Nonostante per mesi, sopratutto da Washington, siano arrivate notizie dell’imminente attacco russo su vasta scala contro l’Ucraina, il cosiddetto occidente appare in qualche modo sconcertato per l’azione militare scatenata da Putin contro il popolo fratello dell’Ucraina. Eppure è ampiamente noto che la costruzione della Russia, durante e dopo l’impero zarista, si sia fondata sulla conquista e lo sfruttamento delle popolazioni e delle risorse dei territori di prossimità. Di cosa sorprendersi?
Quel processo è andato avanti per addizione, in obbedienza al riflesso pavloviano granderusso che ha portato all’assorbimento di etnie e popoli aventi il solo torto di vivere addosso a frontiere che Mosca e San Pietroburgo hanno spostato e allargato, nel corso dei secoli, verso ogni punto cardinale.
Per corrispondere alla sindrome paranoica dell’accerchiamento, la Russia non ha esitato di fronte a nessun crimine. Il 17 settembre 1939, sedici giorni dopo l’attacco tedesco alla Polonia, varcò il confine occidentale prendendosi, come concordato con Hitler, la metà del paese oltre la Vistola. A seguire, tra settembre e ottobre, costrinse le tre piccole repubbliche baltiche – Lituania, Lettonia ed Estonia – a sottoscrivere accordi di assistenza reciproca che come immediata conseguenza ebbero l’ingresso dell’armata rossa nei tre territori e la costruzione di basi sovietiche. Nel giugno 1940 l’occupazione poteva considerarsi conclusa. I legittimi governi baltici dovettero farsi da parte; i presidenti di Estonia e Lettonia, imprigionati e deportati, finirono i loro giorni in Siberia. Nel 1939 Mosca aveva imposto la consegna di territori anche alla Finlandia, che non si era piegata al ricatto, subendo, da novembre, l’aggressione armata di Stalin. Tre mesi dopo la Finlandia aveva perso il 10% di territorio ma salvato una sovranità con forti limiti e neutrale. Il termine finlandizzazione entrava nel gergo della politica internazionale, significando come l’arroganza di una potenza armata possa limitare la libertà dei vicini.

La retorica della “grande guerra patriottica” contro il nazismo, con lo spaventoso numero di caduti sovietici, ha sepolto nell’immaginario collettivo russo, e sminuito nel giudizio di molti storici, contenuto e natura del patto firmato il 23 agosto 1939 da Vjačeslav Michajlovič Molotov, unico tra i grandi bolscevichi a sopravvivere alle purghe staliniane, con Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri e tra i capi della gang al potere a Berlino. A parte le mani libere per le conquiste territoriali, vi si stabiliva la reciproca non aggressione. Guardare alla Russia, senza dare la giusta rilevanza a quei comportamenti, è un errore di prospettiva storica, ed impedisce di comprendere la linearità del comportamento granderusso nei secoli, XXI incluso.
Il che risulta esiziale per il popolo russo, ingannato dalla retorica dei suoi capi, per i popoli di prossimità, per le nostre democrazie. Germania Italia e Giappone uscirono dal tunnel delle dittature fasciste grazie alla sconfitta nella Seconda guerra mondiale. La dittatura comunista, grazie alla vittoria bellica, consolidò il potere nell’Unione Sovietica e rafforzò i vizi originari dell’imperialismo russo, espandendone i miasmi sin nel cuore del continente europeo. In quel mito, si fissò in Europa quella che profeticamente Winston Churchill chiamò nel marzo 1946 la iron curtain, tra Berlino e mare del Nord. L’Europa di sud est scampò alle grinfie dell’orso russo, solo grazie alla risolutezza del maresciallo Broz Tito, l’atomica di Truman, il containment sul fronte greco e turco di George Kennan. Non scampa oggi l’Ucraina, alla frontiera di Putin e del suo vassallo Lukashenka, come ieri non poté farlo la Georgia.
Il processo di addizione, inesorabilmente ripetitivo nella storia russa, si è preso qualche pausa, è vero. Nel novecento accadde nella primavera del 1917, troppo tardi perché l’apertura occidentalizzante e l’annuncio di riforme interne potessero dare frutti, visto l’incombente turbine bolscevico. Di recente è accaduto con Gorbačëv, e soprattutto con El’cin. Si ammetterà che, messi nell’arco della storia, si tratti di periodi insignificanti.
Capiamo molto di quanto sta accadendo in questi giorni in Ucraina, se ragioniamo guardando alle frequenze constatate nella tecnica di governo granderussa, almeno da quando Ivan I (1332–1341) guidò la riscossa del granducato di Mosca contro i territori di prossimità.
Una volta consolidatasi, la supremazia russa ha funzionato secondo regole precise, adattandosi ai tempi, ma senza variare la sostanza dei comportamenti. La colonizzazione dei territori conquistati e lo sviluppo contestuale dello spirito di supremazia razzista, ha consentito ai russi di intervenire, in ogni situazione, per premiare la propria etnia e castigare le popolazioni autoctone, portando avanti contestualmente processi di assimilazione e russificazione, basati su una forma, esplicita o implicita, di dominio padronale o paternalistico. I baltici erano “fratellini”, gli ucraini “zotici contadini”, i caucasici “scuri di pelle”. Quando vi erano fenomeni di ribellione, la presenza delle minoranze russe nei paesi conquistati era utile a motivare aggressione e repressione degli autoctoni, tacciati di cospirazione antirussa. Nel novecento, l’ideologizzazione comunista innestata sulla tradizionale cultura imperiale granderussa avrebbe aggiunto un terzo elemento: il contrasto al nazifascismo. C’è un quarto elemento, riassuntivo: l’elezione di un governo fantoccio al servizio della Russia. Fu fatto nelle cosiddette democrazie popolari (mai visto regimi più impopolari, in realtà!) ed è il punto di arrivo al quale Putin aspira per l’odierna Ucraina, una volta percorsi gli altri tre. Per l’Ucraina vi è l’ulteriore rischio, anche questo sperimentato a più riprese nella storia granderussa, che di recente ha riguardato Crimea e autoproclamate repubbliche del Donbass: che un parlamento fasullo “si appelli” alla Russia per esserle annessa.
Tra ottocento e novecento, molte voci si sono alzate per spiegare la natura del potere russo. Tra quelle che piace qui ricordare, la più distante è di Marx Karl Heinrich, filosofo ed economista, padre involontario del comunismo sovietico. Ai russi, ha dedicato pagine pesanti, vedendo nell’autocrazia e nel legame di questa con le gerarchie della chiesa ortodossa, il peggior nemico della modernità sociale e politica. Come esempi Marx portava il comportamento di fronte alla rivoluzione francese e al messaggio del Bonaparte, e soprattutto l’azione poliziesca e assassina dentro e fuori dei confini, contro ogni spirito libero e progressista. Descrisse il ceto dirigente russo come una metamorfosi del principato di Moscovia, cresciuto “alla scuola terribile e abbietta della schiavitù mongolica”, aggiungendo che esprimeva una sete di potenza che non prevedeva limiti e che puntava alla conquista del mondo. Il filosofo non risparmiò neppure l’opera modernizzatrice di zar Pietro, verso il quale la sua teoria dello sviluppo umano, avrebbe dovuto suggerirgli almeno clemenza: ritenne che non aveva cambiato la natura russa, e che paradossalmente il suo dispotismo illuminato avesse contribuito a dotare quella società arcaica dei mezzi materiali della modernità necessari a raggiungere i suoi obiettivi.

Friedrich Engels, sodale di Marx, non fu da meno, accusando i russi di puntare a “soggiogare l’occidente civilizzato all’oriente barbaro, la città alla campagna, il commercio, l’industria, l’intelligenza all’agricoltura primitiva dei servi slavi”. Di fronte a certi movimenti politici interni alla Russia, Marx in parte modificherà il duro giudizio, non così Engels.
Quando, nel 1921, la frazione socialista che faceva capo ad Antonio Gramsci, lasciò il partito facendo nascere il comunismo italiano, il padre storico dei socialisti, Filippo Turati, si rivolse agli scissionisti che dichiaravano di voler “fare come la Russia”, con queste parole:
“Col tempo il mito russo sarà evaporato. Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo di cui voi farneticate la riproduzione meccanica che è storicamente e psicologicamente impossibile e, se possibile fosse, ci ricondurrebbe al Medioevo. Avrete capito allora che la forza del bolscevismo russo è nel peculiare nazionalismo che vi sta sotto e che è pur sempre una forma di imperialismo. Questo bolscevismo oggi si aggrappa a noi furiosamente a costo di dividerci, di annullarci, di sbriciolarci. Ma noi non possiamo seguirlo ciecamente, perché diventeremmo per l’appunto lo strumento di un imperialismo eminentemente orientale.”
Sulla componente orientale, nel senso di dispotica, nel 1957 scrive un fondamentale libro Karl Wittfogel. Analizzando le “società idrauliche” asiatiche e “il modo di produzione asiatico” vi colloca in modo stabile la Russia anche dopo la rivoluzione dell’ottobre. L’elemento centrale del dispotismo russo, nell’autore, sta, come per altre società asiatiche o semiasiatiche, nella strutturazione burocratica e militare dispotica. È essa a rendere lo stato più forte della società che lo genera, una supremazia che causa oppressione interna e inimicizia esterna. Guardando alle azioni di politica estera della Russia e alle sue continue aggressioni, Wittfogel si chiede se “la frontiera in perpetuo conflitto” fosse dipesa anche dalla natura dispotica dell’organizzazione russa di economia e potere. Ricorda che l’insieme della teoria sulla natura asiatica russa era stata attaccata frontalmente dagli ideologi sovietici all’inizio degli anni ‘30, salvo che gli stessi “ammisero cinicamente che le loro obiezioni erano ispirate da interessi politici e non da considerazioni scientifiche”.
Il quinto testimone è Vladimir Il’ič Ul’janov, più conosciuto come Lenin. Polemizzando con Stalin e le decisioni che ha fatto assumere contro i diritti delle nazionalità mentre il capo del comunismo si trova infermo in seguito all’attentato del 1918, dialoga con chi vuole tranquillizzarlo con la notizia che nella costituzione viene riconosciuto il diritto alla secessione degli stati che non volessero restare con la Russia. Gli scrive, il 30 dicembre del 1922, giorno della fondazione dell’URSS: ”In tali condizioni è perfettamente naturale che ‘la libertà di uscire dall’Unione’, con la quale ci giustifichiamo, si riveli un inutile pezzo di carta senza valore, incapace di difendere gli allogeni della Russia dall’invasione di quell’uomo veramente russo, da quello sciovinista granderusso, in sostanza vile e violento, che è il tipico burocrate russo. Non vi è dubbio che una percentuale insignificante di operai sovietici e sovietizzati affogherà in questa marmaglia sciovinista granderussa come una mosca nel latte.” Il giorno del battesimo dell’Urss, il suo fondatore non gioisce del sogno della realizzazione, e sente l’incubo al quale ha contribuito a condannare i popoli che soffriranno il dispotismo semiasiatico russo.

La nostra generazione ha assistito, in Europa, alle aggressioni russe alle varie Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Germania, Afghanistan, Baltici, Georgia. Con certi precedenti, può stupire la superficialità e il dilettantismo con le quali Washington e capitali alleate hanno gestito il dossier Ucraina. Per gli Stati Uniti si è trattato forse di noncuranza verso le leggi storiche che regolano i rapporti tra le nazioni, o di sovrastima delle capacità di influenza del proprio esclusivismo democratico. La Ue ha anch’essa le sue responsabilità: deve correre senza indugi alla creazione di forze armate comuni, sottoposte alla bandiera Ue, tanto più ora che ha come vicino il capo di stato di una superpotenza nucleare che assassina dentro e fuori del suo paese gli oppositori politici, invade i paesi vicini, minaccia i governanti europei. Con Mosca, Usa e Ue possono e devono trattare, ma da posizioni di forza militare, oltre che economica. Questo dice la storia russa.