Lo scorso 21 gennaio ha fatto la sua comparsa nelle librerie A proposito di Joe. Presente e futuro degli Stati uniti d’America, la nuova opera dell’ambasciatore Giovanni Castellaneta, edita da Paesi Edizioni. Il saggio, con la prefazione del Prof. Gianluca Comin e con la collaborazione di Caffè Geopolitico, ha una penna di eccezione. Castellaneta, infatti, è un diplomatico di lungo corso con una profonda conoscenza degli Stati Uniti. Nell’arco della sua carriera ha ricoperto i ruoli di ambasciatore d’Italia in Iran ed Australia, prima di arrivare a Washington durante il secondo mandato George W. Bush e fino all’insediamento di Barack Obama.
Il saggio, opera complessa ed articolata, riesce nell’intento di presentare un affresco dettagliato ma essenziale della vita ed il pensiero politico degli ultimi inquilini della Casa Bianca. Lo scopo, espresso fin da subito, è quello di capire come si è arrivati a Joe Biden e cosa potremo aspettarci da lui, in campo interno ed estero. La complessità dell’opera nasce proprio dalla poliedricità dei suoi capitoli, con una prima parte, quasi di preambolo, dedicata al peculiare sistema costituzionale americano e alle sue elezioni, considerate spesso astruse da parte degli europei. Lì soggiace il significato degli ultimi anni, dalla vittoria di Trump contro Hillary Clinton, fino alla lotta senza quartieri che l’ormai ex Presidente ha portato avanti prima dell’insediamento dell’amministrazione Biden-Harris. E poi i quadri così dissimili fra i due sfidanti alle elezioni 2020.
È dopo la cronaca degli ultimi anni di Obama e della campagna elettorale per le presidenziali 2020 che Castellaneta inizia la sua analisi e speculazione sui temi della politica estera, dai rapporti conflittuali con la Cina e l’Iran al buon vicinato con Messico e Canada fino ad arrivare all’Europa, alleato ormai lontano. Un’opera magna, si potrebbe dire, condensata in meno di 200 pagine.
Per approfondire i temi trattati nel saggio, abbiamo raggiunto l’ambasciatore Castellaneta, autore del libro, che ha gentilmente deciso di rispondere alle nostre domande.
Mentre stava scrivendo il suo libro, si sarebbe mai aspettato che Trump non avrebbe accettato il risultato elettorale e che, almeno secondo l’accusa di impeachment del Congresso, avrebbe aizzato l’assalto a Capitol Hill danneggiando così anche l’immagine della democrazia USA nel mondo?
“Posso dire che man mano che lo scrivevo e seguivo la campagna elettorale estiva questa eventualità stava diventando sempre più concreta, anche perché era stato lui stesso a dirlo diverse volte. Inoltre, si profilava quello che è stata definito come il “red mirage”, ossia il fatto che nelle prime ore dello spoglio ci sarebbe stata una larga maggioranza di voti repubblicani quasi ovunque, determinata dal fatto che quegli elettori sarebbero stati più propensi a presentarsi di persona ai seggi e a non usufruire del voto per posta. Con l’avviarsi dell’Election Day, perciò, era diventato sempre più probabile che Trump contestasse i risultati in caso di sconfitta. Sui fatti del 6 gennaio al Congresso, sono stati sorprendenti solo momentaneamente, perché, se ci si pensa, non sono stati altro che il culmine delle tensioni nella società statunitense e dello sdoganamento dei pensieri complottisti dell’estrema destra da parte del Presidente stesso, compreso il comizio tenuto quel giorno prima dell’assalto”.

Il suo libro inizia descrivendo il sistema politico americano. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla degenerazione del sistema dei grandi elettori, del gerrymandering e dell’ostruzionismo al Congresso. Crede che il sistema politico-istituzionale, ormai antico e rodato, sia diventato obsoleto e necessiti cambiamenti?
“Il sistema è stato pensato da uomini del 18° secolo per la situazione in quel secolo. Nonostante gli emendamenti alla Costituzione e le prassi legislative, la maggior parte del sistema istituzionale è ancora quello. Al gerrymandering, l’ostruzionismo e i grandi elettori, che giustamente avete citato, c’è anche da aggiungere lo stesso Senato. Se ci si pensa, quando fu creato, l’idea era corretta: tutti gli stati devono avere lo stesso peso in questa camera. Ma si trattava di stati con popolazioni ancora molto simili. Ora, ad esempio, la California con i suoi quasi 40 milioni di abitanti è rappresentata da due senatori come il Wyoming che ne ha meno di 600.000. Per questo motivo, il partito che ha la maggioranza al Senato è molto probabile che non abbia anche quella del voto popolare. Un po’ come può avvenire con il sistema dei grandi elettori, ma lì almeno viene fatta salva la proporzione delle popolazioni tra gli stati. Un cambiamento a mio avviso necessario dovrebbe avvenire nelle procedure in caso di contestazione dei voti. In questo caso, infatti, tutto era demandato a funzionari eletti degli stati, con grave rischio per l’imparzialità. Se Trump non avesse trovato un argine da parte di funzionari repubblicani che hanno resistito alle fortissime pressioni provenienti dalla Casa Bianca, ci sarebbero stati ancora più problemi”.

Le elezioni 2020 hanno visto un’affluenza record e Trump, pur perdendo, entra nella storia come secondo candidato più votato. La democrazia americana è tornata di massa? Secondo lei questi nuovi elettori chi sono, perché prima non votavano?
“Queste elezioni sono state viste quasi come una chiamata alle armi. Un sentore c’era già stato alle midterm del 2018, quando l’affluenza di elettori democratici fu piuttosto alta rispetto alle precedenti. Che si voti in tanti è sempre una buona cosa, ma, a mio avviso, questa volta c’entra anche la polarizzazione politica della società statunitense. Chi detestava Trump si è mosso in massa per evitare che rimanesse altri quattro anni alla Casa Bianca e, di riflesso, chi lo sosteneva ha fatto lo stesso per provare a farlo restare in carica. Alla fine, i primi sono stati più dei secondi sia in termini assoluti sia di grandi elettori”.
Molti commentatori guardano a questa amministrazione Biden come ad un “Obama 3”, quanto di tutto ciò è vero a suo avviso?
“Biden è stato otto anni Vicepresidente e ha avuto una lunga esperienza come Senatore alla Commissione Esteri, perciò è normale che si sia circondato di collaboratori fidati, molto capaci e con grande esperienza. Non si tratta di un Obama 3, ma è una continuazione di molte parti di quel programma”.

Con Biden arriva anche la prima donna “ad un battito” dalla Casa Bianca: cosa pensa di Kamala Harris? Per vincere nel 2024, le basterebbe competere da vicepresidente o dovrebbe essere già Commander in Chief?
“Non c’è dubbio che la Vicepresidenza è un buon punto di partenza per tentare di sedersi nello Studio Ovale. Ci riuscirono Harry Truman e Lyndon Johnson, costui favorito dall’onda emotiva seguita all’assassinio di Kennedy, così come Bush Sr. Anche Nixon e lo stesso Biden ci sono riusciti, ma non subito dopo l’uscita di scena dei loro Presidenti (Eisenhower e Obama rispettivamente). Nel 2024 bisognerà vedere cosa deciderà Biden, se candidarsi o meno per il secondo mandato. In caso non lo facesse, la competizione tra i democratici sarà serrata. Kamala Harris ha di certo le competenze per riuscire sia a vincere le primarie sia le elezioni presidenziali, ma forse è ancora troppo presto per guardare così avanti”.
Per alcuni analisti, ai tempi della vicepresidenza di Obama, la coppia Biden-Blinken risultavano essere i “falchi” della politica estera: lei allora, ebbe la stessa impressione?
“La politica estera si adatta alle circostanze del periodo. Joe Biden e Antony Blinken sono razionali, non hanno preconcetti e in politica estera seguono la linea tradizionale del partito democratico, fatta di apertura al multilateralismo, ma tenendo l’interesse nazionale sempre al primo posto”.

Lei è stato ambasciatore sia con l’amministrazione Bush, che con quella Obama, qual è stato del suo lavoro il momento più difficile e quello più esaltante?
“Non ci sono momenti particolari. L’attività di un Ambasciatore è ricca di episodi nel quadro del rafforzamento dei rapporti tra i due Paesi. Si tratta di un’attività quotidiana. I rapporti bilaterali tra Roma e Washington non cambiarono in quel periodo e attraversarono le diverse amministrazioni e governi senza scosse”.
L’avvento di Biden alla Casa Bianca ha anche favorito la scossa ai partiti populisti al governo in Italia e quindi l’arrivo di Draghi? La storia non si fa per ipotesi, ma se Trump fosse rimasto alla Casa Bianca, secondo lei Conte sarebbe ancora a Palazzo Chigi?
“In un quadro generale, Trump alla Casa Bianca avrebbe continuato ad “allargare l’Atlantico”. La vittoria di Biden ha fatto sì che gli USA abbiano iniziato un percorso di riavvicinamento agli alleati tradizionali europei e alle istituzioni multilaterali come l’OMS. Per quanto riguarda l’Italia, un Governo stabile e di prestigio non può che migliorare i rapporti con gli Stati Uniti”.
Secondo lei i rapporti economici commerciali tra Stati Uniti e Italia sono già al massimo delle loro potenzialità espresse in passato o finora invece sono andati con una marcia bassa rispetto alle loro potenzialità? E cosa deve fare Roma per far investire di più le imprese USA in Italia?
“I rapporti commerciali tra USA e Italia hanno grande potenziale, data anche la complementarietà delle due economie. Al momento, l’Italia è esportatore netto. Per investire qui, gli imprenditori statunitensi chiedono certezza del diritto, la non retroattività delle norme e una giustizia più fluida e rapida”.

Quando era Ambasciatore a Washington, la lobby italoamericana quanto le è stata utile a favorire gli obiettivi di politica estera italiana negli Stati Uniti? E secondo lei, oggi gli italoamericani che nelle stanze dei bottoni hanno sia la 3° carica dello Stato, Nancy Pelosi, sia la prima First Lady italoamericana, Jill Biden, (per non parlare dei giudici nella Corte Suprema) come potrebbero aiutare meglio l’Italia nei rapporti con gli USA? Insomma gli italoamericani, per esempio pensiamo alla NIAF, rappresentano una forza di lobby organizzata in favore degli interessi italiani per i rapporti con la Casa Bianca e il Congresso?
“Non mi sono mai affidato alle lobby e, nel caso specifico, non si tratta di una lobby, ma di una comunità, stimata attorno alle 30 milioni di persone. È di grande aiuto sul piano generale per far conoscere l’Italia agli statunitensi, sottolineando la grande forza della presenza italiana all’estero e il cosiddetto “Italian way of life“. Non un appoggio su singole iniziative, ma una consapevolezza generale dell’affidabilità dell’Italia. Dal punto di vista economico, gli Stati Uniti sono “business minded“, perciò i contratti valgono di per sé e non c’è grande intervento dello Stato, come avviene, invece, qui. Inoltre, i parlamentari sono legati ai propri collegi e stati, perciò mettono al primo posto l’interesse dei propri elettori e quello nazionale. Il ruolo della NIAF è importante per sottolineare l’appartenenza e l’amicizia tra i due Paesi”.

Lei è stato un Consigliere importante della politica estera dell’Italia per tanti anni e ha lavorato con tanti Ministri degli Esteri e Presidenti del Consiglio. Secondo lei ci sono delle orme lasciate da quelli di ieri che anche quelli di oggi dovrebbero seguire per rilanciare la politica estera italiana?
“Le orme da seguire sono l’affidabilità sulle linee politiche decise e la consapevolezza che l’Italia è una media potenza regionale. Riguardo a questo aspetto, il nostro ruolo è importante nei Balcani, in Medio Oriente e in Nord Africa con riferimento alla Libia e alla Tunisia. In queste aree possiamo avere un ruolo di leader, affiancando la politica statunitense”.

Prima della pandemia l’Italia sembrava incanalata sul tracciato dei Paesi antieuropeisti, con lo scoppio della pandemia sembrerebbe che gli italiani abbiano capito quanto l’Europa sia importante per l’Italia: cosa deve fare l’Europa per non perdere più la fiducia degli italiani? E Draghi, da solo, a prescindere dai ministri che sceglierà, basterà per far riacquistare la fiducia dell’Europa nell’Italia?
“La pandemia ha dimostrato che da soli non si va lontano. Attori internazionali come la Cina e la Russia hanno dimostrato che l’UE deve semplificare le sue istituzioni per un processo decisionale più rapido a difesa dei propri interessi, oltre a rafforzare la politica monetaria, fiscale ed economica. Insomma, diventare un soggetto politico autonomo sovranazionale. Gli italiani, preoccupati per la pandemia, potrebbero trovare un punto di riferimento e di conforto in questa nuova UE. Il Presidente Draghi, per passato, qualità e credibilità, è la persona che meglio di chiunque può far svolgere al nostro Paese un ruolo da protagonista in Europa, come soggetto che crea la politica, non che la subisce”.

Nel suo libro, suggerisce che una guerra economica fra Cina e Usa sia una minaccia per entrambe le nazioni, così interconnesse. Trump ha incentrato la sua politica estera sui dazi, mentre Biden vorrebbe ritornare alla politica di accerchiamento promossa già da Obama. Secondo lei potrebbe funzionare? Crede che il rafforzamento di relazioni con India, Indonesia, Australia, Corea del Sud e Giappone possa essere risolutiva nei confronti di dossier aperti come Taiwan?
“Gli Stati Uniti non possono contrastare l’avanzata strategica della Cina da soli, perciò recuperare i partner nell’area del Pacifico e dell’Oceano Indiano è fondamentale e Biden si dovrebbe muovere verso questa direzione. In più, è necessario anche il supporto degli alleati europei, anche se la compattezza di questo fronte è meno scontata di quello dell’indo-pacifico. La questione Taiwan è di difficilissima soluzione e il mantenimento dello status quo sembra l’unica opzione praticabile, anche se anche qui, non muoversi da soli sarà d’aiuto”.

Dossier Medio Oriente. Biden eredita gli Accordi di Abramo, forse la conquista più grande di Trump, ma vuole affrontare l’Iran tornando al JCPOA e cercando mediazione. Come riuscirà a mantenere gli equilibri nell’area, al contempo occupandosi di Palestina e prendendo le distanze dall’Arabia Saudita?
“Il cambio di passo nell’alleanza con l’Arabia Saudita è stato, finora, più formale che sostanziale: è stato pubblicato il rapporto dell’intelligence che prova che dietro all’omicidio del giornalista Kashoggi c’era il Principe ereditario bin Salman, ma a questo non sono seguite sanzioni o provvedimenti simili. Ritornare al JCPOA è, secondo Biden, la base per dialogare con un Iran a cui va riconosciuto lo status di potenza regionale. Le difficoltà non mancano, anche perché Teheran ha detto che per tornare al tavolo negoziale, gli USA devono prima dare dei compensi per le sanzioni subite negli ultimi anni dopo l’uscita di Washington dall’accordo. Per quest’ultima, invece, prima si negozia, poi si potranno togliere le sanzioni. I palestinesi sono i grandi sconfitti degli Accordi di Abramo, ma, diversamente dall’amministrazione Trump, penso che quella guidata da Biden manterrà un canale di dialogo aperto, pur nel quadro della partnership con Israele”.