideologico. Questa volta l'obiettivo è molto più ampio; è indirizzato verso uno stile di vita. Quello occidentale. Quello del 'divertimentificio', della spensieratezza e della festa notturna. Colpire un venerdì sera il quartiere delle uscite serali dei giovani parigini è un messaggio ben preciso: 'Non c'è niente da ridere, non pensate di essere al sicuro'. È chiaro quindi che ci sentiremo tutti più vulnerabili. Ma non è tutto. Il fatto che Daesh abbia rivendicato gli attentati aprirà degli scenari inquietanti dal punto di vista politico. È inevitabile che – per quanto Hollande possa gestire bene la situazione – c'è il rischio che il vero vincitore politico sia Marine Le Pen, che non perderà l'occasione per strumentalizzare gli avvenimenti a favore della sua politica xenofoba”.
Federico vive a Parigi da cinque anni ma la frequenta da 10. “Mio figlio è nato qui. La Francia è anche un po' il mio Paese. Per tutti quelli che come me sono cresciuti abbracciando i principi di laicità che da sempre contraddistinguono la cultura e la tradizione francese, gli attentati a Charlie Hebdo e quelli di ieri sono ferite difficili da medicare. Ma al di là di questo, credo che faccia poca differenza essere francesi, italiani o spagnoli. Non si tratta di un attacco alla Francia, ma di un attacco all'Occidente. A quell'Occidente che bombarda senza pietà il Medio-Oriente; a quell'Occidente capitalista che non crede più in niente se non al consumo. Loro, invece, credono. E sono pronti a morire per quello in cui credono”.
Eppure qualcosa nell’aria parigina era cambiato già da dopo l’attacco al giornale Charlie Hebdo: l’inserimento del piano Vigipirate ad esempio, con soldati dell’esercito che presidiano i posti a rischio, come scuole, luoghi di culto, locali di forte affluenza. “Da allora i luoghi di culto, in particolare sinagoghe e moschee, sono stati costantemente presidiati da soldati armati. Che Parigi sia una bomba ad orologeria lo sappiamo tutti da tempo: le tensioni religiose tra ebrei e musumani e i pamphlet di intellettuali e opinion leader più o meno dichiaratamente anti-Islam hanno trasformato da un pezzo Parigi in una polveriera che è già esplosa e che può esplodere ancora da un momento all’altro”.
Il racconto di Matteo Pellegrinuzzi, il fotogiornalista non si discosta poi molto da quello del suo connazionale, almeno in quanto a sorpresa: “Mi sono reso conto della gravità della situazione quando il mio telefono ha cominciato a suonare: amici, parenti, ma soprattutto agenzie di stampa che volevano notizie sull’accaduto”. L’indomani dell’attacco ha tanta rabbia, “rabbia perché è passato meno di un anno da Charlie, perché qui in Francia è in atto questo piano chiamato Vigipirate che non ha impedito che 120 persone morissero in zone dove vado spesso. Proprio ieri sera alcuni amici mi avevano invitato in quella zona e si trovavano a due passi dal Bataclan”.
“Ho passato tutta la notte a casa di un amico davanti alla televisione, eravamo in 6 – prosegue Matteo – Stamattina sono rientrato a casa mia che non è distante dal Bataclan, ho visto persone che andavano a comprare il pane, bambini con il monopattino. Probabilmente meno gente del solito, ma se non avessi saputo quello che è successo ieri notte, mi sarebbe sembrato un sabato qualunque”.
Essere italiani e abitare altrove, vivere un attacco ad un paese che non è il tuo ma che forse è anche il tuo e per questo un po’ riesci a capirlo. “Vivo a Parigi da 7 anni, ho visto la Francia in crisi rialzarsi in breve tempo più volte. I francesi hanno molti difetti, ma sono molto uniti e solidali in queste situazioni. Con il Vigipirate, i soldati con il mitra pattugliano le strade. Ci si fa l’abitudine, li si saluta rientrando a casa. Io non lo so se Parigi sia una bomba ad orologeria, ma sicuramente è la città europea più a rischio perché insieme alla Germania guida l’Europa, perché c’è una forte componente di immigrati che rimangono emarginati. L’emarginazione provoca disagio e il disagio porta alla rivolta. È già successo anni fa con la rivolta delle banlieues. Ora forse sta succedendo in un modo diverso. È vero, ho deciso di non scendere in strada a fare foto. Credo che valga la pena però raccontare questa storia da un altro angolo, prenderla in maniera più ampia per cercare di capire non tanto cosa e come, ma il perché tutto questo è successo”.