La morte di Andrew Brown Jr., un afroamericano invalido ucciso da un vicesceriffo mercoledì scorso a Elizabeth City nel North Carolina mentre cercava di sottrarsi alla notifica di un mandato di perquisizione, dovrebbe indurre per lo meno a un ripensamento quei commentatori frettolosi che solo la sera precedente si erano precipitati a sostenere che giustizia era stata fatta con la condanna di Derek Chauvin per tutti e tre i capi di imputazione per i quali si trovava sotto accusa in seguito all’omicidio di George Floyd. Affermazioni di tale tenore possono forse servire a tenere a freno la legittima collera dei membri della comunità nera e a portare voti a chi ha cercato di politicizzare la vicenda, ma non sembrano rispecchiare la realtà della condizione degli afroamericani di fronte alle forze dell’ordine, in particolare, e alla giustizia, in generale, negli Stati Uniti. Una cosa è, infatti, avere appurato la colpevolezza dell’agente di polizia che ha ucciso Floyd, cioè avere stabilito la responsabilità oggettiva dell’omicida; un’altra cosa è la giustizia.

Per quanto riguarda il caso specifico, il fatto che Chauvin possa venire punito anche con il massimo della pena (il giudice deve ancora esprimersi in proposito dopo il verdetto della giuria popolare) non riporterà in vita Floyd né lo restituirà alla sua famiglia. Inoltre, i tre colleghi di Chauvin presenti sulla scena del crimine, che non sono intervenuti per impedirgli di infierire su Floyd perfino dopo che quest’ultimo aveva smesso di muoversi e hanno tenuto lontani gli astanti, devono essere ancora processati. L’esito, ancora parziale, della vicenda non dimostra neppure l’adeguatezza dei meccanismi della giustizia istituzionale, pur alla luce di un pregresso di assoluzioni e di non luogo a procedere per gli agenti accusati o imputabili di omicidio (per esempio, nel caso di Eric Garner, che presenta non poche analogie con quello di Floyd, l’agente Daniel Pantaleo è stato licenziato, ma sia il gran jury della Richmond County sia il Dipartimento di Giustizia federale hanno rinunciato a incriminarlo). Più che per il corretto funzionamento del sistema giudiziario in quanto tale, la condanna di Chauvin è parsa possibile solo grazie alla determinazione e al senso civico di una giovane passante afroamericana, Darnella Frazier, che ha documentato con lo smartphone l’uccisione di Floyd e ne ha diffuso le immagini in rete, a fronte del fatto che il primo comunicato del dipartimento di polizia di Minneapolis aveva attribuito il decesso alle cattive condizioni di salute (“medical distress”) della vittima.

Invece, per quanto concerne, la dimensione più generale dell’operato delle forze dell’ordine, la brutalità e la violenza della polizia, soprattutto nei confronti di membri delle minoranze razziali, proseguono a essere una costante all’ordine del giorno come attesta l’uccisione di Brown. Del resto, l’11 aprile, a poche miglia di distanza dal tribunale dove si stava svolgendo il processo a Chauvin, una poliziotta aveva ammazzato un altro afroamericano, Daunte Wright, perché l’agente aveva apparentemente confuso la propria pistola con il taser. Secondo le statistiche raccolte dal Washington Post dal 2015, le probabilità di un nero di essere ucciso dalle forze dell’ordine sono due volte e mezzo superiori a quelle di un bianco. Come se non bastasse, se complessivamente una vittima della polizia ogni sei risulta disarmata, la proporzione sale a quasi tre ogni sei nel caso degli afroamericani.
Anziché ricorrere a presunti verdetti riparatori a posteriori, quando gli abusi sono già stati commessi, sarebbe necessario modificare le regole di ingaggio delle forze dell’ordine, ridimensionare l’ampia autonomia di cui gode la polizia locale rispetto all’amministrazione federale, sradicale il racial profiling e cancellare la “qualified immunity”, una dottrina giuridica sancita dalla Corte Suprema nel 1967 con la sentenza Pierson v. Ray, per proteggere gli appartenenti alle forze dell’ordine da cause legali intentate per azioni discrezionali compiute nell’esercizio delle loro funzioni, salvo nel caso di comportamenti che violino palesemente e deliberatamente la legge e i diritti costituzionali di qualcuno. La dottrina consente di non perseguire gli agenti che compiano errori per presunta buona fede, come uccidere un cittadino disarmato, magari perché costretti a prendere decisioni in tempi rapidissimi mentre si trovano sotto pressione.

Solo con queste modifiche sarà possibile passare dal piano dell’obbligo di rispondere delle proprie azioni in sede giudiziaria anche nel caso degli agenti di polizia, come è accaduto per Chauvin, a quello della giustizia, che Floyd e i suoi familiari non hanno ottenuto né potranno mai ottenere. Soltanto se si verificheranno tali cambiamenti, il verdetto di condanna emesso contro Chauvin arriverà davvero a rappresentare una svolta concreta nella direzione del raggiungimento della giustizia razziale, quanto sta scritto sui veicoli della polizia di Minneapolis (“to protect with courage; to serve with compassion”) non suonerà più come mera retorica e sarà posta fine a quella situazione – denunciata, tra gli altri, dal saggista afroamericano Ta-Nehisi Coates in Between the World and Me (2015) – per cui negli Stati Uniti contemporanei avere la pelle scura continua a costituire una minaccia per l’incolumità personale, per paradosso soprattutto nell’interazione con quei pubblici funzionari che dovrebbero invece garantire la sicurezza individuale dei cittadini.

Eppure l’iter legislativo del George Floyd Justice in Policing Bill, volto a prevenire gli abusi delle forze dell’ordine e a contrastare l’influenza dei pregiudizi razziali sull’operato degli agenti, dopo essersi concluso rapidamente alla Camera, che lo ha approvato in appena una settimana dalla sua presentazione, si è arenato nei meandri del Senato a causa dell’ostruzionismo di alcuni repubblicani. In ogni caso, a prescindere dalla sorte di questo disegno di legge, la giustizia razziale non potrà prescindere dal superamento di altre problematiche, in particolare la necessità di annullare la marcata sproporzione tra la percentuale di afroamericani presenti tra la popolazione carceraria, oltre il 35% del totale, e il peso demografico dei neri all’interno della società americana, intorno al 14%, nonché l’esigenza di cancellare recenti norme elettorali che, a oltre mezzo secolo dalla promulgazione del Voting Rights Act del 1965, mirano a limitare il diritto di voto degli afro-americani, privandoli dello strumento più efficace in una democrazia per promuovere cambiamenti sostanziali come quelli che risulterebbero dal varo del George Floyd Justice in Policing Bill.