Per farsi un’idea del clima che si respira negli States dopo la pubblicazione dei 2.891 documenti sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, un primo aiuto, certo propedeutico a maggiore approfondimento, più giungere dai titoli dei principali quotidiani a stelle e a strisce. La scelta della CNN, in particolare, è indubbiamente significativa:“Incomplete JFK file doesn’t provide the drama Trump promise”. Un titolo che sembra voler “sgonfiare” la tensione accumulata nei giorni immediatamente precedenti alla pubblicazione, suggerendo che la promessa indirettamente fatta in un suo recente tweet da Trump, il quale aveva preannunciato la lettura dei file come “so interesting!”, sia stata clamorosamente disattesa.
L’osservazione con cui la popolare emittente americana ha scelto di titolare il suo pezzo può essere sì condivisibile (nessun grande scalpore mediatico, nonostante le attese, sembrano aver provocato quelle pagine), ma soltanto a una lettura veloce, e forse superficiale, dell’imponente quantità di documenti rilasciata poche ore fa. È vero: non c’è alcuna prova incontestabile del fatto che Lee Harvey Oswald non abbia agito da solo; eppure, diversi passaggi corroborano l’idea dell’esistenza di una trama molto più ampia di quella ufficializzata (per ora) dalle commissioni istituite dalla Casa Bianca o dal Congresso. Oltretutto, il sospetto più grande, più da quello che possiamo leggere, viene da ciò che ancora non c’è: perché, come era facilmente prevedibile, non tutta la massa di documenti su JFK è stata infine pubblicata, nonostante gli annunci in pompa magna del presidente Donald Trump. All’ultimo minuto, a causa del pressing di CIA e FBI, i programmi sono clamorosamente cambiati, e tutta una serie di file che avrebbero potuto “mettere a rischio la sicurezza nazionale” sono stati esclusi dal plico oggi a disposizione dell’opinione pubblica, e destinati a un attento “taglia e cuci”. Circostanza di fronte alla quale il Presidente ha provato a giustificarsi venerdì mattina in meno di 140 caratteri, promettendo in un tweet che “alla fine ci sarà grande trasparenza” e augurandosi (“I hope”) di poter presto rendere pubblico tutto il materiale.

Ma al di là di quello che ancora non abbiamo – e che è certo il materiale più “scottante” – , nella gran massa dei file pubblicati emergono alcune “non notizie”, che pure hanno conquistato titoloni e prime pagine, e diverse “notizie”, alle quali la stampa internazionale sembra aver dato incomprensibilmente poco rilievo. Una delle “non notizie” riguarda il piano della CIA, in collaborazione con la mafia italiana, per assassinare Fidel Castro. Vicenda che ha fatto molto scalpore sulla stampa americana, ma sulla quale, in realtà, esistono da tempo dei documenti della stessa CIA, resi pubblici nel 2007, noti come “The Family Jewels”. Tale, per così dire, “rivelazione” tardiva assumerebbe invece un ben più rilevante significato qualora rivelasse come i piani dei servizi per assassinare Castro avvalendosi dell’aiuto della mafia potessero facilmente essere destinati ad altra, e ancora più clamorosa, vittima.
Tra le notizie, ben più interessanti, alcune meritano particolare attenzione. Come il memo di J. Edgar Hoover, potente direttore dell’FBI, nel quale si ricorda che l’ufficio di Dallas aveva ricevuto una telefonata anonima da parte di una persona che diceva di far parte di un gruppo organizzato per uccidere Oswald: “Abbiamo mandato notifica al capo della polizia e ci ha assicurato che Oswald sarebbe stato protetto a sufficienza. Questa mattina abbiamo chiamato nuovamente il capo della polizia avvisandolo della possibilità di qualche iniziativa contro Oswald, e nuovamente siamo stati rassicurati circa l’adeguata protezione. Tuttavia, ciò non è stato fatto”. Il memorandum è datato 24 novembre 1963, proprio il giorno in cui Oswald fu ucciso da parte di Jack Ruby, controverso proprietario di un night club, nella centrale della polizia di Dallas, mentre stava per essere trasferito nella prigione della contea. Circostanza tutt’altro che secondaria, Hoover scrisse, quasi “profeticamente”, di temere che nascessero teorie del complotto dopo l’uccisione di Oswald. Dai documenti, emerge infatti una frase “sibillina” del capo dell’FBI che lascia intendere la sua alacrità nel far sì che all’opinione pubblica non affiorasse alcun sospetto riguardo all’esistenza di eventuali autorevoli mandanti: “Sul caso Oswald non c’è altro da sapere se non il fatto che è morto”, affermò icasticamente. Una frase che agli italiani divenne familiare ben tredici anni prima.
Ma l’elemento ancora più straordinario, a cui pochi, stranamente, hanno dato il meritato risalto, è la notizia di un presunto incontro tra l’agente di polizia di Dallas J.D. Tippitt, ucciso da Oswald poco dopo l’assassinio di Kennedy, e Ruby, avvenuto nel club di quest’ultimo, pochissimo tempo prima dell’attentato che stroncò il Presidente. Proprio su questa circostanza, Hoover chiese all’FBI di effettuare un controllo, ma in effetti non sappiamo ancora come andò a finire. E chissà se questo controverso incontro potrà in qualche modo dar seguito alle teorie, tradizionalmente etichettate come “complottiste”, secondo cui Tippitt fosse stato in realtà assoldato proprio per uccidere Oswald.
Nei file pubblicati, emergono anche voci e testimonianze capaci di allungare un’ombra scura sulla figura del presidente Lyndon Johnson. Il quale, si evince dai documenti, era considerato dal KGB il vero mandante dell’omicidio di Kennedy, secondo il memorandum datato 1 dicembre 1966. L’agenzia sovietica, in particolare, pareva essere a conoscenza dei pessimi rapporti tra il presidente Johnson e la famiglia Kennedy, in particolare nella persona di Robert, ministro della Giustizia. I russi ritenevano peraltro che gli americani intendessero utilizzare l’uccisione di Kennedy per soffiare sul fuoco dei sentimenti anti-sovietici diffusi nel Paese. Ma c’è addirittura chi accosta Johnson al Ku Klux Klan. In un report datato maggio 1964, un informatore ha rivelato all’FBI la presunta appartenenza del successore di Kennedy al movimento razzista, appartenenza che sarebbe corroborata da “prove” nelle mani degli stessi incappucciati. Quanto a Oswald agente della CIA, tra i file vi è un estratto di una deposizione a una commissione del Congresso, avvenuta nel 1975, di Richard Helms, ex direttore dell’Agenzia, a cui era stato chiesto conto dell’esistenza di qualche informazione, in merito alla morte di Kennedy, che dimostrasse che Oswald fosse stato assoldato dalla CIA. E proprio in quel punto, il documento della deposizione è stranamente tagliato.
Facendo una tara dei file ad oggi pubblici e di quelli che ancora mancano all’appello, nel marasma di intricate informazioni che si possono trovare nei JFK Files, il quadro che emerge non è forse di quelli più lapariani, ma è di certo inquietante. Anche perché, al rapporto in sé, va aggiunto lo sfondo politico, che può restituire a sua volta qualche dettaglio interessante. Ci sarebbe da capire, ad esempio, perché proprio Donald Trump, e non il carismatico Obama, o l’affidabile Clinton, ha deciso alzare il tappeto, pur dovendo poi cedere alla richiesta di CIA e FBI di rinunciare alla pubblicazione di una consistente parte dei file. Per rispondere a questa domanda, sarebbe semplice citare, come ragionevole spiegazione, il fatto che Trump è stato eletto come outsider, anti-establishment, e abbia trovato nel “revival” della vicenda di JFK un’occasione d’oro per assestare un bel colpo all’odiato “sistema” – di cui però, non dimentichiamocelo, almeno da quando è entrato alla Casa Bianca fa parte anch’egli –. Si potrebbe anche citare la sua natura da “complottista”, non solo sul caso Kennedy, e non a caso riconosciutagli all’unisono da tutti i principali giornali americani. Il Washington Post, addirittura, lo definisce “il Presidente più cospirazionista” dai tempi di Richard Nixon.

Eppure, scavando un po’ più a fondo, si scopre che un consigliere e amico di Trump è Roger Stone, già enfant prodige e collaboratore di Nixon, nonché autore del volume The Man Who killed JFK: the Case Against LBJ, la “bibbia” di tutte quelle teorie che vedono nel successore di Kennedy, Johnson, il vero mandante dell’omicidio, compiuto con la complicità di CIA, FBI e della mafia di New Orleans. Del resto, di Nixon (che, in qualità di Presidente, dev’essere entrato in possesso dei file su JFK) sono famose le nemmeno troppo implicite accuse dirette al suo predecessore. In questo delicatissimo quadro, a noi della Voce due domande sorgono spontanee. Primo: è possibile che la decisione di Trump di rendere pubblici documenti potenzialmente esplosivi possa corrispondere a una mossa calcolatissima della sua “guerra personale” con le agenzie del cosiddetto “Deep State”? Secondo, ancora più in là: è immaginabile che la pubblicazione o meno dei file possa costituire una vera e propria strategia di Trump per impedire che la storia di JFK – il Presidente che, dopo il fallimento dell’invasione di Cuba, aveva detto che la CIA “l’avrebbe fatta a pezzi e gettata al vento” – si ripeta, proprio sotto la sua presidenza?
SABC News interview with Stefano Vaccara
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