L’ambasciatore Cesare Ragaglini con il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon
NEW YORK. Siamo andati a trovare, alla vigilia di Natale, l’ambasciatore Cesare Ragagliani all’indomani di vittorie importanti per l’Italia all’Onu e per i diritti umani nel mondo. Stiamo parlando soprattutto della risoluzione, votata martedì 21 dicembre, sulla moratoria internazionale per la pena di morte. È passata con 109 voti, un bel successo, una bella vittoria, proprio un bel regalo di Natale.
Ambasciatore Ragaglini, ci racconti…
«La pena di morte è stata sempre un cavallo di battaglia dell’Italia alla Nazioni Unite. Nel 2007 siamo arrivati alla moratoria con l’obiettivo, certamente nel tempo, per l’abolizione di questo tipo di condanna. Nel 2007 ci furono 104 voti positivi. Nel 2010 abbiamo raggiunto 109 voti, che conferma quella marcata tendenza che lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite aveva sottolineato nel suo rapporto, cioè la membership dell’Onu che in maggioranza va verso la moratoria e quindi verso l’abolizione della pena di morte. Abbiamo migliorato i voti che avevamo raggiunto nella terza commissione un mese fa. Io ho fatto una campagna molto attiva sui miei colleghi, a soli dieci minuti prima del voto sono riuscito ad ottenere ulteriori due voti…»
Di quali paesi erano gli ambasciatori?
«I paesi non si dicono, ma ci sono stati due voti presi all’ultimo momento dopo un colloquio avuto dieci minuti prima del voto».
In zona cesarini...
«Direi quasi in zona Mazzarri, dall’allenatore del Napoli che vince le partite nei minuti di recupero. Questo ci da la misura di quanto l’Italia si sia impegnata e quanto ci venga riconosciuto da tutti i nostri partner. Grande soddisfazione per il nostro paese che nel tempo, con gradualità, senza imposizioni, cerca di raggiungere l’obiettivo finale».
Ma concretamente cosa si è raggiunto? Le risoluzioni dell’Assemblea generale hanno un grande peso morale e politico, ma non sono vincolanti. Questa terza risoluzione sulla moratoria della pena di morte, che efficacia avrà?
«Intanto con le tre risoluzioni noi siamo passati da 79 paesi completamente abolizionisti nel 2004, a ‘95 nel 2008. Questo significa che vi è una specie di moral suasion nei confronti dei paesi membri delle Nazioni Unite, che vedendo questo trend favorevole verso la moratoria, alla fine finiscono per adottare una moratoria di fatto o addirittura ad abolirla de jure. Questo è un risultato estremamente concreto che da la misura di quanto siano importanti anche le risoluzioni dell’Assemblea generale che non hanno un valore vincolante. La risoluzione che abbiamo approvato martedì, non solo riafferma i principi del 2007, ma aggiunge una serie di salvaguardie in modo da restringere l’applicazione nei paesi che ancora eseguono la pena di morte. In particolare escludendo i minori e le persone con disabilità mentali e nel chiedere ai paesi di rendere disponibile tutte le informazioni relative alle esecuzioni. Questo per rendere possibile un dibattito trasparente all’interno di questi paesi ma anche alle Nazioni Unite. Senza intenti punitivi, senza mettere all’indice certi paesi, ma certamente per ampliare la possibilità di discutere di questa tematica così importante per l’attuazione dei diritti umani e quindi progressivamente arrivare ad un altro voto positivo nelle prossime risoluzioni».
Osservando la "strana alleanza" tra i paesi che erano contrari a questa risoluzione sulla moratoria, come gli Stati Uniti finite insieme alla Cina, all’Iran… ecco tra coloro che cercano di mettere il bastone tra le ruote della moratoria, c’è chi ci mette una particolare convinzione e chi resta a guardare senza veramente agire?
«Come nel passato, alcuni si e altri no. Alcuni, pur avendo la pena di morte, non hanno fatto una particolare campagna contro la risoluzione, altri invece sono più convinti assertori di questo tipo di condanna e hanno cercato di ostacolarne la sua approvazione. Abbiamo aumentato di due voti il risultato già avuto in commissione un mese fa, e questo dimostra che i paesi che ritengono che la moratoria sia di fondamentale importanza sono largamente superiori a quelli che si oppongono».
Tra i paesi che si opponevano alla risoluzione sulla pena di morte c’è l’Egitto, proprio quel paese invece sta lavorando accanto all’Italia per un altra risoluzione sui diritti umani, quella sulle mutilazioni genitali femminili. Quando il ministro Franco Frattini è venuto all’Onu lo scorso settembre, sembrava che la presentazione della risoluzione all’Assemblea generale sarebbe arrivata entro Dicembre. Invece è stata rimandata. Cosa sta succedendo?
«In realtà non erano stati posti vincoli temporali ma si era parlato di una possibile approvazione nel corso della 65 sessione che terminerà nel settembre 2011. Noi ci stiamo impegnando moltissimo, abbiamo creato un gruppo di paesi che sono in favore dell’abolizione di questa pratica. L’anno scorso insieme a questi paesi abbiamo lavorato affinché fossero inseriti dei passaggi importanti sulle mutilazioni genitali femminili durante la risoluzione del "Child Care" approvata nel 2009. Poi la commissione sulla condizione femminile, a marzo ha approvato una risoluzione sulle mutilazioni genitali femminili anch’essa molto importante. Organizzammo un evento con il ministro Mara Carfagna e con il ministro egiziano e la first lady del Burkina Faso con grande interesse dimostrato dai paesi africani. Poi è giunta l’iniziativa di provare ad avere una risoluzione all’Assemblea generale dell’Onu sulle mutilazioni genitali. Abbiamo fatto una campagna a tutto campo per convincere i paesi africani ad appoggiarla. Ci sono state molte riserve, non già sulla sostanza, perché i paesi africani che hanno questa pratica, che non è di carattere religioso ma di carattere culturale e tradizionale, avevano una riserva sull’opportunità dei tempi, perché la commissione sulla condizione femminile aveva approvato una risoluzione chiedendo al segretario generale Ban Ki moon un rapporto sulla questione nel 2012. Per cui la vera obiezione era: aspettiamo il rapporto, nel frattempo lavoriamo ad altre iniziative e poi nel 2012 si presenta la risoluzione. Noi abbiamo insistito devo dire insieme agli egiziani…»
Noi sulla questione abbiamo intervistato il vicepresidente del Senato Emma Bonino che era qui all’inizio di Dicembre per continuare ad essere molto attiva…
«Non c’è pace senza giustizia si è mossa molta su questa vicenda e naturalmente la rete diplomatica italiana è quella che ha fatto il lavoro essenziale, abbiamo lavorato qui a New York con i paesi africani e gli uffici dell’Onu ma anche su tutta la rete delle nostre ambasciate in Africa. La questione delle mutilazioni genitali femminili riguarda sostanzialmente i paesi africani. Tutto il lavoro che abbiamo fatto negli ultimi mesi, era proprio non già quello di assumere una leadership che riguarda i paesi africani, ma sostenere e facilitare questi paesi affinché mantenessero questa ownership su una questione che li riguarda direttamente. Abbiamo dovuto anche cercare di fugare i dubbi sul sospetto che l’Italia volesse appropriarsi di questa iniziativa che è sempre stata Africana, pur con un appoggio convinto, determinato e visibile dell’Italia sulla questione. Quindi c’è stata la necessità di un grande recupero, anche psicologico oltre che politico, dei paesi africani per riportarli su una questione di cui avevano avuto una sensazione errata, ma che avevano e quindi dovevamo rimediare, che noi volessimo appropriarci di questa questione. Così abbiamo coinvolto i paesi africani che ci erano più vicini e che erano d’accordo sulla presentazione della risoluzione all’Assemblea generale, tra questi l’Egitto e il Burkina Faso. Ora questi paesi stanno ripetutamente parlando e discutendo con quei paesi del gruppo africano affinché si arrivi ad un consenso sulla risoluzione. Non sarà una cosa semplice, non abbiamo la certezza che nel 2011 questa risoluzione venga presentata, perché ovviamente non può che essere presentata dai paesi africani e non può essere che adottata con il loro consenso. Non è una battaglia quella che stiamo facendo ma bensì un’azione diplomatica molto complessa, delicata, che deve portare i paesi africani ad essere convinti di prendere questa iniziativa».
Quindi molta pazienza, senza farsi prendere dalla fretta…
«Pazienza e ci vuole molto tatto, occorre lavorare sui quei valori comuni e soprattutto porre l’accento su quelli che sono gli strumenti essenziali per sradicare questa pratica, i progetti e i programmi sociali che possano spingere le comunità a rinunciare a questa pratica. Dopo le festività riprenderemo questa iniziativa, già dopo questa nostra intervista, questa mattina incontrerò l’ambasciatore egiziano per fare il punto della situazione e programmare le prossime mosse per gennaio».
C’è stata, sempre questa settimana, un’altra grande vittoria della diplomazia italiana all’Onu, con l’approvazione all’Assemblea generale di una risoluzione sul crimine organizzato che, per il consenso ricevuto, è stata definita eccezionale e storica. Ci spieghi il ruolo avuto dall’Italia.
«Noi abbiamo presieduto questo lavoro negoziale che riguarda la risoluzione sul rafforzamento del programma di prevenzione del crimine e di giustizia penale. L’Italia è particolarmente impegnata nella lotta alla criminalità organizzata, in Italia e nel mondo. Alle Nazioni Unite ha assunto questo ruolo di leadership, confermato con una forte attività svolta nel 2010. Questa risoluzione è il frutto del lavoro iniziato nella riunione di alto livello che fu fatta all’Assemblea generale lo scorso giugno, in cui parteciparono il ministro dell"interno Roberto Maroni e il ministro della Giustizia Angelino Alfano, sul crimine organizzato transnazionale. La organizzammo insieme al Messico e ci fu una larga partecipazione. Da quella riunione che l’Italia presiedeva è nata questa risoluzione. Questa è importante dal punto di vista sostanziale perché pone la questione del crimine organizzato al centro delle iniziative delle Nazioni Unite, perché viene definito, in coerenza anche con la dichiarazione politica che fu adottata nel G8 dell’Aquila, come una minaccia per la pace e per la sicurezza internazionale, allo sviluppo economico e sociale e alla tutela dei diritti umani. Cio’ significa che questa questione e tutte le sue conseguenze diventeranno un fattore fondamentale nei lavori dell’Onu. Ma questa risoluzione è importante anche perché rappresenta un record per le Nazioni Unite. Per la prima volta ben 132 paesi, più dei due terzi dei membri dell’Onu, hanno co-sponsorizzato l’iniziativa, e tra i co-sponsor, per la prima volta ci sono tutti i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Significa che il crimine organizzato è percepito dai membri delle Nazioni Unite veramente come una minaccia alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo, e al godimento dei diritti umani. Che è necessario combattere il crimine organizzato in tutte le sue forme attraverso tutti gli strumenti che l’Onu mette a disposizione degli stati membri. E dimostra anche le capacità dell’Italia di poter aggregare il consenso su certe tematiche sulle quali ha una leadership indiscussa, come quella della lotta al crimine organizzato nelle sue varie forme».
L’ultima domanda riguarda una questione delle Nazione Unite che tiene sempre in allerta la diplomazia italiana. Si tratta della riforma del Consiglio di Sicurezza. Il recente viaggio del presidente Barack Obama in India ha rilanciato la candidatura di quel paese, insieme al Giappone, per ottenere un seggio permanente. Allo stesso tempo il presidente francese Nicholas Sarckozy negli ultimi mesi ha rilasciato dichiarazioni che rilanciano il seggio permanente per la Germania (e anche il Brasile, ndr). Lei stesso durante una conferenza stampa ha esortato l’Unione europea a svegliarsi. Ci spieghi meglio la posizione dell’Italia e del perché resta assolutamente contraria all’aumento di seggi permanenti nel Consiglio di sicurezza.
«Queste manifestazioni di sostegno che nell’ultimo mese hanno avuto luogo in favore dell’India come possibile membro permanente in una riforma del Consiglio di sicurezza che potrebbe configurarsi anche con nuovi membri permanenti, ha due valenze. La prima è che i paesi che danno questo sostegno hanno praticamene riconosciuto che l’India è un grande paese ulteriormente cresciuto, un paese in espansione, e seppur con molte contraddizioni è comunque un paese che comincia ad avere progressivamente interessi globali. Questo è un fatto, oltretutto per un paese che ha oltre un miliardo di abitanti. È anche un modo abbastanza poco costoso di assicurarsi contratti commerciali con quel paese. E dico poco costoso perché la riforma del CdA non è proprio per domani mattina, come lo stesso presidente Obama ha spiegato. E anche questo è un fatto. Secondo fatto è che progressivamente negli ultimi anni ci sono degli attori internazionali che sono cresciuti e che si atteggiano a protagonisti delle relazioni internazionali e che ritengono di poter assumere maggiori responsabilità. Tutto questo è vero e tutto questo lo sapevamo. Naturalmente l’Italia non ha nulla contro delle legittime aspettative di paesi che possono pensare di avere un certo tipo di riforma del Consiglio di Sicurezza. Noi riteniamo che il CdS non sia in grado di rispondere in maniera efficace e rapida a quelle che sono le sfide alla sicurezza e alla stabilità internazionale. Riteniamo anche che per una sua maggiore efficacia, il CdS debba essere riformato non già con l’aggiunta di nuovi membri permanenti, perché non farebbero che ingessare il CdS per sempre e non farebbero altro che aumentare i problemi che abbiamo oggi con gli attuali cinque membri permanenti, e in particolare con il loro diritto di veto. Non renderemmo il Consiglio di sicurezza flessibile, per i cambiamenti che sicuramente avranno luogo nei prossimi anni. Siccome si può immaginare che i membri delle Nazioni Unite inizierebbero nuovamente a ritenere che quel CdS non sia più particolarmente legittimo ed efficace e che non risponda più a quello che sono le esigenze che si presenteranno tra dieci anni, e quindi si inizi di nuovo a discutere, per altri dieci anni, di una riforma del Consiglio di sicurezza… Sarebbe semplicemente follia.
L’Italia pensa che dobbiamo riformare il CdS e questo debba essere fatto in maniera democratica, trasparente, e che debba essere maggiormente rappresentativo delle realtà che man mano si presentano sulla scena internazionale. Noi dobbiamo creare un CdS che abbia la flessibilità nella sua riforma e nella sua costituzione per poter essere di volta in volta modificato senza che vi siano combiamenti nella Carta dell’Onu, senza che 192 paesi debbano cercare di mettersi d’accordo per riformarlo ulteriormente. Per questo noi riteniamo che non debbano esserci nuovi membri permanenti, riteniamo che il CdS vada ampliato e da 15 si passi a circa 25 paesi, ma che tutti questi non siano membri permanenti, bensì nuovi membri non permanenti. Eventualmente anche con seggi di più lunga durata che oggi abbiamo per statuto. Questo tiene conto della realtà di oggi ma soprattutto tiene conto della realtà di domani, perché i nuovi membri non permanenti, sia con seggio di due anni sia con seggio di più lunga durata, sarebbero comunque eletti dall’Assemblea generale. Questo significa che fra dieci anni, quando nuovi attori internazionali si affacceranno al mondo e avranno la possibilità di assumersi maggiore responsabilità per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, potranno essere eletti da parte dell’Assemblea generale al posto di altri che forse in quel momento non saranno più in grado di assicurare le stesse performance nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite. E tutto questo senza bisogno di ulteriori riforme».
Quindi per l’Italia, leader del gruppo dei paesi chiamati "United for Consensus", una riforma che tenti di aumentare i seggi permanenti del Cds, non passerà mai?
«Quello che possiamo dire è che l’Italia ritiene di fare questa battaglia perché noi pensiamo che il nuovo CdS non dovrà avere nuovi membri permanenti e dovrà rispondere al principio di responsabilità. Che viene manifestato attraverso le elezioni. In modo che i nostri pari possano giudicarci e ritenerci idonei ad affrontare ed assumere maggiori responsabilità. Per quanto riguarda l’Unione europea, come lei ricordava prima, effettivamente assistiamo a degli eventi anche abbastanza curiosi. Ci sono due membri permanenti che appartengono all’Ue, la Francia e la Gran Bretagna, un retaggio storico della Seconda guerra mondiale. È evidente che i membri dell’Onu ritengono questa situazione anacronistica. Al tempo stesso la Carta prevede che qualsiasi modifica del CdS debba essere ratificato dai cinque membri permanenti e quindi realisticamente vediamo poco come Francia e GB possano ratificare una modifica che preveda la loro esclusione dal CdS. Abbiamo altri membri dell’Ue che si avvicendano nel sistema di rotazione e quest’anno ne abbiamo altri due, la Germania e il Portogallo. Quindi qualcuno potrebbe anche ritenere che l’Europa sia particolarmente ben rappresentata all’interno del CdS. Noi riteniamo che invece l’Europa, rappresentata in materia così frammentaria, da paesi che singolarmente non fanno il peso nelle relazioni internazionali, debba iniziare a riflettere seriamente, nello spirito del trattato di Lisbona, ad un seggio per l’Ue al CdS. Oggi ogni singolo paese europeo, per grande o importante che sia, non ha un ruolo efficace e credibile e non è in grado di risolvere le crisi internazionali. L’Unione europea, col suo peso politico e il suo peso economico, con la varietà anche culturale e la capacità anche di agire nei diversi scenari mondiali, avrebbe invece un impatto straordinario. Lo abbiamo fatto per la moneta comune, per l’euro che sembrava un’utopia, dobbiamo farlo per la politica estera. Ci vorrà un po’ di tempo ma non c’è alternativa".
Ringraziamo l’ambasciatore Ragaglini e gli facciamo gli auguri per Natale e soprattutto per il nuovo anno per l’Italia all’Onu.
«Anche io invio a tutti i lettori gli auguri per il Natale e per il nuovo anno».
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