Martedì sera Barack Obama ha pronunciato a Chicago il tradizionale “farewell speech”, il discorso con cui tutti i presidenti danno il loro “addio ufficiale” alla nazione. Ascoltandolo, non si poteva non essere colti da un velo di emozione.
E non solo per l’eloquio brillante, che ha reso Obama uno degli oratori più abili tra i presidenti americani della storia recente, ma perché presto sentiremo una tremenda mancanza dello stile, della sobrietà e della dignità con cui ha ricoperto il nobile ruolo della presidenza.
La Storia, ovviamente, deve ancora giudicarlo. La sentenza dei posteri arriva sempre in ritardo, e non è mai a senso unico. Nella biografia politica di un presidente, ci saranno sempre luci e ombre. Lyndon Johnson ridusse la povertà in modo drastico, introdusse il Civil Rights Act aprendo la strada alla piena parità razziale, eppure fu anche il principale responsabile della folle escalation della guerra in Vietnam; Richard Nixon, con lo scandalo del Watergate, gettò una luce sinistra sulla presidenza e fu costretto a fare una fine umiliante, eppure oggi la sua visione in politica estera è giustamente rivalutata, insieme ad alcune riforme interne (come la creazione dell’Agenzia per la Protezione Ambientale); Ronald Reagan contribuì alla decisiva sconfitta dell’URSS nella Guerra Fredda, eppure paghiamo ancora oggi le conseguenze di alcune delle sue politiche economiche. E l’elenco potrebbe continuare.
Nel caso di Barack Hussein Obama è ancora presto per rispondere. Ciò non può esimerci, però, dal dare un primissimo bilancio sull’eredità che lascia al proprio successore. Quando fu eletto presidente, appena 8 anni fa, Obama ereditò un paese a pezzi: l’economia stava vivendo la crisi più dura dai tempi della Grande Depressione, con un’emorragia di 800.000 posti di lavoro persi al mese, e la campagna militare in Iraq, con il suo immenso tributo di sangue, aveva risvegliato nei cuori degli americani l’incubo del Vietnam.
Di fronte a una situazione così difficile, lo slogan di quel giovane e brillante senatore afroamericano, “Yes We Can”, ammaliò gli States, ridando coraggio e speranza a un’America in crisi. Da allora, l’economia del paese si è rialzata. Basta dare un’occhiata ai dati di dicembre per rendersi conto di come, tra mille problemi e frustrazioni, gli USA continuino a essere forti: i nuovi posti di lavoro sono stati solo a dicembre 156.000; il tasso di disoccupazione è ora al 4,7%, vicino ai livelli di piena occupazione; anche i salari sono saliti, seppur ancora troppo lentamente. A guardarla dall’Italia, poi, la situazione americana sembra quella di un eldorado.
Nondimeno, la vittoria di Donald Trump ha dimostrato come la working class degli Stati Uniti si senta smarrita, schiacciata da politiche economiche liberiste che Obama non ha saputo (e forse anche voluto) fermare. Non essere andato fino in fondo nella rivoluzione che aveva promesso a inizio mandato, l’essersi appiattito in molti casi “al centro”, cercando un impossibile compromesso con i repubblicani, ha infatti deluso la base più progressista del paese (sopratutto i giovani) e forse, a guardarsi indietro, lo stesso presidente avrebbe osato di più.
Ma se in politica interna il bilancio è nel complesso positivo, è purtroppo in politica estera che Obama ha compiuto in questi anni i maggiori errori. Pur avendo eliminato Osama Bin Laden, rendendo finalmente giustizia alle vittime dell’11 settembre, gli USA non hanno recuperato il ruolo di “guida” del mondo occidentale (diplomatica e strategica prima che militare), e gli effetti di questo spaesamento sono sotto gli occhi di tutti.
Dal disastroso intervento in Libia, in cui per la prima volta dal 1956 gli americani si sono lasciati trascinare dai francesi in un conflitto inutile (e che ha portato instabilità e terrorismo alle porte dell’Europa) alla tragica ferita ancora aperta della guerra civile siriana, passando per i rapporti con la Russia, ai minimi storici dai tempi della Guerra Fredda.
Solo in futuro saremo in grado di giudicare Barack Obama con occhi più lucidi, confrontando la sua presidenza non solo con ciò che c’era prima, ma anche con ciò che è venuto dopo.
Per ora possiamo solo dirgli grazie, perché una cosa è certa: qualunque sia il giudizio politico sul suo operato, ha servito la nazione con onore.