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La verità su Aldo Moro: in via Fani, con le Br, malavitosi e servizi segreti

Quarant'anni dopo: intervista a Gero Grassi, membro della seconda Commissione parlamentare d'inchiesta su rapimento e morte dello statista Dc

Valentina BarresibyValentina Barresi
La verità su Aldo Moro: in via Fani, con le Br, malavitosi e servizi segreti

L'onorevole Gero Grassi (Pd) durante la deposizione di una corona di fiori in memoria di Aldo Moro in via Caetani a Roma nel 2017

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La fine di un uomo, l’annientamento di uno statista e della sua visione: sono trascorsi 40 anni dalla strage di via Fani, da quella mattina del 16 marzo 1978 in cui il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, venne rapito, e i cinque uomini della scorta uccisi, fino al ritrovamento del suo cadavere, avvenuto il 9 maggio in via Caetani a Roma. Per troppo tempo la verità ufficiale ha sostenuto che la mano principale dietro al sequestro e alla morte del fautore del “compromesso storico” fosse quella delle Brigate Rosse. Buona parte del dramma che paralizzò l’Italia e che si consumò in quei 55 giorni che separano via Fani da via Caetani rimane tuttora avvolto nell’ombra. Un caso contenuto in ben otto processi Moro, quattro commissioni terrorismo e stragi, due commissioni Moro, una commissione Mitrokhin e una commissione P2, che però non sono bastati a far piena luce su una delle pagine più grigie e inquietanti del Belpaese. Un tassello alla volta, la seconda Commissione d’inchiesta su Aldo Moro è riuscita però a fare emergere elementi nuovi, smontando pezzo per pezzo la versione conosciuta negli ultimi quarant’anni. Ad animarne il lavoro, in prima linea, Gero Grassi, vicepresidente del gruppo Pd della Camera, autore del libro “Aldo Moro: le verità negate”. Verità che Grassi non ha mai smesso di cercare in tutti questi anni, che passano per depistaggi, cospirazioni, morti sospette e menzogne, parte di un intrigo internazionale capace di tenere assieme tutti i poteri forti – politica, massoneria, servizi segreti, chiesa, criminalità organizzata – presenze costanti che si intersecano e si celano dietro ai più grandi misteri irrisolti della storia italiana recente.

Aldo Moro
Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse

Onorevole Grassi, quali sono le sostanziali novità e discrepanze che emergono dal vostro lavoro rispetto alla precedente Commissione Moro?

“Anzitutto, la certezza che in via Fani con le Brigate Rosse, e sottolineo con le Brigate Rosse, ci fossero soggetti terzi della malavita romana, della Banda della Magliana e i servizi segreti italiani e stranieri. Poi, la certezza che il Bar Olivetti non fosse chiuso al momento della strage, come si è scritto invece per 38 anni, ma fu l’epicentro del rapimento Moro, la centrale operativa, frequentata da brigatisti, Nar, uomini della ‘ndrangheta, Frank Coppola (mafia-siculo americana), Tano Badalamenti (mafia siciliana), e Camillo Guglielmi, vice comandante generale di Gladio. Le altre due grandi novità riguardano poi la prigione di Aldo Moro e la sua morte. Prigione che non dovrebbe essere quella di via Montalcini, ma in via Massimi 91 (alla Balduina, poco distante da via Fani, ndr.) dove peraltro è stato ospitato il brigatista Prospero Gallinari e dove aveva sede il palazzo dello Ior, in un complesso che godeva dunque della extraterritorialità. E poi la ricostruzione della morte di Moro che, così come i brigatisti Germano Maccari e Mario Moretti la descrivono, per il numero dei proiettili, per i proiettili silenziati, per il tempo, per il luogo, oggi non regge rispetto alle ultime prove. Loro dicono che è morto sul colpo e invece Moro è morto dopo 30 minuti di agonia. Loro parlano di 8-9 colpi e i colpi invece sono 12. Loro dicono che Moro era steso nella Renault e noi riteniamo che Moro fosse appoggiato alla Renault, che stesse fuori dalla vettura. Tutto questo ci induce a dire che in via Fani c’erano anche le Brigate Rosse, e che sul luogo della morte invece mancavano le Brigate Rosse. Anche perché ci sono due testimoni: don Fabio Fabbri, assistente del cappellano don Curioni, che descrive l’omicida senza però fare il nome. E poi c’è un professore che addirittura fa il nome. E c’è Cossiga che in un’intervista televisiva dice: ‘Io ho conosciuto chi ha rapito e custodito Moro, non ho conosciuto chi l’ha ucciso’, e aggiunge: “E’ morto poco tempo fa”. Lui ha conosciuto tutti i brigatisti. Mettendo a confronto l’intervista con la rilevazione sulla morte di Moro viene fuori che questa persona potrebbe essere Giustino De Vuono, ‘ndranghetista calabrese”.

Qual è la portata del ruolo della ‘ndrangheta e della mafia nel caso Moro?

“La ‘ndrangheta frequentava il bar Olivetti, riciclava armi giocattolo che poi diventano armi che sparavano. Ci sono delle intercettazioni telefoniche del tempo rispetto alle quali il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria e procuratore nazionale antimafia ha evidenziato in commissione che la ‘ndrangheta seguiva il caso Moro e partecipava – non sappiamo in che misura – alla vicenda. Ci sono ad esempio i viaggi sospettissimi, nei 55 giorni, di Moretti in Calabria e in Sicilia. La ‘ndrangheta, come la mafia e la camorra entrano nel caso Moro. Certamente non sono stati loro a organizzare il rapimento”.

A oggi quali sono le responsabilità accertate dietro al rapimento e all’uccisione del presidente?

“Il caso Moro è un intrigo internazionale che vede la partecipazione di Cia, Mossad, Kgb, servizi segreti inglesi e francesi. Chi in senso attivo, chi in senso omissivo, ha partecipato alla vicenda del rapimento e dell’omicidio. In tutto questo ci sono anche responsabilità di pezzi della magistratura italiana, pezzi delle forze dell’ordine, mentre la cupola maggiore è la P2, che poi è il governo di tutti questi fenomeni criminali”.

caso-moro-a
Roma, Via Fani, 16 marzo 1978

Sono trascorsi quarant’anni e dalla scena mancano, tra i tanti, due personaggi chiave, su cui permangono ombre e interrogativi: uno è l’allora ministro degli interni Francesco Cossiga, di cui si sostenne una responsabilità morale dell’omicidio Moro, l’altro è il presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Quale il ruolo di entrambi, quali le colpe?

“Cossiga riunisce un comitato di emergenza formato da 40 piduisti (comitato dal quale, sosterrà Steve Pieczenik, funzionario della sezione antiterrorismo del Dipartimento di Stato americano, avvennero fughe di notizie, ndr.).  Potrebbe fare delle cose che non fa per cercare Moro, lui spera che lo salvino. Non è stato lui ad ucciderlo, come pure Cossiga stesso dice, però certamente non ha fatto nulla per evitare che lo uccidessero. E in questo ha agito in perfetta intesa con un altro parlamentare, con il quale costituiva una coppia di fatto, l’onorevole Ugo Pecchioli, del Partito comunista italiano. Quanto a Giulio Andreotti, lui era il presidente del Consiglio e dagli atti risulta che il suo governo non si è impegnato per la liberazione di Aldo Moro. Ha fatto “confusione”, per così dire. Andreotti ha le sue responsabilità. La vicenda Moro è stata gestita da Cossiga d’intesa con Andreotti e con Pecchioli dall’altro lato”.

Sul caso Moro sono decine i nodi irrisolti. Tra i tanti, quello relativo al brigatista Alessio Casimirri, oggi libero in Nicaragua…

“Casimirri fu arrestato dai carabinieri, individuato in via della Conciliazione a Roma su segnalazione del dottor Cherubini, padre del cantante Jovanotti e amico del padre di Casimirri che era cittadino vaticano. Ma poco dopo l’arresto venne inspiegabilmente rilasciato. La cosa più grave è che lo Stato italiano non ha mai chiesto la sua estradizione, se non attraverso il ministro degli Esteri Gentiloni quando in commissione l’abbiamo domandata nel 2016. Dal 1981 al 2016 nessuno l’aveva mai fatto”.

Alla luce del lavoro svolto e dei punti chiave sollevati dalle vostre indagini, lei pensa che un nuovo governo potrebbe dare impulso alla ricerca della verità?

“D’impulso non credo che ci sarà più un’altra Commissione Moro. Innanzitutto perché il mio partito non mi ha ricandidato. Se dopo 500 manifestazioni, non mi ricandida significa che non crede alla possibilità di continuare. Quindi non credo proprio che quelli che arriveranno possano impegnarsi a trovare i pezzi mancanti sul caso Moro”.

Come si collocano gli Stati Uniti in questo intrigo internazionale che lei ha tratteggiato?

“E’ emblematica la frase che Henry Kissinger rivolse ad Aldo Moro il 25 settembre del 1974: ‘Presidente, lei deve smettere di perseguire sul piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. O la smette, o la pagherà cara’. Questo fu l’avvertimento ufficiale. Gli Stati Uniti non volevano né l’Europa dei popoli, che era l’obiettivo di Moro, né la democrazia compiuta in Italia. Ovviamente anche per gli Stati Uniti non si può generalizzare. Parliamo di Henry Kissinger, del quale noi abbiamo chiesto la rogatoria internazionale ma che non ci è stata concessa”.

Nella sua ricostruzione dei fatti e della figura di Aldo Moro lei ha anche accostato il presidente della Dc a John Fitzgerald Kennedy…

“Per la storia Kennedy e Moro sono le uniche due persone che hanno battuto moneta non passando per le banche centrali: Kennedy per i due dollari nel 1961 non passò dalla Federal Reserve, e Moro per le 500 lire del 1966 non passò dalla Banca d’Italia. Ricordo poi un episodio, quello del 14 marzo 1978, due giorni prima del rapimento: Moro era all’università a Roma e il suo assistente, Francesco Tritto, gli disse: ‘Presidente, si ricorda che dopodomani ci sarà la sua ultima seduta di laurea?’. ‘Perché l’ultima?, gli chiese Moro. ‘Perché lei a giorni sarà eletto presidente della Repubblica’. E Moro rispose: ‘La ringrazio, lei è affettuoso ma ingenuo. Io non farò mai il presidente della Repubblica. Mi faranno fare la stessa fine di John Fitzgerald Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre del 1963”.

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Valentina Barresi

Valentina Barresi

Valentina Barresi è corrispondente dall'Italia per La Voce di New York. Giornalista dal 2008, s'interessa d'attualità, cultura, esteri e mafie. Vincitrice della 28esima edizione del premio "Mario Formenton", ha scritto per la Repubblica, America 24, il Giornale, la Sicilia e ha collaborato con gli uffici stampa dell'Ambasciata d'Italia a Washington DC e di Oxfam Italia. Tra le città in cui ha vissuto, ci sono Palermo, New York, Roma, Milano, Lussemburgo. Peregrina per necessità o diletto, non ha ancora trovato il suo "centro di gravità permanente", sebbene la Sicilia rimanga per lei l'ombelico del mondo.

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