“Ciao a tutti e benvenuti al corso di Educazione Civica ed Economia della terza media! Sono americano per nascita e ungherese per…”
Ivan F. esita e io, seduto a uno dei banchi dell’auletta, esclamo a voce alta: “It’s the other way around!” Funziona all’opposto, professore.
Ivan mi guarda, mi indica con un dito e ride.
“Right, I’m Hungarian by birth and American by choice!”
Ridono anche gli altri. Il vecchio prof si è confuso e ci è scappata una risata per tutti i genitori accorsi alla cerimonia della back to school night, l’occasione per papà e mamme di conoscere di persona gli insegnanti di scuola media dei propri figli all’inizio dell’anno scolastico.
Ivan è un signore di una certa età. Di origine ungherese. Quando parla inglese, il suo accento è bello spesso, più del mio che sono in USA da soli otto anni. Ivan è professore di scuola media. Ci racconta di come fosse un high-ranking official nell’esercito ungherese, del suo percorso accademico e della riscoperta della voglia di insegnare che lo ha portato a diventare, non più giovanissimo, prof di Civics nelle scuole medie della Virginia. Che signore in gamba, e molto simpatico per giunta!

Qual’è la situazione in Italia?
Lì per lì non ci penso, ma ci penso dopo, arrivato a casa. Ci potrebbe essere, o anche, sarebbe minimamente pensabile che l’insegnamento di una qualsiasi materia fosse affidato ad un docente non totalmente madrelingua in Italia?
La risposta me la do da solo. Sarebbe molto molto difficile. Se ci sono insegnanti non madrelingua in Italia, si tratta sicuramente di mosche bianche.
Insegnare l’italiano poi? No. Sarebbe impossibile. Il suo mancato madrelinguismo costituirebbe un ostacolo insormontabile al raggiungimento della qualifica prima, e all’ottenimento del posto poi. Se poi costui (o costei) arrivassero grazie alla loro perseveranza alla cattedra, sarebbero colleghi, genitori e forse i ragazzi stessi a demolirlo. Basterebbero un congiuntivo diafasico mancato, una concordanza scordata o, dio ci scampi, un qual’è apostrofato per far partire roghi e forconi verso il malcapitato.

“Chi non conosce l’italiano non può insegnare nulla ai nostri figli!”
Già me le immagino le urla dei genitori di fede salviniana, particolarmente se il malcapitato non fosse di razza bianca. E immagino la reazione dei presidi che, al di là di tutte le buone intenzioni, ci penserebbero due volte prima di accettare un non-madrelingua nell’organigramma della scuola.
È un bene o un male questo? È un male ovviamente. Malissimo. Abito in USA e sono io stesso uno straniero qui, anche se, magicamente, straniero non mi ci si sento. E questo non perché sia successo un miracolo, ma perché gli americani straniero non ti ci fanno sentire. Sia ben chiaro, anche gli statunitensi capiscono appena apri bocca se sei uno nato lì oppure se ti ci hanno portato dopo che hai maturato all’estero. Però sanno anche molto bene che il loro paese è multi-culturale e quella multiculturalità è in definitiva la loro forza.
Che gli americani siano arrivati a quel punto anche grazie alla presenza di insegnanti come Ivan F. che, anche da non-madrelingua, hanno avuto qualcosa da insegnare a generazioni di statunitensi?
Il che mi porta ad un’altra domanda: sarebbe questo un discorso da fare anche per l’Italia?
La risposta è sì. Sono il primo a schierarsi contro una certa ideologia che aprirebbe il paese ad un’immigrazione indiscriminata, ma, detto questo, occorre essere realistici: gli italiani tendono sempre meno a metter su famiglia e, quando lo fanno, più spesso che no arriva un figlio solo. Se volessi essere polemico, accennerei anche a quel pargolo che, crescendo viziato e coccolato, non avrà neanche tanta voglia di fare lavori che il principino (o la principessina) considera troppo umili. Ma non polemizziamo. Rimane il fatto che l’Italia ha necessità di importare nuovi italiani dall’estero per tirare avanti.

In questo contesto, è ovvio che solo recependo un po’ di slancio vitale per vie esogene si può sperare di rimanere nel novero degli altri paesi europei. Occorre che gli stranieri arrivati legittimamente in Italia siano ammessi alla pari nel mondo del lavoro. E quando dico mondo del lavoro non dico solo camerieri, badanti e sguatteri, ma anche ingegneri, medici, avvocati, notai e insegnanti. E quando dico stranieri, non intendo solo arabi, africani, cinesi e asiatici, ma anche francesi, spagnoli, tedeschi, danesi e inglesi, inclusi quelli che dovessero arrivare dopo la Brexit.
Del resto, quando penso ai tempi in cui bazzicavo ancora il mondo universitario estero, era comunissimo vedere ricercatori italiani, spagnoli, portoghesi, tedeschi, indiani, francesi e così via. Ma quanti ricercatori stranieri si vedono nelle università italiane? Direi pochi niente. Più niente che pochi. Segno che anche il mondo accademico italiano è un business di famiglia come lo sono i notai, le farmacie, gli insegnanti, i becchini e giù giù fino ai tassisti. Lasciare entrare gli stranieri in questo popò di business? Ci sarebbe da passare sul cadavere di molti.
E se la lingua fosse parte del problema?
Tra gli stranieri l’italiano gode di due fame in contraddizione tra loro: l’italiano è al tempo stesso una lingua facile e una lingua difficile.
Il fenomeno è facilmente spiegato: se si tratta di ordinare al ristorante, fare shopping o essere clienti, l’italiano è una lingua affascinante, musicale e dal vocabolario relativamente contenuto. Facile innamorarsene per uno straniero. E se qualche simpatico cliente di un altro paese sbaglia, non dico un congiuntivo, ma anche la coniugazione di un verbo, “lo corriggeremo”…o anche no. Chissenefrega, in fondo. L’importante è che paghi.
Se invece si tratta di lavorarci con la lingua per fare il bancario, l’avvocato, l’ingegnere, il notaio o l’insegnante, allora no. Allora non c’è il minimo sconto per lo straniero. E siamo pazzi? Abbiamo una barriera naturale per tenere gli stranieri alla larga dai lavori che piacciono agli italiani brava gente e ce la facciamo smontare così?
Mettiamo le cose nella giusta prospettiva
Se io fossi straniero, mi innamorassi dell’Italia e mi passasse per la mente l’idea di fare armi e bagagli e trasferire la mia vita e la mia carriera nel bel paese, ci penserei non una, ma due o tre volte prima di farlo… e poi mi rassegnerei. “Lascia stare, Luca”.
Prima ancora della lingua italiana e prima ancora dell’inglese (che gli italiani non accettano totalmente neanche a livello accademico), ci sarebbero problemi più grandi. Stipendi bassi e la consapevolezza che moltissimi dei soldi guadagnati finirebbero nel calderone delle pensioni italiane. Se buttassi decine di migliaia di euro in quel calderone oggi, ci sarebbe buona possibilità che non rivedrei nulla. Nel caso un po’ migliore rivedrei solo due lire (in senso figurato. O forse no?). E poi molti altri problemi di cui tutti sappiamo e su cui non serve approfondire qui.
Eppure anche la discriminazione linguistica nei confronti dello straniero è un problema.
Tempi duri per Ivan F. in Italia
Tornando col pensiero a Ivan F., forse è anche quello il problema dell’Italia: l’italiano. La lingua viene intesa come strumento con cui garantire che solo l’élite degli autoctoni abbia accesso a certi mestieri e ad una possibilità concreta di accedere all’ascensore sociale. “Se arrivi in Italia, devi stare fermo a fare lavoretti almeno per un turno!” (e, se blocchiamo la proposta di legge impropriamente chiamata ius solis, forse anche un turno e mezzo).
Il problema di tutto questo è che nel frattempo abbiamo un paese stagnante, provinciale, in cui non arrivano energie fresche da fuori e in cui le energie fresche formatesi in loco se ne vanno per godere all’estero dei benefici e delle possibilità che l’italia non concede ai figli degli altri.
Americani e inglesi vedono la loro lingua maltrattata ogni giorno, eppure nessuno correggerebbe un non-madrelingua in situazioni di vita quotidiana. Ed il motivo è presto detto: sono culture multirazziali e multiculturali che hanno fatto di questo la loro forza. E se il prezzo da pagare è stato un “involgarimento” della lingua (con particolare riferimento all’inglese americano), è stato un prezzo basso per costruire le fondamenta di nazioni solide. Nessun americano vede come un problema che uno non parli alla perfezione. Anzi. Spesso ne nascono domande sulla sua cultura, la sua provenienza, la sua storia!
“Where are you from, Luca?” mi ha chiesto al telefono uno di Atlanta con cui conferivo per la prima volta.
“Italy. Can you tell?” ho replicato.
“Well, you definitely don’t sound American, but you sound like one who’s been here for 25 years!”
Visto che sono qui da molto meno di venticinque anni, l’ho presa come un bel complimento. Quando mi chiedono da dove vengo, non è mai con la smorfia con cui lo potrebbe fare un italiano. Più spesso che no, gli americani sono affascinati dalle differenze culturali. E questo crea ricchezza culturale. Sempre.
L’Italia ha tremendo bisogno di essere protagonista del mondo L’atteggiamento snobbistico appare come il vezzo di un nobile decaduto impantanato in una dissonanza cognitiva che gli impedisce di portarsi al passo coi tempi.
Penso che questa situazione danneggi l’Italia e non sia nell’interesse di medio e lungo termine del paese. E neppure del breve termine, se è per quello.