Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
(Divina Commedia, Canto V)
Pensavo di iniziare il nuovo anno editoriale de La Voce di New York con un articolo pungente. “È quello che serve — pensavo — per riprenderci da queste brevi e agitate vacanze estive”. Per l’argomento da trattare non c’era che l’imbarazzo della scelta: crisi di governo, moneta coloniale francese CFA, i danni del 5G, il mondo delle start up in Italia, e altro. Tutte cose abbastanza interessanti, e delle quali avevo parlato al Direttore (Stefano Vaccara, ndr), il quale mi rispondeva, un po’ seccato (a ragione ovviamente), “basta che ne scrivi uno!”.
Giuro che tutti questi articoli hanno avuto un inizio. Alcuni anche uno svolgimento. Zero sono stati completati. Volevo farlo, proprio ora, a Milano, dove mi trovo per rinnovare il visto per ritornare negli USA a fine mese. Anzi, avevo fatto una specie di fioretto: “Se finisco l’articolo sulle vongole utilizzate per depurare le acque grigie dell’Hudson — in coda da almeno 3 mesi — allora farò uno strappo alla dieta”.
Ho utilizzato questo preambolo perché non troverete, qui di seguito, la storia delle vongole, né di Salvini, né del neocolonialismo alla francese. Infatti, proprio l’altra settimana, mi sono recato al Consolato americano e ne ho viste abbastanza per fare un bel racconto della giornata.
Molti di voi lettori avranno fatto questa trafila almeno una volta. Dopo aver raccolto tutti i documenti, perentoriamente elencati nella email del Consolato, mi sono recato di buon mattino a via Amedeo a Milano. Con me una borsa a tracolla di stoffa con dentro il computer, un libro, documenti di ogni sorta, orpelli e aggeggi vari aggregati al mio telefono cellulare.
Appena mi avvicino all’ingresso, controllato sia dalla polizia privata che dall’esercito, sono fermato da un agente dell’Italpol che con fare sospetto mi chiede: “E lei dove sta andando?”
Ad un tratto credo di essere, non so, all’ambasciata americana a Baghdad o a Beirut. E invece sono proprio a Milano, in una zona centralissima, bloccato a una decina di metri dall’ingresso del Consolato da un agente privato, mentre intorno a noi le persone fanno colazione tranquillamente con cornetti e cappuccini.
“Devo andare dentro, devo rinnovare il visto” — dico. Anche se penso candidamente: “Se avessi voluto fare qualcos’altro ti avrei detto lo stesso”.
“Non puoi portare questa borsa con te. Vedi, lì, dietro quella palma — mi dice l’agente indicando qualcosa dietro di me — posa tutto in quel bar, The Subway, e poi torna qui solo con documenti e passaporto.”
“Ok” rispondo, ed entro nel The Subway, a pochi metri da una palma sotto la quale un’altra richiedente visto sta organizzando il suo faldone di documenti. Siamo sempre in tanti a partire. Entro, e subito un uomo con i baffi, probabilmente il proprietario, mi chiede se voglio mangiare lì al ristorante, fare colazione, o “depositare” la mia borsa. Io opto per quest’ultima e lui mi dice: “I candidati devono lasciare tutto nella borsa, computer e altri oggetti. Porti con lei solo i documenti e il passaporto”. Evidentemente questo finto barista deve essere un ufficiale travestito, addestrato sicuramente dal Consolato americano. Faccio come dice l’ufficiale sotto copertura e gli consegno la borsa. “Sono 5 euro” mi dice. Inizio a sospettare che esista un tacito accordo tra il The Subway e la Italpol per indirizzare i richiedenti visto sprovveduti, o meglio “i Candidati”, verso questo bar/deposito ubicato scientemente a pochi metri dal Consolato.
Pago, come tutti, e mi avvicino all’entrata. Qui, un altro agente un po’ in sovrappeso continua a ripetere: “In mano solo passaporto e documenti. Mani bene in vista. Non coprite le mani, non mettetele in tasca, non alzatele. Muovetevi con lentezza. Cerchiamo di non creare un incidente perché qualcuno decide di mettere le mani in tasca nel momento sbagliato!”. A questi docili inviti inizio un po’ a preoccuparmi. Ho, infatti, un raffreddore fortissimo e il mio fazzoletto è proprio nella tasca destra. “Come farò a prenderlo?” mi ripeto. “Non farti sparare per una soffiata di naso, Giuseppe” penso mentre mi avvicino all’entrata. Siamo tutti in silenzio, in fila per uno, e abbiamo la stessa allegria di vecchi cavalli in coda alla porta del macello. I Candidati vengono chiamati uno alla volta dall’agente sovrappeso che apriva la porta dicendo: “Buona fortuna!”.
Una volta dentro, l’atmosfera si fa più frenetica, anche se meno austera. Ci sono quattro agenti dell’Italpol, uno al di qua del metal detector e gli altri dall’altra parte. Si chiamano tra loro con nickname che sembra di essere in un film parodistico di Mel Brooks.
“Charlie 4, un altro Candidato è entrato. Ecco il suo documento”.
“Grazie Charlie 1. G-I-U-S-E-P-P-E D-E L-A-U-R-I. Metta tutto quello che ha in tasca dentro questa scatola”.
“Charlie 3, procedo con la scannerizzazione”.
“Certo Charlie 1, scannerizzazione iniziata. Puoi farlo passare sotto il metal detector”.
“Prego passi pure” mi dice Charlie1. Io, con le mani bene in vista, obbedisco.
“Charlie4 il Candidato è passato, puoi procedere con il controllo documenti”.
“Grazie Charlie1, lei ha l’appuntamento alle 11? Bene, si appoggi pure a quel muro. Verrà un collega a chiamarla. Charlie2, quando sei pronta chiama pure il Candidato”.
“Chi è Charlie2?”.
“Sei tu Charlie2, io sono Charlie4. Lui è Charlie1”.
“Ma perché?”.
“Cosí, Charlie2”.
Finalmente entro nel Consolato. Dopo essermi soffiato finalmente il naso, arrivo all’ultimo piano. Solita trafila: entriamo in una stanza con sedie orientate verso uno schermo, prendiamo il numero, andiamo allo sportello, presentiamo i documenti, domande di rito del perché siamo negli USA e cosa facciamo. Poi ci sediamo nella stessa stanza di fronte allo schermo che smista le prenotazioni. Sembra chiami i numeri del lotto. Dietro di noi il Console convoca i Candidati uno alla volta in base a quello che dice lo schermo e fa il colloquio. Sorprendentemente tutto avviene nella stessa stanza, davanti a tutti. Sembra di essere in banca, dove gli operatori sono dietro i vetri anti-proiettile ed è difficilissimo farsi capire attraverso quel piccolo buco nel vetro fatto apposta per comunicare. In questa stanza, tutti possono ascoltare le faccende altrui e sapere se il Candidato abbia ottenuto o meno il permesso di entrare negli Stati Uniti. Quella situazione orwelliana mi fa sentire un po’ in imbarazzo. “E se mi rifiutano il visto? Che vergogna, davanti a tutti. E se mi chiedono dei miei soldi sul conto? E se mi chiedono cosa faccio?”. Tante domande affollano la mia mente mentre i Candidati vengono giudicati più o meno opportuni dal Console. Alcuni vengono rifiutati, con tanto di spiegazione di rito, altri vengono spediti ad altri piani del palazzo, presso altri uffici, altri sportelli. La maggior parte viene accettata e si può sentire la frase: “Sarà pronto entro tre giorni”, che è un po’ come una catarsi. Nel giro di un paio d’ore questo odierno Minosse ci ha giudicati tutti.
Quest’esperienza mi ha insegnato molto, più che qualsiasi crisi di governo o innovazione tecnologica. Non vi dirò, lettori, cosa io ho capito e quali sono stati gli insegnamenti che ne ho tratto. I fatti sono andati esattamente come li ho raccontati, così ognuno può trarre le proprie conclusioni. Acta est fabula.
Per i posteri: il mio visto è stato rinnovato.