L’incontro sarà a Ginevra il 16 giugno. Joe Biden e Vladimir Putin hanno scelto il Paese storicamente più neutrale del mondo per parlare vis-à-vis delle problematiche relazioni tra i due Paesi.
L’annuncio è stato fatto questa mattina dalla portavoce della Casa Bianca Jen Psaki. La settimana scorsa il segretario di Stato Antony Blinken e il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov si erano incontrati a Reykjavik in Islanda per definire l’agenda dei colloqui. Ieri i due consiglieri per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan e Nikolay Patrushev, già a Ginevra, hanno perfezionato gli ultimi dettagli e oggi è arrivato l’annuncio ufficiale.
Il vertice si terrà alla conclusione del primo viaggio all’estero del presidente che parteciperà al G7 di Carbis Bay, in Cornovaglia, dall’11 al 13 giugno, per poi andare a Bruxelles il 14 sia per il vertice della Nato che per il vertice Usa-Ue. Una serie di impegni di primo piano fatti di persona dopo la pandemia, a quasi due anni di distanza dall’ultimo vertice “fisico”.
Sarà interessante capire e vedere l’interazione sociale tra i due leader dopo l’escalation di accuse e di insulti che nei mesi scorsi si sono reciprocamente scambiati. I rapporti tra Stati Uniti e Russia sono ai minimi dal giorno in cui Donald Trump ha lasciato la Casa Bianca. In questi sei mesi Biden ha chiamato “Killer” Vladimir Putin parlando del misterioso avvelenamento del leader dell’opposizione Alexey Navalny. Lo ha incolpato di aver interferito nelle elezioni americane per aiutare Trump “e per questo – ha detto il capo della Casa Bianca – pagherà un prezzo”. Ha posto nuove sanzioni economiche alla Russia per l’occupazione della Crimea. E poi di essere dietro ai cyber attacchi di Solar Wind, di aver messo taglie sulla testa dei militari americani in Afghanistan. Sospetti, infine, di collusioni sull’ultimo attacco ai computer della Colonial Pipeline fatto dagli hacker russi. Parlando dell’ultimo incontro tra loro al Cremlino nel 2011, quando Biden era il vicepresidente di Obama, gli disse: “Signor Presidente, la guardo negli occhi e non vedo la sua anima” e di rimando Putin gli rispose sorridendo: “Ci siamo capiti”.

Sono numerosi i fronti aperti fra Russia e USA da quando Joe Biden si è insediato alla Casa Bianca. Su tutti l’accordo a lungo termine per limitare la proliferazione nucleare. Comunque l’agenda dei temi che si discuteranno per ora è sconosciuta. Di sicuro non ci saranno i misteriosi colloqui a quattrocchi senza traduttori e testimoni come fece l’ex inquilino della Casa Bianca.
Questa mattina il presidente ha ricevuto la famiglia di George Floyd, in occasione del primo anniversario della sua morte. Un omicidio da parte della polizia che ha avviato la protesta in tutto il Paese dei movimenti per i diritti civili. Biden aveva promesso che entro un anno dall’uccisione di Floyd avrebbe fatto approvare dal Congresso una riforma della polizia: non c’è riuscito. La legge è passata alla Camera ed ora è parcheggiata al Senato, seguendo tutte le altre leggi per le riforme sociali, bloccate dalla minoranza repubblicana con il filibustering. I democratici non riescono a trovare i dieci voti necessari dell’opposizione per aprire la discussione e la riforma resta solo una necessità senza essere attuata. “Non getto la spugna – ha detto il senatore afroamericano Corey Booker – sono convinto che un accordo con i repubblicani per la riforma della polizia si troverà”. Ma non tutti al Congresso sono così ottimisti. Molti Stati, però, hanno preferito varare loro, senza aspettare le decisioni federali, delle norme sia per ridurre l’immunità degli agenti che per proteggere maggiormente i cittadini. In molti Stati ora è obbligatoria la videocamera incorporata nel giubotto antiproiettile dei poliziotti, è stato proibito il chokehold, il braccio intorno al collo per soffocare. Ma non solo. Sono state create classi e corsi educativi per gli agenti per educarli sul modo in cui procedere con i disagiati mentali, sono state facilitate le procedure per denunciare gli abusi e gli atti di brutalità della polizia soprattutto nei confronti delle minoranze e degli afroamericani.

In questa America infiammata e polarizzata non tutti condividono la riforma della polizia. Questa mattina a Minneapolis, città dove George Floyd è stato ucciso dagli agenti, nel luogo in cui avvenne l’omicidio si era riunito un gruppo di persone per ricordare l’anniversario. Da un’auto in corsa sono stati sparati una trentina di proiettili. Una persona è rimasta ferita.
Come al solito la discussione su sparatorie, uccisioni e ferimenti evidenzia la facilità con cui è possibile reperire le armi. Mentre in tutto il Paese il movimento per avere un maggiore controllo sulla loro vendita mette sotto pressione i politici, ieri in Texas il parlamento statale ha approvato una legge che consente di portare un’arma nascosta senza licenza e senza nessun controllo su chi la compra. Ovviamente più la gente è armata, più la polizia usa le maniere forti. Un problema di base che la politica si rifiuta di capire.

Tim Scott, l’unico senatore repubblicano afroamericano è stato designato dal partito a portare avanti il negoziato con i democratici per trovare un accordo per la riforma. Il nodo che non si riesce a risolvere è quello dell’immunità per gli agenti e per i supervisori. Lo chiamano il “muro blu”, quell’omertà spacciata per spirito di corpo che permette l’impunità per le azioni brutali della polizia. E neanche Tim Scott riesce a convincere i suoi compagni di partito che l’immunità va tolta se l’agente non segue le linee guida del dipartimento. La riforma, come tante altre, è “quasi pronta”. Da vedere quando e se passerà.
A Washington il Dipartimento della Giustizia è sulla difensiva dopo aver rilasciato parte di un promemoria in cui l’ex Attorney General, William Barr, giustifica la sua decisione di non procedere contro l’ex presidente per aver ostacolato il percorso della legge nel corso dell’inchiesta sul Russiagate condotta da Robert Muller. Una decisione respinta dai democratici che hanno accusato l’ex ministro di aver insabbiato il rapporto finale condotto dall’ex direttore dell’FBI. Sorprendentemente questa mattina il Dipartimento della Giustizia si è opposto alla decisione di un magistrato federale che aveva deciso per la pubblicazione integrale dei promemoria scritti da Barr per giustificare la sua decisione. L’opposizione è motivata per proteggere i rapporti privilegiati esistenti tra i ministri e la Casa Bianca. Secondo gli avvocati del Dipartimento della Giustizia rendere pubblici i colloqui confidenziali tra il ministro e i suoi aiutanti creerebbe un pericoloso precedente.