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Aldo Moro, dopo 43 anni una ferita che sanguina ancora con la verità “tombata”

Troppi misteri lasciati irrisolti, tra "incidenti" mai indagati e brigatisti lasciati fuggire; il Vaticano e il "delicato" intervento di Paolo VI su Andreotti

Valter VecelliobyValter Vecellio
Sul rapimento e delitto di Aldo Moro, quarant’anni di misteri e inganni

9 maggio 1978, il ritrovamento del corpo di Aldo Moro nella Renault 4. (Foto ANSA)

Time: 9 mins read

Sono i primi giorni di un ancora tiepido ottobre romano di un paio d’anni fa. Vittoria Michitto, vedova del presidente della Repubblica Giovanni Leone, decide di uscire dalla sua abituale discrezione e riservatezza, e rilascia un’intervista al “Corriere della Sera”. Ad Aldo Cazzullo racconta molte cose interessanti; del resto Cazzullo sa bene come mettere a suo agio l’interlocutore conosce l’arte di far parlare. Anche questa volta non si smentisce. La signora Leone, dal suo privilegiato osservatorio di consorte del Presidente, rievoca i 55 giorni del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse: “Mio marito è l’unico democristiano che Moro non abbia maledetto nelle sue lettere. Fece disperatamente e inutilmente di tutto per farlo liberare. Ma avemmo la sensazione che fosse un destino segnato”. E ancora: “Arrivò una lettera anonima, indirizzata a me, che segnalava il covo brigatista. La portai al ministero dell’Interno. La ignorarono. Quando la chiesi indietro, mi dissero che era sparita. E le BR lo uccisero poche ore prima che Giovanni firmasse la grazia per una terrorista malata che non aveva sparso sangue, Paola Besuschio”.

Una immagine ripresa dal sito del Corriere della Sera con l’intervista di Aldo Cazzullo a Vittoria Leone

Capito? Arriva una lettera anonima che segnalava non un covo brigatista, ma “il” covo brigatista. Doverosamente il documento viene portato al ministero dell’Interno, non solo la segnalazione viene ignorata; la lettera sparisce.

C’è di che restare basiti. E’ l’ennesimo mistero in una vicenda che di misteri abbonda. La seconda commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, per esempio: smonta tutta versione ufficiale accreditata per una quarantina d’anni. A via Fani (luogo del sequestro), a via Gradoli (covo romano dove si nascondeva il capo delle BR Mario Moretti), a via Montalcini (dove si dice sia stato tenuto prigioniero Moro), e a via Caetani (dove Moro viene fatto trovare morto), cioè i quattro luoghi chiave della vicenda, le cose non sono affatto andate come ce le hanno raccontate.

Giuseppe Fioroni, Presidente della Commissione parlamentare, usa un’espressione che non lascia spazio a equivoco: “La verità su quei giorni è stata tombata”.

A questo punto, conviene cercare di mettere un po’ d’ordine a questo complicato puzzle.

Il 9 di maggio di 43 anni fa, Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, viene ucciso dalle Brigate Rosse; il suo corpo viene fatto trovare a via Caetani, una strada di Roma che si trova vicino a via delle Botteghe Oscure (sede dell’allora Partito Comunista), e piazza del Gesù (sede della DC).

Ci sono ancora una quantità di “pagine” oscure, fatti non spiegati. Vediamone alcune, macroscopiche.

  1) Non sappiamo la verità sulla famosa “seduta spiritica” nel corso della quale una “voce” sussurra il nome di Gradoli. I presenti per tutto questo tempo ci hanno raccontato quelle che si possono solo definire “balle”; dai professori Alberto Clò, Mario Baldassarri e Romano Prodi, ancora non è venuta la verità su quella giornata trascorsa nella casa del professor Clò a Zappolino.

Alessio Casimirri sulle pagine di un giornale del Nicaragua che ne racconta la storia della sua partecipazione al sequestro di Aldo Moro

2) Non sappiamo la verità sul brigatista che prese parte al rapimento di Moro e non ha fatto un solo minuto di carcere: quell’Alessio Casimirri che, secondo il suo incredibile racconto, riesce a lasciare l’Italia, transita senza documenti per alcuni giorni nella Mosca sovietica, infine riesce a imbarcarsi per il Nicaragua e beneficia di evidenti protezioni che vanno al di là e al di sopra dei governi che si avvicendano in quel paese. Casimirri vive tuttora indisturbato in Nicaragua, ha certamente avuto contatti con i servizi segreti italiani.

  3) Non sono stati chiariti tutte le dinamiche relative al falso comunicato brigatista secondo il quale Moro era stato ucciso e il suo corpo gettato nel lago della Duchessa.

  4) Non conosciamo perché, emerso il nome di Gradoli nel corso della famosa “seduta spiritica” si va nel paese, e non nella via a Roma; e anzi si nega alla vedova Moro che esista una via con quel nome, e la stessa vedova, stradario in mano, la indica; ma quella pista viene lasciata cadere; per poi riemergere nel modo in cui (non) sappiamo.

   5) Non conosciamo nei suoi dettagli e particolari la vicenda rubricabile con I Giorni del Diluvio: il “fanta-romanzo” dell’allora sottosegretario Franco Mazzola, presente a tutte le sedute del famoso comitato di crisi costituito nei 55 giorni del rapimento. Curiosamente firmato “Anonimo”, pubblicato da Rusconi, in pochi giorni quel “fanta-romanzo” sparisce dalle librerie; ripubblicato molti anni dopo da Aragno, è un’impresa reperirlo; letto con il senno di oggi, è illuminante. Pare che l’autore si sia ispirato, nello scriverlo, agli appunti presi in quei giorni, su alcune agende; chissà che fine hanno fatto.

  6) Non conosciamo l’esatta dinamica dell’omicidio di due ragazzi milanesi del centro sociale Leoncavallo, Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, uccisi da otto colpi di pistola a opera di estremisti di destra. La “coincidenza” è che Fausto, con la sua famiglia, abitava in via Montenevoso 9; a sette metri di distanza dalla camera di Fausto, al civico numero 8, c’era il famoso “covo” brigatista del “memoriale”. Una “coincidenza”? E sia: e “coincidenza” la morte di un giornalista de “l’Unità”, Mauro Brutto,  che seguiva con particolare caparbietà la vicenda: travolto da un automobilista “pirata” a Milano, mai individuato…

Fermiamoci qui, per ora. Sono trascorsi 43 anni. Conviene, ora, riassumere, sia pure all’osso cosa è accaduto in quei 55 giorni:

L’agguato di via Fani a Roma, il 16 marzo 1978, in cui persero la vita cinque uomini della scorta del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro

16 marzo, ore 9 del mattino. In via Fani a Roma le BR rapiscono Moro; uccisi gli uomini della scorta, Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Camera e Senato, con procedura d’urgenza esprimono fiducia al governo: monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti. Per la prima volta il PCI appoggia il governo. Dopo quel giorno il Parlamento non sarà più convocato. Le BR recapitano il primo comunicato e una fotografia: ritrae Moro prigioniero, sottoposto ad un processo da parte di un cosiddetto “tribunale del popolo”. Mondo politico, intellettuali, giornali si dividono tra i fautori della cosiddetta fermezza, NO a qualsiasi ipotesi di trattativa, e possibilisti, disposti a qualche concessione pur di salvare Moro. Per la fermezza democristiani, comunisti, repubblicani, missini; per la cosiddetta trattativa socialisti, radicali, sinistra extraparlamentare.

Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse: verrà trovato morto il 9 maggio 1978

30 marzo, le BR recapitano la prima lettera di Moro. Tra l’altro scrive: “Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità è inammissibile”. Per i fautori della fermezza la lettera è stata chiaramente estorta.

3 aprile. Papa Paolo VI rivolge un appello ai rapitori, li scongiura di liberare il prigioniero. Il PSI con Craxi si dissocia dai sostenitori più intransigenti della ragion di Stato. Andreotti alla Camera afferma che «Non si può patteggiare con gente che ha le mani grondanti di sangue».  

10 aprile. Intercettata una lettera di Moro alla moglie che propone lo scambio di prigionieri.

16 aprile. Le BR comunicano che l’interrogatorio di Moro è terminato: colpevole, dunque condannato a morte.

19 aprile. Un messaggio, rivelatosi falso, annuncia che Moro è stato ucciso. Il corpo gettato nei fondali del lago della Duchessa.

21 aprile. Arriva il “vero” comunicato, accompagnato da una foto: Moro è ancora vivo.

25 aprile, anniversario della Liberazione. Le BR chiedono la scarcerazione di tredici detenuti politici in cambio di Moro.

29 aprile. Andreotti sancisce il rifiuto del governo a trattare con le BR. Non tutti sono d’accordo. Il presidente della Repubblica Leone potrebbe firmare la grazia per una brigatista che non si è macchiata di reati di sangue. Il presidente del Senato Fanfani è per la trattativa. Il consiglio nazionale della DC, convocato, si prepara ad approvare un ordine del giorno in questo senso.  

6 maggio. Le BR recapitano il comunicato “numero 9”: “Concludiamo la battaglia eseguendo la sentenza a cui Moro è stato condannato“.

9 maggio. Il corpo di Moro viene trovato dentro una Renault rossa posta in via Caetani vicino la sede della DC e del PCI.

Roma, 9 maggio, 1978: Francesco Cossiga, allora Ministro degli Interni, in via Caetani davanti alla Renault 4 con dentro il cadavere di Aldo Moro

La domanda di sempre: perché Moro. Perché lo hanno ucciso.

Che le BR siano “rosse” e non sedicenti, non credo lo dubiti più nessuno. Che a 43 anni di distanza da quel delitto, tutto sia chiaro e chiarito, come s’è detto (e si ripete senza tema di smentita) è una balla. Grande più di un grattacielo.    Per esempio: è accertato che Moro in quei 55 giorni di prigionia non ha scritto la quantità di lettere e documenti come vuole l’ufficiale verità: rannicchiato nella brandina, in quel “loculo” ricavato dietro la libreria dell’appartamento di via Montalcini. Accurate e indipendenti perizie calligrafiche documentano che ha scritto seduto su una sedia e appoggiato a un tavolo o una scrivania; perché mentire su quell’ininfluente particolare? Ecco, qualcuno dotato di spirito critico e scevro da retorica, può cominciare da qui, farsi domande, cercare possibili risposte.

Tutto da spiegare il ruolo giocato dal Vaticano; Giovan Battista Montini, papa Paolo VI, era legato a Moro di cui era amico e aveva stima. In un disperato tentativo di liberare Moro, il Vaticano – su preciso mandato del pontefice – raccoglie una decina di miliardi di lire, il “riscatto” per la vita del leader democristiano. C’è una tenue possibilità che l’impresa vada in porto. Ecco che il 6 maggio del 1978, alle 19,35 arriva una telefonata a Castel Gandolfo, residenza estiva del papa, e luogo dove è custodito il denaro. Risponde monsignor Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI. Macchi impallidisce vistosamente. Sospira: “Tutto è andato a monte”. Aggiunge, dopo un sospiro: “Il dramma è che anche a Sua Santità viene preclusa la possibilità di liberare Moro”. Sembra un dramma di Shakespeare. Perché alle 19,35 del 6 maggio tutto è perduto? E con chi parla monsignor Macchi?

Altro che sospetti, a questo punto. Gli interrogativi si affastellano. Papa e Vaticano a parte, c’è un crescente arco di forze politiche (socialisti, radicali, cattolici, perfino qualche comunista) che contesta il fronte della “fermezza” (più propriamente dell’immobilismo); il presidente della Repubblica Leone, come conferma la vedova, ha la penna in mano, pronto a firmare la grazia a una brigatista che non si è macchiata di reati di sangue. Amintore Fanfani, presidente del Senato, seconda carica dello Stato, autorevole esponente della DC, si accinge a fare un discorso al Consiglio Nazionale del suo partito in favore della “trattativa”. E c’è una “entità” più forte e potente, invisibile, che blocca tutto.  Chi è questa entità, perché agisce come agisce? Quali oscuri interessi condannano Moro, la cui politica certamente dà fastidio a molti: a grumi di potere annidiati a Washington, ma a Mosca e chissà dove…

Papa Paolo VI con il premier Giulio Andreotti (Foto dall’Archivio Andreotti giulioandreotti.org)

Occorre la pazienza e la sagacia di un lettore appassionato di polizieschi. Come si è detto, Paolo VI è amico ed estimatore di Moro fin dai tempi giovanili, quelli della FUCI. Dal Moro prigioniero delle BR riceve una accorata lettera, sente impellente l’esigenza di fare qualcosa. Scrive la nota lettera in cui implora di lasciar libero il prigioniero, senza condizioni: che possa tornare ai suoi affetti, restituito alla sua famiglia. Ma “sente” che  altro va fatto, deve fare. Manda monsignor Agostino Casaroli da Andreotti, presidente del Consiglio. Il pontefice vuole che Andreotti conosca il testo della lettera prima che sia resa pubblica. Non è azzardato pensare che Paolo VI abbia chiesto al presidente del Consiglio di fare a sua volta un passo coerente con quello che si accinge a farlo il Vaticano. I termini del colloquio e della richiesta non sono noti, ma si possono facilmente dedurre dalla gelida risposta di Andreotti, questa sì conosciuta. Andreotti elenca con ragionieristico puntiglio le ragioni che impediscono allo Stato la trattativa, e il conseguente riconoscimento delle BR. Se Andreotti spiega le ragioni per cui non può e non vuole fare nulla, significa che qualcosa gli è stato chiesto di fare.

A un certo punto della risposta di Andreotti si legge: “Il Santo Padre ha fatto per la liberazione di Moro più dell’immaginabile, con una forza e con una delicatezza che hanno riportato molti di noi agli anni felici dell’Azione cattolica universitaria“.  

La copertina della prima edizione de “l’Affaire Moro” di Leonardo Sciascia, per Sellerio Editore

“Delicatezza”. La chiave della risposta è questa parola; un cifrato messaggio decrittato con la sua consueta e riconosciuta acutezza da Leonardo Sciascia: finora il Papa è stato delicato più dell’immaginabile. Continui a esserlo. E’ andata come è andata.

Pochi, in quei giorni sanno e vogliono capire quello che accade, che si vuole accada. Pochi, e isolati, di fronte a un potere arrogante e “incontrollato”. E anche oggi: pochi coloro che comprendono, hanno voglia e capacità di farlo. Tanti non vogliono capire, come allora non si volle comprendere e provare un sentimento di pietà e di misericordia per un uomo, Moro, tradito, dato per pazzo dai suoi “amici”. Un modo utile e forse l’unico vero per ricordare quei tragici giorni e recuperare L’Affaire Moro di Sciascia (l’edizione possibilmente aggiornata, quella con allegata la relazione di minoranza dello stesso Sciascia alla prima commissione parlamentare d’inchiesta). Ci si immerge in una lettura dolente, e inquietante. Una cronaca che ormai si è fatta storia; ma non per questo ha cessato di sanguinare. Una ferita aperta, e nonostante siano trascorsi tanti anni, ancora se ne pagano e patiscono le conseguenze.

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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