Gli anni della presidenza Trump ci hanno spesso regalato libri di inchiesta scritti da penne rinomate del giornalismo americano, tutte pronte a dimostrare la collusione del tycoon con il governo di Mosca. Da questa settimana, American Kompromat: How the KGB Cultivated Donald Trump, and Related Tales of Sex, Greed, Power, and Treachery di Craig Unger si unisce a questo elenco, promettendo di svelare i rapporti fra l’ex Presidente ed il KGB.

Per tentate di sviscerare la spy-story, Unger utilizza le testimonianze di Yuri Shvets, ex maggiore del KGB a Washington, giunto sotto copertura come corrispondente per l’agenzia Tass negli anni ’80. Shvets, che adesso vive in Virginia ed ha ottenuto la cittadinanza statunitense dopo la caduta dell’URSS, è stato intervistato dal The Guardian, rilasciando dichiarazioni dal contenuto incendiario. “Questo è un esempio di come le persone venivano reclutate quando erano semplici studenti e arrivavano a posizioni di prestigio”, spiega in modo emblematico prima di iniziare il racconto vero e proprio.
Secondo Shvets, Trump diventò bersaglio del KGB quando sposò la sua prima moglie, Ivana Zelnickova, cittadina ceca. Il primo contatto, però, sarebbe da far risalire tre anni dopo, nel 1980, quando il tycoon inaugurò il Grand Hyatt New York hotel. Per procurarsi gli oltre duecento televisori necessari alle stanze, dovette fornirsi dal negozio di elettronica Joy-Lud, di cui Semyon Kislin era comproprietario. Sempre secondo la ex spia russa, Joy-Lud era controllato dal KGB mentre Kislin operava per conto dell’agenzia come “cacciatore di teste”, cercando personalità che potessero essere manipolate e reclutate.

A quel punto, nel 1987 Donald e Ivana Trump volarono per la prima volta a Mosca e San Pietroburgo dove incontrarono alcuni agenti del KGB che gli suggerirono di entrare in politica. Per Shvets, intervistato dal The Guardian, “vi era la sensazione che fosse estremamente vulnerabile da punto di vista intellettuale e psicologico, e che fosse incline alle lusinghe”. E ancora, nel libro, l’ex spia sovietica spiega la facilità con cui divenne un asset russo: “[Trump] non è particolarmente complicato, dal momento che le sue caratteristiche più importanti sono una scarsa intelligenza accompagnata da una vanità smisurata. Questa combinazione lo rende un sogno per ogni reclutatore esperto”.

Schiavo del suo ego, e delle lusinghe ricevute, una volta tornato in patria Trump pensò di preparare la sua ascesa politica. Tastò il terreno per vagliare la possibilità di presentarsi alle primarie repubblicane e si dimostrò estremamente critico nei confronti della politica estera portata avanti da Ronald Reagan. Allora come ora, il tycoon rimproverò il governo per aver fatto da scudo, con i propri soldi, a tutte quelle nazioni che rifiutavano di investire nella difesa ed ammise di essere particolarmente scettico sull’utilità della NATO. Secondo Shvets, in Russia non crederono alle loro orecchie ed applaudirono il risultato delle loro “misure attive” nella manipolazione del loro “asset” americano. Ancora più incredibile fu il suo ingresso alla Casa Bianca nel 2016.
In un articolo apparso sul Washington Post, John Sipher, ex agente della CIA, conferma a sua volta il coinvolgimento di Donald Trump con potenze estere, bollandole come un pericolo per la sicurezza del paese. Nonostante questo, in un’analisi di “American Kompromat” riversa i suoi dubbi sull’attendibilità di Yuri Shvets, non più in servizio dai primi anni ’90 e quindi impossibilitato a conoscere quanto profonda potesse essere la relazione fra Trump ed i servizi russi dallo scioglimento del KGB alle elezioni del 2016. L’ex CIA chiosa sul libro, “sappiamo che Trump fosse compromesso, ma non sappiamo esattamente come”, a riprova che nonostante l’indagine Muller e molti giornalisti di inchiesta abbiano scoperchiato un vaso di pandora, ancora molti dettagli restano nell’ombra, alimentando talvolta mezze verità e fantasie. Ma la verità resta là fuori.
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