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Perché Trump, sull’immigrazione, ha ragione (con buona pace degli hipster)

Ogni anno, mezzo milione di persone entra negli Usa illegalmente dal Sud. Può un Paese con questi numeri garantire stabilità?

Giuseppe De LauribyGiuseppe De Lauri
Perché Trump, sull’immigrazione, ha ragione (con buona pace degli hipster)

Donald Trump (by Antonio Giambanco/VNY).

Time: 5 mins read

Per leggere questo articolo bisogna avere indiscutibilmente tre caratteristiche essenziali. Primo, essere un vero anticonformista. Se sei un hipster che pensa che la pace si raggiunga postando arcobaleni su Facebook, passa oltre. Secondo, capirne di politica e soprattutto di realpolitik, senza la quale l’intero articolo sembrerà esser un insieme di ciance. Terzo, aver visto i primi film di Nanni Moretti ed amare il citazionismo di primo acchito. Il lettore è avvertito: per qui si va tra le città dolenti, per qui si va nell’eterno dolore, per qui si va tra le perdute genti.

Tra i tanti (criticati) temi affrontati dal President dal biondo pennacchio, ce n’è uno in particolare che fa infuriare sia gli haters socialnetworkini sia i simil anticonformisti di cui sopra. Parliamo di immigrazione e della posizione di Trump rispetto ai clandestini. Quello che tutti sanno è che si vuole costruire un muro al confine con il Messico e bloccare così la massa che immigra illegalmente da tutto il Sud-America. Parliamo di circa mezzo milione di persone all’anno; con un picco nel 2016 di 1.46 milioni. La domanda da porsi in questo caso è se un Paese può garantire la stabilità interna e una pace sociale con questi numeri. Secondo Trump e suoi elettori no. E forse hanno entrambi ragione. Infatti, se da un lato i detrattori cercano di far passare questa presa di posizione come una sorta di razzismo posticcio (e magari con Trump non a torto), dall’altro un’immigrazione incontrollata crea, checché se ne dica, problemi di sicurezza e frizioni sociali. Per non parlare delle enormi criticità a cui devono far fronte i Paesi che si svuotano: perdita di forza lavoro, brain drain, forza di reagire e progredire a livello politico e sociale. La Storia è colma di sfide perdute o vinte dovute alla conformazione sociale attiva, svuotata o in salute.

Ritornando agli Stati Uniti, è chiaro che nessun Paese che voglia rimanere unito e stabile non può gestire questi flussi. Come spesso accade la verità sta nel mezzo. Purtroppo la tendenza globale da parte degli elettori è di affidare le questioni giuste nelle mani sbagliate. Quello che le sinistre occidentali non hanno capito (e per questo sono state punite dovunque) è che una fetta enorme di popolazione è stata esclusa dalla decantata globalizzazione. Semplicemente non l’hanno accettata o capita, e la chiosa conformista li ha tacciati come retrogradi.

Negli Stati Uniti le discrepanze sono enormi, quasi inutile ricordarlo. Ma sono soprattutto enormi le differenze dovute alla geografia: su i due lati costieri l’economia vola e le opportunità fioriscono, le città crescono e si possono permettere di essere santuari multiculturali. Gli Stati della California e di New York e pochi altri fanno da traino. In mezzo questi due paradisi c’è un’America nera come i colori delle carte statistiche che indicano disoccupazione e spopolamento. Ogni americano che vuole combinare qualcosa sa che deve andare verso le due coste. Questo ha creato una sacca di resistenza reazionaria che ha trovato l’unica via di sfogo in persone che hanno saputo fotografare la verità. Una realtà lontana dalle città-salotto, dove alla peggio chi fa il cameriere ha la possibilità di guadagnare abbastanza per sopravvivere. Il mantra che i finti progressisti ripetono è che gli immigrati fanno lavori che gli americani non vogliono più fare. Ma quest’America non è più quella dei sogni. Gli immigrati non solo lavorano in cantieri, ma anche in settori fino a poco tempo fa riservati ai soli cittadini americani. La gente comune soffre una carenza di welfare e anche fare l’autista Uber è diventato un posto ambito. In molte città ci sono persone che si accontentano di fare lavori umili, ma trovano la concorrenza al ribasso degli immigrati.

Ovviamente, nulla di più sbagliato sarebbe colpevolizzare gli immigrati stessi. Le loro storie spesso sono atroci ed il diritto ad una vita migliore è inalienabile come quello di respirare. Però come colpevolizzare quelle persone che hanno timore di essere escluse ancora una volta? Come dar torto a chi percepisce la cittadinanza come un diritto e l’identità come retaggio?

Ecco qualche esempio “terra terra” che spiega meglio il concetto: Brooklyn, quartieri a sud di Williamsburg. Cassa abita a Clinton Hill da più di dieci anni. “Un tempo” – dice – “queste case costavano poco. Dieci – quindici anni fa l’affitto era la metà di quello che è adesso”. Ad un tratto, la gentrificazione. “La maggior parte delle persone che vengono qui lavorano a Manhattan. I proprietari fiutano l’affare e alzano gli affitti. A noi ci sfrattano e danno le case a voi (europei, ndr.)”. Brooklyn è la prima meta per la maggior parte degli immigrati di medio stipendio. Secondo Cassa, gli immigrati europei hanno influito negativamente nella sua vita.

Miami, Palmetto Bay. Per le strade di Miami capita spesso di fare domande in Inglese e sentirsi rispondere “hablas español?”. David è americano di seconda generazione, suo padre era originario di Buenos Aires. “Il fatto è che ci sono immigrati che non vogliono integrarsi. Vogliono star qui, lavorare, ma far finta di essere ancora nel proprio Paese”. La questione che si pone David è quali doveri, oltre ai diritti, ha un emigrato verso il Paese che lo ospita. David è perfettamente bilingue, e ne è fiero, ma dice chiaramente che l’integrazione è una questione di rispetto. “Se dicessi pubblicamente (quello che dico a te, ndr) sarei tacciato come razzista!”. Il dover difendere la propria cultura di matrice anglosassone crea problemi da queste parti. Quindi attenzione, il problema non è multietnico, ma semmai multiculturale.

A tal proposito fanno scuola le parole della cancelliera Merkel: “Il multiculturalismo ha fallito”, va ripensato. Eh sì, anche in Germania ci sono dei problemi di convivenza tra culture differenti, che prescindono dalla buona volontà del singolo di accogliere o integrarsi.

Se è vero che ogni esempio citato lascia un po’ il tempo che trova (ci saranno infiniti contro-esempi e contro-contro-esempi da fare), è anche vero che si inizia a capire dove Mr. Trump abbia fatto breccia. Eppure, sia Cassa che David non sono Repubblicani. Non rispecchiano quell’idea red-neck che abbiamo degli elettori di Trump. Al contrario, sono persone che esprimono un disagio, ai quali nessun governo precedente ha dato mai risposta. Chi l’ha fatto, sfortunatamente, è stato il baby boomer. “Ve lo meritate Alberto Sordi” direbbe Nanni Moretti.

E proprio perché la verità sta nel mezzo, si potrebbe iniziare ammettendo che questioni come questa non si risolvono né con muri, né col tutti dentro a fare girotondi. L’identità di un popolo, quell’insieme stupendo di valori che si forma di epoca in epoca, non si cambia per decisione di qualche illuminato. Mentre la globalizzazione dei popoli si trasforma in una mondializzazione della Cultura dominante, anche il multiculturalismo si riscopre come un “monoculturalismo plurale”, per citare il premio Nobel Amartya Sen. Tutte parte di “un unico, grande giornale!” direbbe ancora Moretti.

Ecco, è ammissibile, anche se opinabile, prendere atto che molti sbagliano a criticare quelle persone che hanno visto in Trump un’interprete dei loro timori (ripeto, Trump è criticabile al 99,9%). Dovrebbero invece fare una piccola autocritica, magari andare in una cittadina dell’Arkansas o farsi un giro nei sobborghi di Miami. O magari nelle banlieue di Parigi e nelle borgate romane. Giusto per vedere che tipo di integrazione stiamo offrendo. Chiedere magari agli abitanti di quei luoghi “Tu, vecchio retrogrado, quale ragione adduci?”.

Una volta fatto ciò, vi renderete conto che esistono ragioni paradossali per le quali un arrogante qualunque si è ritrovato Presidente suo malgrado. E se dopo questo viaggio dolente tornerete con le idee più chiare sul fenomeno dell’immigrazione/integrazione, bene. Se dopotutto direte “comunque Trump non lo voterò mai”, personalmente risponderei “fate bene!”.

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Giuseppe De Lauri

Giuseppe De Lauri

Ho passato gli ultimi anni errando di città in città. Oggi sono a New York, dove mi occupo di politica, di comunicazione, tecnologia e dei loro innesti mutuali. Al giorno d’oggi c’è poco che possa prescindere da questi tre fattori.

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